Nicola Gardini / Viva il latino

10 Marzo 2017

Viva il latino è una gioiosa dissertazione dedicata a una lingua data per morta. Non si tratta però di epitaffio, bensì di lettera d'amore, di quelle che nel corso dei secoli altri innamorati folgorati dal suo mistero e dalla sua esattezza le hanno spedito. Ma è anche una decisa presa di posizione, una romantica battaglia per non lasciar morire, cessando di prestarvi ascolto, il “più vistoso monumento alla civiltà della parola umana e alla fede nelle possibilità del linguaggio”.

Anche qui, come in ogni sentimentale dichiarazione e in ogni difesa appassionata, c'è dell'autobiografia, la narrazione in filigrana di tutte le fasi dell'innamoramento, ma la forza dell'argomentazione è tutta nella voce degli autori che Gardini interpella e lascia parlare, cercando di tradurne discorsi e segreti. Ogni capitolo è un piccolo monumento a un autore, a un momento del latino e a quella densità propria di qualunque grandiosa manifestazione letteraria (o naturale) che si realizza conservando dentro di sé tutto lo sforzo, le circostanze, il tempo e i fallimenti passati.

 

Parte di quello sforzo tocca anche a chi ne raccoglie l'eco, si replica nella fatica ermeneutica e nella disposizione all'ascolto e all'interpretazione; in questo esercizio di amore e comprensione sta tutta la ricchezza della nostra specie. Anche questo è il latino, un allenamento all'ascolto, alla pazienza, all'impegno, e avvicinarsi agli autori latini è fare esperienza di storicità, di distanza e di illusioni prospettiche. «Credere che un autore antico possa ancora dirci qualcosa è sicuramente un gesto critico di grande importanza, anzi, è necessario, ma le attualizzazioni, le addomesticazioni vanno evitate» scrive Gardini, e per immettersi felicemente nel flusso della storia bisogna evitare appunto di forzare quelle voci remote per farle entrare nella modernità, bisogna farsi antichi, dimenticare le “nostre irresponsabili pretese di assolutezza”. Un'altra lezione del latino: aprirsi all'altro, coprire andando verso di lui la distanza che ci separa, anche quando la strada è lunga e accidentata.

 

Viva il latino è un libro denso e polifonico che causa vertigine ed eccitazione. Leggerlo è prendere parte a una conversazione remota, un dialogo ininterrotto che dura da secoli. Interrogarlo serve a tenerlo vivo; fermarlo significherebbe cedere a un istinto autodistruttivo tipico della nostra storia, istinto che la letteratura, pratica di relazione pacifica e rispettosa, aiuta a contenere. 

Il latino di Gardini è il latino di Cicerone, lingua della giustizia, dell'intelligenza e dell'onestà, ma anche dell'immaginazione, che fa l'uomo un po' simile a dio; è il latino di Cesare, linguaggio che è “ponte, muro, nave, che congiunge, contiene, traghetta”; è Giovenale e il suo latino satirico che si riempie di cose e anche Tacito e la sua inebriante rapidità bucherellata di lacune. È il latino di Lucrezio che spiega le ferite della natura umana ed è quello di Sant'Agostino, scienza dell'interiorità, scrigno di memoria e trascendenza. Il latino di Gardini è stratificazione, anfiteatro, museo, repertorio di tutto ciò che sappiamo del mondo, di noi e delle nostre più intime verità; sprofonda nel tempo e come una sorgente affiora e genera altra lingua, altro pensiero, altra vita (e non può dirsi morta una lingua che sgorga, che parla, che concepisce).

 

 

Costruito su quello che pare un cimitero silenzioso, il libro è attraversato da una narrazione che contiene la storia degli uomini e forse anche parte del loro destino. «Le parole più antiche della nostra lingua sono come le case abitate dai fantasmi» dice Gardini, e chi tende l'orecchio può udire cigolii e sussurri e scorgere il balenio di meraviglie sepolte. In fondo, grossa parte della fascinazione del latino appartiene a quel tipo di bellezza propria dei reperti, di ciò che si è salvato, che è scampato alla distruzione della storia e «studiare il latino significa anche questo: venire a patti con la perdita, imparare a gioire del poco che la fortuna ci ha lasciato, rispettarlo, averne cura».

