Novità sull'evoluzione bioculturale / La scimmia vestita

25 Maggio 2018

Nel lunghissimo arco temporale che separa la costruzione dei primi strumenti litici dall’avvento delle tecnologie attuali, che già si proiettano nel futuro, a cominciare dall’intelligenza artificiale, in questo intervallo si sono presentati molti fenomeni che riguardano la nostra specie e le specie a noi vicine o precorritrici. In primo luogo l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale, che si sono ben presto intrecciate a formare una sorta di evoluzione bioculturale, che non può prescindere dalle condizioni al contorno: le altre specie, l’ambiente, il clima, i cibi e via enumerando, a costituire un sistema animato da forze, derive, ritorni, anelli di retroazione positivi e negativi, insomma da tutti i fenomeni tipici della complessità dinamica.

 

Queste vicende, molteplici e intrecciate, sono sfociate nel mondo, nell’ambiente, nella società e nell’uomo contemporanei. Adottando una prospettiva diacronica e un’impostazione sistemica, il libro di Tuniz e Tiberi Vipraio inverte l’impostazione tradizionale: non tenta cioè di capire come eravamo in passato basandosi su come ci vediamo oggi, bensì “cerca di capire il presente come la risultante del lungo processo evolutivo che ha avuto luogo a partire dal nostro passato profondo,” (13) un processo che siamo oggi in grado di ricostruire con un certo grado di attendibilità grazie ai progressi delle scienze. Non più miti e narrazioni di fantasia, non più l’antropocentrismo estremo che negli ultimi millenni è stato alla base della presunta superiorità umana rispetto a tutte le altre specie, ma ricerche accurate basate su dati di fatto. Delle tre domande esistenziali che non cessano di inquietarci, la prima (Perché esistiamo?) attiene alla metafisica e alla religione e non può essere affrontata dalla scienza, la seconda (Da dove veniamo?) è ampiamente alla portata dei ricercatori, mentre la terza (Dove andiamo?) è in una posizione intermedia, poiché, se è oggetto di congetture che dànno vita a scenari più o meno plausibili, possiede anche qualche solida base a giustificare le possibili estrapolazioni. Delle ultime due domande si occupa questo volume.

 

È vero che siamo animali molto particolari, ma c’è da chiedersi in che cosa consista questa particolarità e che cosa ci abbia resi ciò che siamo. Perché noi sapiens siamo gli “unici sopravvissuti del genere Homo, e siamo divenuti la specie più invasiva del pianeta?” (14). L’abbandono dell’antropocentrismo comporta una rivoluzione etica che comincia appena a farsi strada: “non esiste un confine morale tra ‘noi’ (gli umani) e ‘loro’ (gli animali),” (14) dunque la tutela della vita, il rispetto e la misericordia debbono essere estesi anche agli altri viventi. Questo capovolgimento è urgente: ci siamo riconosciuti protagonisti della sesta estinzione di massa, distruggiamo e frammentiamo l’ambiente con una sollecitudine perversa, inquiniamo terra e mare e cielo seminando dovunque i nostri rifiuti e, nonostante l’allarme di un numero crescente di scienziati indipendenti, ci stiamo forse avviando, anche noi umani, verso una fine ingloriosa che non farebbe onore alla nostra conclamata intelligenza. 

La panoplia di strumenti scientifici cui fanno ricorso gli autori di questo libro comprende tra l’altro: antropologia, archeologia, biologia, geologia, geografia, medicina, ingegneria, informatica, fisica, cui si aggiungono alcune discipline sociali, quali la demografia, la psicologia, la sociologia, l’economia. Un libro dunque ad ampio spettro, com’è giusto che sia, vista la sua impostazione sistemica ed evolutiva, che comprende anche temi in apparenza superficiali: i cibi, l’abbigliamento, il divertimento, le sostanze euforizzanti, accanto ad altri più impegnativi: la salute, gli strumenti da caccia e da produzione, la questione femminile, il culto dei morti, l’esercizio del potere. In filigrana emerge la tendenza costante degli umani che siamo stati, e che siamo, non solo a incrociarci con altre specie oggi scomparse (come i Neanderthal), ma anche a formare una vasta gamma di simbionti ibridati con cibi, droghe, farmaci, animali, piante e, da ultimo, con le macchine: per andare verso un futuro che alcuni qualificano di post-umano.

