Asociali / Rom, anatemi, tweet e paura

Non si sono oscurate d’improvviso le luci del cielo, né per le strade si sono levate barricate. La storia e lo sguardo retrospettivo consentono di vedere con chiarezza i fenomeni, stabiliscono gli inizi, il decorso, la durata. Rintracciano le radici. Forse dovremmo, con coraggio, provare a fare uno sforzo di immaginazione: proiettarci un poco più in là e guardare al nostro tempo.

 

Così, Aquarius che attracca a Valencia perché un uomo solo dice “chiudete i porti”, lo dice come un grido, lo dice al di fuori di ogni cornice istituzionale, lo dice con un hashtag, ci apparirebbe più chiaramente come un momento simbolico che segna un punto della nostra storia nel quale tutti siamo chiamati a una responsabilità civile più grande. Non ci è bastato? È lo stesso uomo che lancia un nuovo messaggio: schedatura etnica. Poi si ravvede, e Di Maio plaude a questa marcia indietro. Lo conosciamo questo procedimento: dire, testare le reazioni, fomentare l’elettorato, inventare nuovi slogan così da aizzare la folla. Poi ritrattare perché anticostituzionale: qualsiasi censimento su base etnica, infatti, viola, oltre a misure strettissime relative alla privacy, l’articolo 3 che vuole che tutti i cittadini abbiano pari dignità sociale e siano eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

 

Già, la Costituzione. La nostra responsabilità sta in questa enorme differenza rispetto agli anni venti del Novecento. La Carta Costituzionale: perché quel che è successo non si ripeta più. E allora come è possibile che i modi i toni e i contenuti possano calpestare tutto quello su cui quel documento è fondato? È ingenuo pensare che un Ministro della Repubblica che fa propaganda dalla sede del proprio partito ed evita i luoghi deputati, dimenticandosi la sua veste istituzionale, debba essere ammonito? Perché i politici parlano attraverso twitter? Perché stiamo facendo dei social network il luogo del dibattito e stiamo consentendo la delegittimazione di ogni discorso (come ha scritto molto bene Giuseppe Genna: la delegittimazione della stessa forma discorsiva)? Perché la sinistra non mobilità le piazze? Perché il Papa in questo momento storico così grave pronuncia le frasi più reazionarie dette dall’inizio del suo pontificato? Non parliamo di fascismo, se questa parola ci dà fastidio, se in questo modo gridiamo “al lupo! al lupo!”, e creiamo il mostro che invece, non nominato, non esisterebbe più. Può darsi che questo sia vero, ma questa ansia di delegittimare tutto, siamo sicuri che sia utile? Certo, sarebbe bello poter invitare a delle prassi: usciamo tutti dai social network, smettiamo un dire che guarda al dire degli altri dove perdiamo il coraggio delle posizioni, lasciamoli da soli a gridare e forse non grideranno più. L'impressione è che tuttavia questo non accada, che ci resterebbe, come spesso, soltanto la pars destruens: resteremo a non dire niente, perché niente può essere detto e perché un pezzo di responsabilità è di tutti. Tutto è stato detto, diceva Jean Paulhan. Probabilmente. Se le parole non avessero cambiato senso, e i sensi, parole, concludeva. Un discorso politico sui social network, una confusione di dichiarazioni, un linguaggio che invita alla bagarre e esalta l’ignoranza, chiede che sia indicata un'alternativa agli schieramenti e alla guerra, alternativa che è prima di tutto una seria critica al nostro uso delle forme del linguaggio. Piero Gobetti, definendo il fascismo autobiografia dell’Italia, ha scritto che una nazione che rinuncia alla lotta politica è una nazione che vale poco; lotta che ha significato, sin dai primi mesi di opposizione “combattere Mussolini come corruttore, prima che come tiranno […] rivolgere la polemica contro gli italiani che non resistevano, e si lasciavano addomesticare”.

 

Ottant’anni fa il censimento degli ebrei anticipò di qualche mese le leggi razziali.

Oggi non sono più i meridionali i nemici parassiti dello Stato – come voleva il nostro Ministro degli Interni non troppi anni fa. I loro voti, del resto, si sono rivelati fondamentali.

E tuttavia ogni propaganda si nutre di un nemico: la lotta contro l’esterno, la lotta per affrancarsi da qualsiasi pericolo di contaminazione, garantisce – Freud lo aveva messo in luce molto chiaramente nell’io come nei legami sociali – il rafforzarsi dei legami interni, l’irrigidimento paranoico identitario. Generare paura per produrre consenso, generare paura per restare in un perpetuo movimento di frasi ad effetto che distraggano l’opinione pubblica. L’antisemita ha “la disgrazia di avere vitale bisogno del nemico che vuole distruggere” per espellere, in un nemico esterno, il carattere erratico che lo abita e potersi così presentare come soggetto di diritto.

 

I migranti, prima; i rom, ora. I rom contro cui perdura da sempre il pregiudizio più ostinato e radicato. Chi può dare loro voce? Chi spenderà una parola per difenderli?

I rom contro i quali si è perpetrata l’unica altra persecuzione, in epoca nazi-fascista, dettata da motivazioni razziali.