Anche per questo la maniera migliore di avvicinarglisi non è quella razionale e sterile, tipica delle metodologie didattiche più stantie, ma è quello spirito con il quale ci si accosta alla rivelazione di qualcosa di indecifrabile e remoto: «anche quando il significato di tutte le parole è rivelato un mistero rimane; un alone, un'ombra, comunque si voglia chiamare l'atmosfera gassosa che circonda la concatenazione dei segni e dei suoni e che appartiene a una fase primitiva del linguaggio, quando i simboli grafici non sono ancora associati automaticamente a certi significati». 

Il latino è un mausoleo nel quale entrare con rispetto e stupore, disposti a fare esperienza di mistero e meraviglia, addentrandosi in un mondo di luminosità e di ombre, in quell'oscuro occultamento che fa presagire un altrove rivelato in abbaglianti squarci di luce.

 

Il latino coincide con il pensiero umano, con domande e palpitazioni antiche come la specie. Parla di guerra, di eros, di civiltà, di morte, di memoria e si spinge ben oltre gli stretti confini del mondo fisico, gonfiandosi tanto quanto può l'umana immaginazione e arrivando a sfiorare la trascendenza e il divino. Se il linguaggio poetico di Lucrezio è rappresentazione in scala ridotta dell'universo, perché il creato è scrittura e la scrittura è il creato, Seneca riesce a realizzare l'incantesimo, proiettando l'uomo nella volta celeste e collegando, prima di ogni scientifica prova empirica, l'uomo e le sue vicende personali con l'ordine cosmico «che tutto trascende ma a tutto, anche, conferisce dignità e profondità più che terrena».

Nella vastità vertiginosa della prosa di Seneca, il cui esilio è sineddoche del moto universale, sta la prova che «tutto nell'universo muta collocazione inarrestabilmente, tutto si muove, la mente stessa dell'uomo non smette di esplorare e spingersi lontano perché è fatta della stessa sostanza delle stelle e dei corpi celesti perennemente mossi». 

E il latino allora ci insegna anche che, come l'universo, anche il nostro piccolo mondo è caratterizzato da continuo movimento, e così l'uomo. E traccia le rotte di un esilio collettivo, della diffusione di lingua e di popoli che segna sin dal principio la nostra storia e fa della migrazione una condizione ancestrale e necessaria, connaturata all'uomo e al suo spirito da sempre, la maniera più autentica del suo stare nel mondo.

 

La lezione più importante, però, quella su cui fondare le rivendicazioni a favore del latino e la protesta contro la sua estrema unzione, parla dell'importanza delle parole, del linguaggio e della comprensione.

Le parole, che per Orazio “vanno e vengono, come le foglie”, vengono dismesse, ripescate, mutate, storpiate e costruite ex novo, contengono il fondamento della civiltà: «sono convinto – scrive Gardini – che noi tutti abbiamo il diritto di contare sulle parole in ogni momento della vita, pure i più dolorosi; che alle parole sia giusto credere; e che, quando le si sia trovate, sia giusto usarle senza imbarazzo. La nostra inadeguatezza linguistica magari creerà dispiacere negli altri; non deve, però, creare in noi una rinuncia alle parole».

Il latino è fonte inestimabile di parole che conservano la parte più autentica di noi, quella che è rimasta, nei secoli dei secoli, ancora riconoscibile e viva. Si tratta di un patrimonio che la scuola ha sminuzzato in frammenti episodici, riducendo tutto il resto a “impalcatura, cornice, ponteggio” con un eccesso di razionalità, semplificazione, parafrasi e grammatica, e assoluta mancanza di fantasia, di sperimentazione, di impegno, di curiosità.

 

Entrare nella complessità del latino, invece, serve a conoscerci meglio, a «far pratica di una felicità tutta speciale, che nasce dal desiderio di interpretare, di andare più in là dell'evidenza», dal godimento dell'esercizio dell'intelligenza e della critica; perché senza interpretazione non c'è libertà e senza libertà non può esistere felicità. Così il latino insegna a non fuggire la complessità, ma ad accoglierla, a comprendere storicamente, a uscire da sé e avvicinarsi all'altro e gioire dell'incontro. Il latino è palestra di felicità, addestramento al dialogo, eredità: «nel latino sono scritti i segreti della nostra più profonda identità e quei segreti si vuol poterli leggere» e rinunciare al latino significa perdere una consistente parte di ciò che ci rende umani e svuotare del loro più antico e fertile contenuto le parole, «il dono più grande, l'occasione più splendida che abbiamo».

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