 

Ampio spazio è dedicato al pensiero simbolico, che scaturisce a un certo momento della nostra evoluzione, consentendoci di socializzare (attraverso i miti, le religioni, l’intelligenza collettiva) e infine di fondare la filosofia e la scienza per conoscere il mondo (attraverso la formulazione e la verifica di ipotesi), di superare le difficoltà (facendo morire le nostre congetture al nostro posto). Potenza senza fine delle cose che non esistono! Si tratta della “capacità di inventarci realtà immaginarie che poi diventano reali, nelle nostre menti, e ci consentono di pianificare, di cambiare direzione e di reindirizzare le nostre energie per scopi sociali diversi” (16). Ma si possono anche creare entità di fantasia (istituzioni con personalità giuridica, discendenze divine di regnanti, stratificazioni sociali basate su ascendenze nobili...) capaci di concentrare in sé il potere e di liberare gli individui comuni dal gravame delle loro responsabilità.

 

Accanto e oltre la ricchezza e la varietà dei contenuti, sempre espressi con chiarezza e proprietà di linguaggio, il libro è anche un prezioso vademecum di metodologia scientifica: la ricerca è un’esplorazione, i cui risultati sono sempre provvisori e passibili di revisione, ed è questo carattere autocorrettivo che costituisce la grande forza dell’indagine scientifica, al di là delle ambizioni personali e dell’attaccamento dei singoli scienziati ai loro risultati (o almeno così dovrebbe essere). Quindi da una parte una splendida ricognizione delle diverse specie umane che hanno popolato la Terra, una sorta di storia delle storie degli ominini; dall’altra una rassegna altrettanto appassionante dei metodi e degli strumenti applicati dagli studiosi nella ricostruzione di questo groviglio di storie. Le congetture, quando sono esposte, sono sempre dichiarate tali e spesso sono messe a confronto con ipotesi alternative, contribuendo alla sensazione che la ricerca sia un perdurante lavoro in corso.

In un libro tanto ricco ciascuno può trovare qualche tema che più gli sta a cuore: io, per motivi che in gran parte mi sfuggono, sono da sempre interessato all’uomo di Neanderthal e questo interesse si è acuito leggendo che quando noi sapiens siamo arrivati dall’Africa in Europa, circa 45.000 anni fa, ci siamo imbattuti in questi precedenti abitatori, con i quali condividevamo un antenato africano comune. “I Neanderthal sono stati a lungo descritti come gli ascendenti primitivi di noi pallidi e civilizzati europei. Niente di più sbagliato. Non erano nostri ascendenti, non erano particolarmente primitivi e noi non eravamo ancora tanto pallidi. Ma noi siamo sopravvissuti e loro si sono estinti. Come mai?” (42). Per rispondere a questa domanda, gli autori ci accompagnano in una rassegna di congetture, suffragate da prove e testimonianze, relative al loro aspetto, alla loro cultura (è possibile che questi nostri cugini avessero anche un linguaggio verbale articolato), alla loro numerosità e via dicendo, rassegna che culmina con l’analisi dei rapporti tra noi e loro, rapporti in certi casi di ostilità, ma in altri di calorosa ibridazione: da quando nel 2010 è stato sequenziato il loro genoma, si è scoperto che una piccola parte di esso, in una proporzione che va dall’1% al 4%, è presente in tutti gli europei e asiatici, mentre è assente negli africani. 

