“Sono tutti uguali gli occhi degli uomini verso l’esilio” / Due sguardi su Claudio Lolli

Tre note su Claudio Lolli

di Massimo Recalcati

 

Prima nota: la sua musica mi ascoltava

La musica è qualcosa che davvero ascoltiamo? Quando ho ascoltato le prime canzoni di Claudio Lolli in una scuola occupata di Quarto Oggiaro, nella estrema periferia milanese, ero davvero “io” che le ascoltavo? La musica non assomiglia forse ad un quadro o ad un libro? Sono io che guardo e che leggo o sono il quadro a guardarmi e il libro a leggermi? Ricordo bene la sua voce e le sue parole tra noi mentre io ero, in quell’inverno del 1976, come tutti quelli della mia generazione, attraversato da grandi dolori e furori. Lolli mi ha insegnato per primo che l’esperienza della musica non è quella di un semplice fluido sonoro che visita le nostre orecchie. Ascoltare le sue canzoni era fare l’esperienza perturbante di essere ascoltati, di sentirsi ascoltati, dell’incontro con qualcuno che ti sapeva ascoltare. Non ero io, dunque, che ascoltavo la sua musica e le sue parole, ma erano la musica e le sue parole che mi ascoltavano. Ascoltavano il mio e il nostro grande furore e dolore; erano la sua musica e le sue parole a soffiare via “l’inferno dalla fronte”. Non ero semplicemente “io” che lo ascoltavo, ma erano le sue canzoni che mi ascoltavano e ascoltandomi segretamente mi rispondevano. Per questa ragione, forse, aver saputo, dopo la sua morte, da Paolo Capodacqua, suo amico e fraterno musicista, che trovava il tempo per leggermi, mi ha dato la sensazione di una pace profonda. Anch’io, forse, lo avevo ascoltato; lo avevo letto, gli avevo risposto. 

 

Seconda nota: il poeta civile

Claudio Lolli è stato un grande poeta civile. Poteva la spinta politica che voleva la rivoluzione, che voleva trasformare il mondo, unirsi alla poesia? Quanti poeti capaci di legare la poesia alla politica nel suo significato più alto ha avuto il nostro paese? Ma non è forse un paradosso parlare di poesia civile? Io lo immaginavo come Arthur Rimbaud sulle barricate della Comune di Parigi del 1870. Lo immaginavo come la poesia necessaria ad ogni rivoluzione per evitare che la rivoluzione finisca per assomigliare alla reazione che voleva combattere. Senza poesia, infatti, la rivoluzione e i rivoluzionari si trasformano fatalmente in funzionari reazionari del potere o in persecutori dogmatici, fustigatori fanatici infiammati dall’ideologia. È accaduto anche a noi in quegli anni. Ascoltavo invece Lolli come qualcuno che come me aveva passione per la politica, ma si rifiutava di usare il linguaggio freddo e logoro delle categorie dottrinali, degli stereotipi, degli slogans. Il movimento del ’77 non aveva saputo portare a compimento lo sforzo di poesia da cui era sorto. La sua lingua era precipitata rapidamente in un formulario ideologico vuoto. La violenza aveva colonizzato il pensiero critico e la domanda legittima di trasformazione e di riscatto sociale. Basta infatti un nonnulla per trasformare un eretico in un difensore implacabile dell’ortodossia. È l’anima inconsciamente stalinista di ogni rivoluzione che resta senza poesia. Claudio Lolli era per me, in quel contesto precario, un fiore, resistente e fragile insieme, apparso tra gli interstizi di una muraglia di pietra; la possibilità di sostituire al delirio della ideologia e alla precisione solo astratta delle sue categorizzazioni, la contraddizione viva e la sfumatura singolare della poesia. 