E tuttavia, allora come ora, nel caso degli zingari la razza non era la ragione dichiarata, ed anche questo ha contribuito al fatto che il loro sterminio, rispetto a quello ebraico, sia passato per lungo tempo sotto silenzio. È soltanto alla fine degli anni Settanta del Novecento che si è cominciata a testimoniare l’esistenza di misure di internamento imposte dal governo fascista, soltanto dopo che si erano comprese le proporzioni del genocidio subito dai rom in tutta Europa: vennero uccisi oltre 500.000 zingari.

 

 

“Asociali”, era il capo di imputazione: contrassegnati dal triangolo nero, affiancato spesso dalla lettera “Z”: “Zingari”. Non assimilabili, diversi; un’accusa che consentiva di inserire la loro persecuzione nelle misure di lotta alla criminalità: si trattava di epurare il territorio dalla presenza di zingari di cui è nota la pericolosità direttamente derivante dalle loro abitudini di vita. Allora come ora. E tuttavia questa asocialità era “genetica”, di sangue. Del resto poi le motivazioni razziali si sarebbero fatte esplicite – è sempre del 1938 il decreto risolutivo della “questione zingara” a firma di Himmler – e poco importava, alla Germania nazista, che gli zingari, appartenenti al ceppo indoeuropeo, fossero ariani: sarebbe stato sufficiente imputare al nomadismo che li caratterizza la perduta “purezza”, nomadismo che li avrebbe contaminati, resi “miscuglio razziale irrecuperabile” (nelle leggi di Norimberga appartengono al gruppo definito di sangue misto e degenerato). Ecco perché era necessario procedere alla sterilizzazione coatta di tutta la popolazione, i bambini al compimento del loro dodicesimo anno. Anche il vocabolario nazista parla di “censimento”. Gli zingari vengono perseguitati in tutti i territori occupati dai nazisti, deportati nei campi di concentramento. Il governo fascista diede ufficialmente inizio all’internamento civile di rom e sinti in Italia l’11 settembre 1940. Tra il 1941 e il 1942 la loro sorte è definitivamente assimilata a quella degli ebrei. Nel 1943 una nuova ordinanza impone che siano deportati ad Auschwitz, dove esiste una sezione a loro riservata: Zigeunerlager. In questa parte di campo, colpevoli di aver macchiato la razza pura, colpevoli di degenerazione, saranno abbandonati alla loro sorte di morte o utilizzati, i bambini soprattutto, come cavie da laboratorio.

 

Nel maggio del 2008, a Ponticelli, prima periferia ad est di Napoli, bruciano in un rogo le baracche rom: è una spedizioni punitiva ad opera degli abitanti locali. La prima, ne seguiranno altre. La ragione? Una donna, con una versione poco convincente e rimaneggiata più volte, ha accusato Maria, una ragazzina rom di quindici anni, di aver tentato di rapire sua figlia. Il 13 gennaio 2009 un giudice del tribunale per minorenni di Napoli ha condannato Maria a tre anni e otto mesi di carcere. Maria è stato portata nel carcere minorile di Nisida. Si è dichiarata innocente e la condanna è avvenuta su base indiziaria, ovvero sulla “percezione” della madre della bambina: che motivo avrebbe la madre di mentire? Questa la prova di verità addotta. La condanna è confermata in appello, e motivata dalla “persistente organicità” della ragazza con la cultura rom che è una cultura “portata a violare le regole”. Secondo uno studio realizzato dall’università di Verona per la fondazione Migrantes, il cento per cento delle accuse di tentato rapimento da parte di donne rom, presentate in Italia dal 1986 al 2007, è risultato non fondato.

 

Frasi da stadio che possono essere dette senza responsabilità alcuna individuano un colpevole, il capro espiatorio di tutti i mali. Da qualche parte è vagheggiato un mondo in cui senza immigrati, senza rom, senza una nuova categoria di ultimi fabbricata per l’occasione, tutti avremo finalmente un lavoro e la società sarà libera dal male. Poco importa che i dati non confermino in alcun modo questi assunti: il malcontento è soddisfatto e le proposte politiche – frutto di quel lavoro per il quale sarebbe necessaria competenza e sapere e studio e riflessione – possono restare marginali. In assenza di una adeguata sensibilizzazione alle differenze, a stili di vita, culture, religioni eterogenei e diversi, una sensibilizzazione che è l’unica risorsa, precaria ma insostituibile, per organizzare la convivenza nelle nostre società; in assenza di un avvicinamento dell’altro che metta tutti in una condizione di conciliazione, la segmentazione che trasforma la società in una somma di ghetti è ineluttabile. Ora sono i rom, domani chi altro?

 

“Mi rifiuto di pensare che la nostra civiltà democratica sia sporcata da leggi speciali contro i popoli nomadi. Se dovesse accadere mi opporrò con tutte le energie che mi restano”. Lo ha detto Liliana Segre nel suo discorso da “anziana nonna”, per dare un “modesto contributo” alla realtà parlamentare, lo ha detto in questo 2018 iniziato tanto male, invitandoci a non anestetizzare le coscienze e a farci guidare dalla fedeltà ai vitali principi dettati dalla Costituzione Repubblicana. Chi ha vissuto un modo della corruzione – per traslare le parole di Gobetti –  quando torna a vederlo, sa riconoscerlo.

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