 

 

Sulle cause dell’estinzione dei Neanderthal, la faccenda è congetturale e problematica: certo noi sapiens vi abbiamo contribuito, ma la matassa è aggrovigliata e non la si può certo sdipanare in una breve recensione. Comunque: già prima del nostro arrivo, la loro popolazione era scarsa e suddivisa in gruppi esigui con poche donne fertili e con frequenti rapporti tra consanguinei, causa di debolezza genetica. I sapiens, dopo il loro arrivo, hanno avuto “una drammatica espansione demografica, che è decuplicata nell’Eurasia occidentale proprio nel periodo di transizione fra il nostro avvento e la loro scomparsa” (71). A ciò si aggiunga l’esercizio esasperato della violenza che ci caratterizza e che ci ha portato tanto spesso allo sterminio delle popolazioni diverse dalla nostra, in contrappunto con la solidarietà e la cooperazione con i membri del nostro gruppo.

 

Il controllo del fuoco, l’avvicendarsi delle diete, la pratica dell’agricoltura, la stanzialità e la nascita della città, la domesticazione di alcune specie animali: sono questi alcuni dei temi che via via il libro affronta, e che costituiscono la premessa inevitabile delle conquiste odierne e dei problemi che stiamo causando al sistema complessivo e quindi a noi stessi. “L’aumento demografico e l’instabilità climatica saranno i maggiori responsabili della conflittualità umana durante questo secolo” (74) e ciò si accompagnerà a migrazioni di massa dai paesi colpiti da guerre, desertificazione e inondazioni soprattutto verso le terre dell’Eurasia nord-occidentale; questo esodo è già cominciato e minaccia la stabilità delle nostre terre, dimostrando: primo, che Homo sapiens è da sempre e ancora una specie migrante e, secondo, che la stabilità delle istituzioni, della cultura e delle società è una chimera: tutto si evolve, tutto cambia, tutto finisce. Aveva ragione Eraclito e torto Parmenide.

 

Sono costretto, per ragioni di spazio, a citare soltanto a volo d’uccello, con le inevitabili imprecisioni, alcuni capitoli. Incontriamo dunque La scimmia nuda si riveste (Cap. 6, 77) dopo essersi liberata della pelliccia (e perché?), con certe complicate conseguenze legate alla posizione eretta e alla subordinazione della femmina al maschio. L’esplorazione delle gelide steppe dell’Eurasia spinse il sapiens, come prima di lui il Neanderthal, a fabbricarsi abiti di pelle animale e scarpe e anche ripari. Interessante e problematico il paragrafo dal titolo Vestizione e pudore (83), dove si congettura a proposito del desiderio e del richiamo sessuale di certe parti del corpo. Attualissimo il significato della vestizione della donna: se essa non si attiene alle regole di riservatezza nel vestire e nel comportarsi “sarà sua la colpa di quanto avviene contro la sua volontà. E l’uomo perde la responsabilità delle proprie azioni, non essendo tenuto a dominare i propri desideri” (84). Insomma la donna non gode di parità di diritti. Il vestito dunque assume una funzione istituzionale, e “insieme ad altre costrizioni, diventa strumento di un processo di domesticazione della donna” (84) che ha molte affinità con il guinzaglio dei cani “ma può andare oltre ed estendersi fino alla mutilazione genitale” (84).

Il sapiens, scimmia un tempo nuda e ora vestita (il titolo del volume rimanda a La scimmia nuda, un libro di Desmond Morris del 1967), manifesta nel corso della storia una dipendenza crescente dalle cose e dalle persone di cui si circonda e che l’aiutano a sopravvivere e a progredire: così l’individuo perde importanza e la collettività (anche mentale e cognitiva) diventa via via preponderante, fino a culminare nell’attuale società connessa della rete. Siamo una specie sociale.