 

Quando la poesia può davvero dirsi civile? Quando non si stacca, non abbandona l’umano per gli dei o per mondi utopicamente diversi da questo mondo. La poesia è civile quando resta vicina alla terra, allo scarto, all’humus umano. È questo lo sforzo di tutta la poetica di Lolli; la sua poesia è civile perché non evita di parlare della vita della polis, delle sue piazze, dei suoi conflitti, della sua follia, del suo entusiasmo. La poesia civile non è mai infarcita di ideali o di valori, non è mai retoricamente celebrativa. Essa ricorda sempre quella scissione contradittoria che attraversa, per esempio, Le ceneri di Gramsci di Pasolini o Volume 8 di De Andrè. La storia non esaurisce la vita, gli ideali di emancipazione non possono cancellare il magma caoticamente irrazionale dell’esistenza, il suo dolore, “il suo fondo di mare”.

 

 

L’interesse maggiore di Lolli è sempre stato per le vite rammendate, escluse, fragili, “lontane dal traguardo”. Le sue parole ci hanno insegnato che la fragilità non è affatto estranea alla politica. Anche i campioni, come Pantani, il “pirata ciclista”, o come “lo scrittore assassinato degli Scritti corsari”, non sono senza ferite perché conoscono bene “l’umiltà della strada e del sudore”. La poesia è civile quando non dimentica gli ultimi e la loro domanda di riscatto sociale; non dimentica le esistenze infime, quelle delle mosche, del “mignolino che era il più piccino”, dei “compagni sconosciuti”, delle “ginestre sulla massicciata”, perché “sono tutti uguali gli occhi degli uomini verso l’esilio”. 

 

La forza di Lolli poeta civile è quella di non dimenticare l’irregolarità, il dolore, l’incondivisibile, la contraddizione umana che nessuna rivoluzione è in grado di cancellare. La sua parola sfondava così ai miei occhi il quadro tetro dell’ideologia svelando il “volto nascosto tra i capelli”. Nessuna generalizzazione, nessun universalismo, nessun codice, nessun formulario retorico. Il poeta è qualcuno che conserva il segreto, che ama il nascondimento più che l’esibizione. È stato lo stile di tutta la vita di Lolli; egli amava nascondersi. Il contrario della politica che invece punta all’universale, al generale, alle idee, alla manifestazione propagandistica, all’esibizione. La poesia resta caparbiamente sempre dalla parte del nome proprio; corregge permanentemente la tendenza universalistica della politica con la cifra critica della sua melanconia. La sua estetica non era quella rozza del passamontagna calato sul volto, ma quella del volto che non si lascia mai nascondere e che resiste all’anonimato della massa e del numero. La poesia civile non sostiene mai il valore di principi universali separati dai corpi individuali.

 

Per questa ragione preferivo le sue parole alle elucubrazioni ideologiche di cui molti di noi si ubriacavano. Preferivo Lolli agli stereotipi del linguaggio della politica che aveva colonizzato le nostre voci e il nostro modo di pensare. 

Il Pasolini paolino ci aveva già ricordato che le parole “fede” e “speranza” di cui su nutrono i rivoluzionari e le loro “magnifiche sorti e progressive” possono rivelarsi mostruose. Esse alludono infatti ad un futuro radioso senza male, morte, dolore, mancanze, senza più uomini in carne ed ossa. Queste due parole senza quella dell’”amore”, della “carità” per Paolo di Tarso, sono solo parole oscene che hanno armato le mani dei peggiori assassini. La poetica di Lolli ci ricorda con insistenza la terza parola, la parola dell’amore, della carità, del volto, del singolo, della mosca, della ginestra sulla massicciata, di Ulrike che chiedeva, dalla sua prigione, di spegnere la luce.  

 