 

Sulla domesticazione della donna (intesa come riduzione dei gradi di libertà rispetto a un comportamento più ‘selvaggio’) si torna nel Cap. 7 (87), Evoluzione al femminile, che affronta i temi fondamentali della gravidanza, del parto, del rapporto madre-figli, della menopausa. Ancora ai nostri giorni aleggia “l’idea che le donne presentino una maggior docilità e una naturale tendenza a vivere in condizioni di subordinazione al maschio” (94). Tema arduo, situato com’è alla confluenza di molte forze divergenti: quelle derivanti “dalla nostra psicologia individuale e dalle nostre pulsioni più intime, quelle legate alla riproduzione biologica, quelle che hanno natura economica e infine quelle che riguardano l’esercizio del potere”. Questa domesticazione, o meglio autodomesticazione (cioè domesticazione volontaria e non coatta) della donna, adottata grazie a un misto di dominazione e di fascinazione da parte dell’uomo, è probabilmente provocata da “un potente catalizzatore, per entrambi i generi, che fa leva sulla produzione di endorfine e che viene chiamato ‘amore’” (95). Tutto il capitolo è di estremo interesse, per capire meglio quali sono i condizionamenti biologici e psicologico-evolutivi dei nostri comportamenti odierni, anch’essi vincolati da un processo di autodomesticazione che coinvolge i sapiens di ambo i sessi e che è affrontato nella parte finale del volume.

 

Seguono due capitoli dedicati al cibo e alle malattie del tempo profondo, comprese alcune predisposizioni positive e negative ereditate dai Neanderthal, che si riverberano sulla nostra condizione attuale, caratterizzata da un’evoluzione culturale (in particolare tecnica) “troppo rapida rispetto alla nostra evoluzione biologica” (124), evoluzione tecnica che ci ha consentito di debellare molte patologie ma ci ha reso soggetti ad altre. Il capitolo 10 (127), Vivere da ominidi, affronta le diverse età del sapiens, la durata dell’infanzia, l’arte e il divertimento, il rapporto tra nonni e nipoti, la monogamia e la poligamia; inoltre vi si discute della fiducia reciproca e del pettegolezzo, che può essere considerato, al pari dello spulciamento delle scimmie, un potente collante della società. Anche in questo capitolo, come in tutti gli altri, ad ogni pagina s’incontrano riflessioni, considerazioni e costatazioni di estremo interesse, come pure nel capitolo successivo, dedicato al Culto dei morti (141), e in quello ancora successivo, che si addentra nei meandri, o nelle circonvoluzioni, del cervello, inteso non soltanto come organo endocranico, ma come “cervello esteso” dalle protesi che circondano il nostro corpomente e che cominciano anche a invaderlo (152).

Il potere dell’immaginazione, titolo del Cap. 13 (165), che riecheggia uno slogan del sessantotto, è dedicato al pensiero simbolico, alla creazione di miti e leggende, secondo la propensione incoercibile dei sapiens alla narrazione di storie e, anche, alla proiezione concreta di questi simboli in organizzazioni e gruppi e gerarchie sociali, economiche e politiche.

 

Se ci si crede è reale e se è reale ha conseguenze reali, nel bene e nel male. Cervello, mano, parola: il pensiero simbolico, espresso da un linguaggio verbale che presiede alla costituzione di una mente collettiva, e l’abilità manuale raffinata da un’evoluzione esemplare, si sono esaltati a vicenda mediante tre retroazioni positive, facendo illudere i sapiens di essersi incamminati “su una strada capace di assicurare alla nostra specie un progresso senza fine” (167), anche se queste magnifiche sorti e progressive urtano oggi contro ostacoli e difficoltà che forse non ci eravamo aspettati. Il progresso, correlato alla complessità del gruppo e all’intensità degli scambi comunicativi, può essere insidiato da un declino demografico, che a sua volta può causare una perdita di conoscenze e di competenze e un regresso più o meno marcato rispetto al passato (174).

 

Interessante è la distinzione (173) tra cultura, intesa come insieme dei comportamenti che si radicano in un gruppo e vengono tramandati, e pensiero simbolico, che scaturisce sempre nuovo, si diffonde magmatico e alla lunga può anche solidificarsi in una cultura. Ma la cultura non ha bisogno del pensiero simbolico per costituirsi e stabilirsi, come insegna la storia e come si osserva in specie diverse dall’uomo. Frutto del pensiero simbolico e della proiezione di realtà immaginate in strutture concrete è l’economia, legata a doppio filo a quell’altra proiezione simbolica che è il denaro, il cui accumulo senza limite (espressione di quel vizio capitale che un tempo si chiamava avarizia) è, per alcuni, una vera a propria psicopatologia, e alimenta le disuguaglianze, le guerre e le stragi. 

 

Di fronte alle difficoltà crescenti di “gestire e far prosperare un mondo popolato da 7 miliardi  di sapiens, ancora in crescita, alla vigilia dell’esaurimento delle ultime risorse non rinnovabili, dobbiamo cambiare passo su parecchi fronti” (179), dobbiamo passare dall’economia del cowboy, che ha a disposizione risorse in apparenza senza limiti, all’economia dell’astronauta, che deve risparmiare e riciclare ogni briciola di risorsa: dobbiamo transitare dallo scialo in allegria alla sobrietà più scrupolosa. Sarà capace il sapiens di convertirsi a questa nuova saggezza, di operare questa rivoluzione culturale? Saprà adottare una visione sistemica di sé integrato in un ambiente vasto e differenziato, in cui ogni parte è sostegno a tutte le altre in un insieme di cicli virtuosi di cause ed effetti che si concatenano per reggere e incrementare ciò che, con un termine generico ma assoluto, si può chiamare bellezza? Saprà ritrovare il legame primordiale tra etica ed estetica e coltivarlo con saggezza e ponderatezza? È a queste domande che tenta di dare risposta l’ultimo, corposo capitolo del libro, che non riguarda più il passato, ma l’avvenire, L’umanità del futuro (201).

 

Come sosteneva il grande fisico Niels Bohr, fare previsioni è molto difficile, specie sul futuro. Ma la tentazione di gettare uno sguardo a ciò che ci attende è troppo forte, così ci esercitiamo nella costruzione di scenari probabili, o almeno plausibili, individuando le variabili più importanti e tenendo presente che “il nostro comportamento è determinato anche dalla nostra cultura e che essa può cambiare nel tempo, a seconda delle condizioni di sopravvivenza e di crescita” (201). Inoltre, poiché il sistema di cui si considera l’evoluzione è complesso, consiste cioè in tanti sottosistemi in interazione reciproca, mediata da circuiti di retroazione e da legami spesso non lineari, in esso si manifesta il cosiddetto ‘effetto farfalla’, per cui da piccole cause possono derivare, a distanza di tempo e di spazio, grandi conseguenze. Nel quadro entra prepotentemente in gioco la tecnologia, i cui effetti non si possono sottovalutare, anche senza adottare un discutibile determinismo tecnologico. L’intelligenza del sapiens si sta ibridando con l’intelligenza artificiale per dar luogo, secondo una visione condivisa da molti, a un sapiens post-umano, capace di aggirare la selezione naturale e di prendere in mano le redini della propria evoluzione. Questo post-umano sarebbe “un uomo più libero, più sano e più longevo, che vive in una società sempre più ampia e interconnessa. In realtà questa visione ottimistica del nostro futuro – molto in voga fino a qualche anno fa – comincia a perdere, negli ultimi tempi, molto del suo appeal” (202). E infatti un numero crescente di ricercatori manifesta dubbi e preoccupazioni rispetto a uno sviluppo eccessivo dell’intelligenza artificiale e della robotica.