Terza nota: la voce

Ma tu, lo confesso, per me sei stato, più intimamente, una voce. Anche quando cantavi di Gramsci, di Ulrike Meinhof, dell’assassinio di Giorgiana Masi, dei funerali delle vittime delle stragi fasciste, della liberazione del Viet-Nam, dello squallore ipocrita della borghesia, tu restavi, per me, innanzitutto una voce. Il timbro della tua voce veniva prima delle parole; come il volto veniva prima del numero, i corpi venivano prima del logos, il singolo veniva prima dell’Idea universale. Dopo la tua scomparsa l’ho capito con ancora più forza. Non erano solo le parole delle tue canzoni a colpirmi. Era soprattutto la tua voce che mi mancava. La tua voce inconfondibile aveva per me il timbro irregolare di un corpo. La tua “c”, rotonda e scivolosa, dolcissima, come la tua “sci”, quella che risuona quando pronunci “Michel”… Pensavo, riascoltandoti con insistenza, che tutto fosse lì, racchiuso in quelle poche lettere, in quella voce singolare; che il mistero del nostro incontro si risolvesse tutto nell’impatto con il timbro unico della tua voce, della tua “lalingua”. Per questo dopo la tua morte ho cercato ancora e ancora la tua voce. Non le tue parole, ma essenzialmente la tua voce. Era qui tutta la differenza tra il codice morto della ideologia – le sue parole spente, senza desiderio – e la piega poetica, viva, della tua voce. Perché non è, come si crede, la voce che esce dal corpo, ma la voce che assomiglia ad un corpo. È questo corpo il mistero della tua voce per me. La voce è nel linguaggio, ma fuori dal linguaggio; è un corpo ma fuori dal corpo.

 

È “prossima all’inconscio” affermava Lacan. Non si può raggiungere, non si può mai dire; essa è piuttosto quello che non si può dire nel dire della parola perché eccede il detto essendo il corpo nudo della parola. Ecco perché quando una persona cara viene a mancare sentiamo ancora la sua voce con noi, presso di noi, perché è innanzitutto la sua voce a mancarci. Non a caso gli esseri umani hanno da sempre cercato di ascoltare la voce dei morti. In Lolli ciò che mi colpiva era innanzitutto il corpo della sua voce. La vita nuda della sua parola. L’ho capito bene dopo la sua morte. Mi mancava enormemente la sua voce. Continuavo ad ascoltare questa voce nelle sue parole cercando di fare esistere ancora la sua vita. La voce, infatti, viene dal corpo ma si stacca dal corpo. Il suo carattere è quello paradossale di un corpo fuori dal corpo. Il corpo della voce è eterno e sopravvive al corpo. Abbiamo ancora adesso la voce di Claudio con noi. È il suo resto immortale; un resto che resiste alla morte. Il resto della poesia alla catastrofe della fine.

 

 

Tempo e corpo

Rosella Postorino 

 

Io me la ricordo, la faccia di Emme, il giorno in cui mi iniziò alla musica di Claudio Lolli. Emme aveva una faccia piccola e tonda, tutta occhi – che erano azzurri, e quel giorno smaniavano di impazienza. 

«Ho scoperto uno fortissimo», annunciò mentre infilava un’audiocassetta nello stereo portatile, sorridendo euforica con quel suo incisivo accavallato. Prima ancora della musica si sentì un crepitio. Emme era appena stata a casa dai suoi: non i suoi genitori, no. Era cresciuta con una famiglia affidataria, e la donna che se n’era presa cura assieme al marito, più o meno da quando lei aveva dodici anni, portava il mio stesso nome. È sciocco, ma dato che non è un nome tanto diffuso, la cosa mi faceva effetto, quasi fosse il segno che il nostro legame ci precedeva. 

Di solito era da Rosella – intendo l’altra – che Emme passava il weekend, quando le lezioni universitarie erano sospese e non c’erano imminenti esami da preparare. La mia compagna di stanza e io invece restavamo perlopiù a Siena, perché le nostre famiglie abitavano distanti, ci volevano troppe ore di treno per raggiungerle, e approfittavamo della camera vuota di Emme, in quell’appartamento dove faceva sempre freddo, per ripetere il programma in tranquillità. Ma non vedevamo l’ora che lei tornasse con qualche sorpresa: cibo da mangiare insieme, vestiti che poi ci avrebbe prestato, oppure quell’audiocassetta, su cui aveva registrato con un walkman l’intero album di un cantautore bolognese – scovato nella collezione dei suoi – facendolo girare, frusciante e scricchiolante, su un vecchio mangiadischi.

 

 

Appena partì il ritornello di Vecchia piccola borghesia lei mi guardò: «Non è un grande?» «Ma chi è?» domandai. «Sh, sh, aspe’», sventolò una mano, voleva che ascoltassimo la prima strofa. «Ti raduni nelle tue chiese, in ogni città, in ogni paese», cantava quella voce sconosciuta, ed Emme annuiva convinta, gli occhi enormi da extraterrestre, tanto chiari da commuovere. Ce l’aveva con me, che andavo a messa ogni domenica, e nonostante la mia indignazione verso Dio, che aveva inventato la morte, e nonostante i buchi logico-narrativi che mi tormentavano nella storia di Gesù e del suo sacrificio, non smettevo di aver fede quantomeno in Pascal, così ogni settimana rilanciavo la mia scommessa. 

«L’esistenza di dio [scritto minuscolo], o la sua assenza, / non mi è remota», avrei letto anni dopo nella poesia che apre la raccolta Rumore rosa, in cui Claudio Lolli dice che tutti i giorni all’ora di pranzo dio si materializza davanti a lui, «si transustanzia in un / campari soda». Allora però stavo giusto facendo la sua conoscenza, e avevo diciotto anni compiuti da poco, un amore a distanza che occupava ogni desiderio, una compagna di camera matricola come me e, per coinquilina, una ragazza di vent’anni che mi pareva immensamente più adulta. Sapeva tante cose del dolore e del perdono, e la sua risata suonava come il gorgoglio di un ruscello.

 

Fu un colpo di fulmine. Quasi senza accorgermene, nei giorni seguenti mi appropriai della cassetta che conteneva l’esordio di Claudio Lolli e la ascoltai di continuo, con o senza le mie amiche. Qualche settimana dopo, l’entusiasmo di Emme si sarebbe rivolto a qualcun altro – lei era così, si innamorava di continuo, e del cambiamento non aveva timore – mentre io mostrai devozione assoluta a Claudio Lolli: ero una che custodiva gli incontri per salvaguardarli dall’usura del tempo, una destinata a stare con lo stesso uomo per anni, ad esempio, anche se allora non lo sapevo. 

All’epoca l’uomo in questione ne aveva diciotto come me e, quando tornavo in Liguria a trovare i miei genitori, lo aspettavo seduta su un’altalena dietro la chiesa, davanti al mare, cantando a ripetizione Michel. A volte la cantavo anche a lui, appena arrivava, in ritardo come al solito. La canzone raccontava la storia di un’amicizia, anzi di una fascinazione. Di un rapporto sbilanciato, come spesso capita nell’età in cui si cresce, quando uno dei due sa della vita qualcosa che l’altro ancora ignora, e a entrambi mancano le parole per condividerlo, o magari nemmeno credono sia opportuno cercarle. «Mentre lento il tuo vagone se ne andava ritornava la paura», recita il verso finale, ed è come se l’avessi scritto io, tanto mi riguarda. Dev’essere per via delle partenze senza ritorno, e non importa che trascinino via me o qualcun altro, è il distacco la ferita che non si può rimarginare. Ascoltavo Claudio Lolli e mi si rivelava l’evidenza di un’affinità elettiva. 

 

Non sapevo nulla, di lui. Per dire, non sapevo che fosse il cantautore del ’77, e in realtà, sapevo poco pure del ’77, l’anno prima della mia nascita. La sua tensione rivoluzionaria mi arrivava, certo, ma nell’opposizione alla piccola borghesia, le cui disgrazie erano «una figlia artista», ciò che sognavo di diventare, «oppure un figlio non commerciante», e commercianti erano appunto i miei genitori, io sentivo prima di tutto un conflitto con il padre, qualcosa di più personale e intimo, che mi apparteneva. Grazie ai suoi album avrei scoperto chi fosse Ulrike Meinhof, sì, ma era soprattutto la bellezza di quella frase, «disoccupate le strade dai sogni», a colpirmi, la violenza di ogni imperativo e l’amarezza della rassegnazione racchiusi in un’unica, formidabile immagine; avrei desiderato anch’io rotolarmi per terra come gli «zingari felici», ma non per ubriacarmi di «vendetta e di guerra», solo perché credevo a mia volta che bisognasse riprendersela, «quella vita che gli altri ci respingono indietro», riprenderci «la vita, la terra, la luna e l’abbondanza». 