 

Gli autori passano in rassegna non solo i vantaggi ma anche le vulnerabilità di una società iperconnessa, mettendo in luce la natura essenzialmente duplice della tecnologia, che essa eredita dal suo inventore Prometeo, insieme abile truffatore e sommo artefice. Gli strumenti tecnici ci liberano da alcune schiavitù, ma ci assoggettano a vincoli nuovi e insospettati, derivanti dalla presenza massiccia di protesi individuali e collettive nei cui confronti operiamo una delega sempre più ampia e inconsapevole. Questa delega può avere effetti deleteri: “Saremmo tentati di chiederci se le tecnologie digitali possano provocare una possibile degenerazione delle nostre capacità cognitive, oppure se siano solo il mezzo attraverso cui si manifestano patologie già presenti in alcuni membri della nostra specie” (204). Anche nell’ambito delle facoltà cognitive vale un principio analogo alla cosiddetta ‘regola d’oro’ della meccanica: ciò che si guadagna in velocità si perde in potenza; che si potrebbe tradurre così: ciò che si guadagna in rapidità (per esempio nel reperimento delle informazioni) si perde in profondità. 

 

Il contributo più originale del capitolo riguarda la cosiddetta ‘autodomesticazione’ degli individui e della specie attraverso il mantenimento anche in età adulta di caratteristiche giovanili “e una sottomissione psicologica a qualche figura autorevole, all’interno di uno schema di relazioni sociali di tipo gerarchico” (209). L’autodomesticazione “opera una selezione avversa agli istinti aggressivi e conduce a una modifica delle caratteristiche fisiche e funzionali di un organismo. Il fenomeno è stato studiato nei lupi, nei bonobo e anche nelle volpi” (218) e, negli umani, questa selezione ha come risultato una diminuzione dell’aggressività, un aumento della frequenza dei rapporti sessuali, con perdita dell’estro, la permanenza delle attività ludiche anche in età adulta. E infine “si esprimerebbe in tratti morfologici (minori dimensioni del corpo, maggiori rotondità dei tratti, il viso o il muso più piatti, gli occhi più grandi, i denti più piccoli) che riducono anche il senso di pericolo, e quindi l’aggressività, dell’osservatore. Sono tutti caratteri tipici degli organismi giovanili” (218). Molti studiosi sostengono che l’umanità sia stata soggetta a una sindrome di autodomesticazione, che si è intensificata negli ultimi millenni, per esempio attraverso la crescente dipendenza reciproca dovuta alla divisione del lavoro nelle società complesse: “Questo ci avrebbe indotto a diventare più gracili e più mansueti, almeno in apparenza” (220).

 

Se è grazie a questo processo di autodomesticazione che abbiamo evitato gli eccessi di aggressività che ci avrebbero condotto a sterminarci reciprocamente, c’è da chiedersi “di quanta autodomesticazione avremo bisogno per evitare un’ultima nostra grande estinzione di massa” (221) che sempre più pare minacciarci. Ma si osservi che non sempre la domesticazione conduce a una riduzione dell’aggressività: anzi, se applicata selettivamente, può addirittura accrescerla, come accade con i cani adibiti al combattimento.

Il volume si chiude delineando alcuni scenari in cui entrano in gioco le macchine intelligenti, che sono tra noi e che tra noi resteranno, con funzioni e compiti che potranno andare da mansioni di cura e assistenza al nostro servizio fino a un nostro assoggettamento stuporoso e felice, alleggeriti come saremo da ogni responsabilità decisionale. Sarà un gioco (l’eterno gioco) tra potere e piacere, tra verità e post-verità, in una società in cui potrebbero vigere solo verità soggettive indubitabili e strutture politiche embrionali o patologiche, caricature della democrazia oppure tirannidi illuminate o spietate. E tutto questo in una compagine non più di sapiens ma di simbionti uomo-macchina all’insegna del post-umano potenziato, con sinistri bagliori di eugenetica per i diseredati e di (pseudo) onniscienza, onnipotenza e immortalità per i potenti.

Un libro da leggere, da meditare, da cui trarre spunti di riflessione per tentare di collocarci consapevolmente e responsabilmente in questo grande sistema che è il mondo e in questo grande fiume eracliteo che è l’evoluzione del vivente.

 

Claudio Tuniz, Patrizia Tiberi Vipraio, La scimmia vestita, Carocci, Roma 2018, pagg. 272, € 21,00.

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