A catturarmi, insomma – voi mi perdonerete –, era la poesia, prima della politica. Era la capacità di fotografare la condizione umana, eterna e universale, fatta di sopruso e tradimento e ingiustizia, e però di insospettati lampi di candore, prima ancora che lo sguardo sulla Storia nella sua contingenza. Il concetto Nessun uomo è un uomo qualunque, titolo di una sua canzone, aveva a che fare, per me, con il valore testimoniale della scrittura, non soltanto di una dimensione storica o sociale, ma di ogni singola esistenza accaduta come evento nel mondo. Claudio Lolli sapeva renderne conto con parole pacate, in sordina, che dovevo tenermi in bocca a lungo perché sprigionassero la loro potenza.

 

Non era una lingua aggressiva, la sua, non ti si scagliava addosso; era sommessa, e per questo ancor più penetrante, come quella di Pavese, del quale non a caso lui musicò una poesia, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

«Bisogna vincere la morte, quella che non si fa vedere, / che viene senza far rumore, che non si fa aprir le porte», ha scritto Lolli ne La giacca. «Quando la morte avrà / scacciato la paura / che per tutta la vita / ti è stata concubina», ha scritto in Quando la morte avrà. Non sembrano, queste parole, un controcanto ad Aspettando Godot

 

L’attesa senza senso e senza soluzione della pièce, perché Godot non arriva e quindi nessuno è salvo, nell’adolescenza mi aveva impressionata, e che avesse impressionato anche Claudio Lolli non faceva che arricchire il mio gioco delle cose che avevamo in comune. Lui si permetteva addirittura di tradire Beckett, quasi non riuscisse a sopportarne il nichilismo, quasi avesse bisogno di un varco. Così la voce narrante – se in tal modo si può definire chi dice io in una canzone – comprende di aver sprecato la sua esistenza aspettando qualcosa di meglio, che non sarebbe mai arrivato, e in questo modo ha giustificato le sue mancanze, la sua viltà, la sua distrazione, la sua pigrizia, la sua paura; ma proprio andando incontro alla morte ha un’epifania e comincia a «vivere forte». È buffo che per anni io abbia creduto che il verso dicesse «ridere forte», e ogni volta mi si parasse davanti Alberto Sordi che ride mentre precipita in auto da un ponte nell’ultima scena di La più bella serata della mia vita di Ettore Scola, il film tratto dal racconto di Friedrich Duenrenmatt Die Panne, che l’insegnante di tedesco ci aveva fatto vedere a scuola. Ero persuasa, sempre per il gioco di cui sopra, che lo avesse visto pure Claudio Lolli. Ero sicura che anche lui, come me, dalla morte fosse ossessionato. 

Non dedicò una canzone persino alla morte di una mosca? La mosca simboleggiava i più deboli, quelli che soltanto se si uniscono riescono a dare fastidio, da soli no, «si schiacciano dentro due dita». Non ho mai capito se quel verso, «la morte appartiene ai potenti», indicasse la possibilità del potere di usurparci tutto, persino qualcosa di biologico e inevitabile, cui chiunque è condannato, o se era un verso sarcastico: «per fortuna che noi siamo uomini», dice a un certo punto, «per fortuna che siamo immortali». Era una canzone politica, che infatti si chiudeva con lo stesso ritornello di Piazza, bella piazza

Claudio Lolli si era concentrato sulla morte di un essere infimo e ripugnante, la mosca, proprio come Marguerite Duras, la scrittrice più importante della mia vita. Isolata nella solitudine della sua casa a Neauphle-le-Chateau, Duras si imbatte nell’agonia di una mosca. Per cinque, otto minuti consecutivi, osserva l’insetto dimenarsi contro il muro bianco inondato di luce, poi immobilizzarsi in un’irrimediabile fissità, e cadere. 

«La morte di una mosca è la morte», scrisse l’autrice vent’anni dopo quell’evento, talmente banale che non varrebbe la pena registrarlo, e del quale la sua scrittura è invece testimonianza. Nessuno, a parte lei e Claudio Lolli, si occuperebbe della morte di una mosca, ma quell’evento insignificante racchiude per Duras tutte le morti, perché a tutte le morti assomiglia, e il fatto che lei vi assista lo rende atroce, un evento pubblico. «Ho pensato agli ebrei», dice, all’improvviso. E poco dopo parla della «morte planetaria, la morte proletaria». 

A diciott’anni considerai il suo scritto sulla mosca come un grido contro l’ingiustizia che la morte rappresentava, perché ogni morte è il risultato di una sopraffazione – oggi che ho abbandonato Pascal e ho smesso di scommettere, io lo chiamo il peccato di Dio. Invece era un testo politico, anche il suo. Ma forse non è possibile scindere ciò che è esistenziale da ciò che è politico, è questo il punto. Claudio Lolli, per esempio, non lo ha mai fatto. 

Avrei voluto dirglielo, all’unico concerto suo cui ho partecipato, ma la timidezza mi ha dissuasa. Alla locanda Atlantide, nel quartiere romano San Lorenzo, sembravamo un gruppo di amici riuniti, tanto era calda e familiare l’atmosfera. Era appena stata promulgata la legge che impediva di fumare nei locali, e anche Claudio pativa di non potersi accendere una sigaretta: ci scherzò sopra. Emme non c’era, era rimasta a Siena, o era partita per chissà dove, con le sue ossa sottili, che non indovineresti mai quanto siano forti, e le pantofole che mi aveva sottratto lasciando giusto un biglietto.

In un’intervista di qualche anno fa, Lolli affermò che «le rivoluzioni finiscono, le storie d’amore no». Se fosse qui stasera, gli direi che, per sopravvivere, le storie d’amore – di ogni forma d’amore – devono subire scosse e rivoluzioni, e che comunque vada se ne esce ammaccati. Ma di certo lui lo sapeva meglio di me: d’altronde, quanti versi ha dedicato all’amore? Una poesia senza titolo contenuta in Rumore rosa inizia dicendo che «L’amore è tempo e corpo». Di rado ho trovato una definizione più consapevole, più precisa. Una di quelle che avresti voglia di condividere con un amico.

Se avessi il numero di telefono di Emme, stasera gliela manderei. Ma neppure Emme è qui; non la vedo e non la sento da anni, il gioco dei segni con lei non ha funzionato, o forse era solo che non avevamo tante cose in comune, con Claudio Lolli ne avevo di più. Ogni volta che lo ascolto, è a lei che penso, e pur avendola persa mi pare di essere riuscita a custodirla, salvaguardando dall’usura del tempo questa sua eredità. Ogni volta, ricordo il suo incisivo accavallato, irresistibile, mentre sorride orgogliosa di insegnarmi quel che secondo lei devo necessariamente imparare. Ha vent’anni, due più di me, un passato che non saprò mai davvero, e una madre affidataria che porta il mio nome, ma è una coincidenza, non ci protegge dall’eventualità di una separazione, non ci mette al riparo da nessuna ferita. 

Abbiamo vissuto anche noi due «in un sogno che non si ripeterà». Per questo nei miei ricordi ha sempre vent’anni, e del ’77 sa poco pure lei; ma è impaziente, e non vuole pagare la colpa di non avere colpe, e preferisce morire piuttosto che abbassare la faccia, e cerca sempre l’amore nelle braccia sbagliate, e si ubriaca di luna, e quando scopre Claudio Lolli lo riconosce all’istante, perché ha vent’anni, e in ogni èra e in ogni luogo vent’anni sono «rabbia sete e acqua salata», come disse lui. Emme lo riconosce come qualcosa che le appartiene, e quando me lo regala riconosce anche me.

 

Questi due testi sono stati letti nella serata dedicata al cantautore bolognese il 19 febbraio scorso al MAST di Bologna: "Da Lolli e dintorni: la poesia civile di Claudio Lolli", serata organizzata da Paolo Capodacqua e Massimo Recalcati.

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