Eugenio Baroncelli. Falene

3 Settembre 2012

Il titolo del libro di Eugenio Baroncelli, Falene (Sellerio, 281 pp., 14 €), coincide con quello che Virginia Woolf aveva originariamente previsto per il suo romanzo Le onde: la sensibilità dell’autrice era stata infatti colpita dal dibattersi disperato di una falena contro il vetro della sua finestra, nel tentativo di resistere alla morte; essa sembrava rappresentare, in modo puntuale e semplice, la tragicità e l’assurdità della vita, nel breve tempo che le è concesso di durare. Baroncelli, con la sua opera, prova a riguadagnare questo sguardo presentandoci 237 biografie della lunghezza media di una “leale paginetta”, di personaggi più o meno celebri che hanno saputo stimolare, con i loro movimenti disperati e scomposti, la sua raffinata scrittura. Il punto di vista è quindi quasi “astrale”: l’accostare vite così distanti nel tempo, nello spazio e nei contenuti sembra possibile solo a colui che guardi da molto lontano, da un altro pianeta, conservando però, nonostante la distanza, una memoria puntuale e coinvolta. L’oggetto dell’osservazione è dunque un’umanità libera da ogni cronologia e fotografata come se vivesse un eterno presente in cui Plutarco di Cheronea può trovarsi gomito a gomito, nelle pagine di questo libro, con François de Chateaubriand, e Anatole France subito dopo Edipo.

 

Le biografie sono raggruppate in capitoli di lunghezza estremamente variabile, il cui titolo sembra indicare al lettore il compito di ravvedere una certa familiarità fra queste audaci giustapposizioni. Ma non si tratta di categorie che potrebbero delineare tipi umani: nel libro di Baroncelli non esiste null’altro se non l’evento di ogni singola esistenza, e se qualche parallelismo può essere colto è solo perché grazie a esso emerge qualche archetipo, qualche struttura dell’umano che però non può, in alcun modo, essere detta, ma solo osservata in controluce o bisbigliata all’orecchio del lettore. Il testo è dunque fatto di piccoli frammenti di prosa, che tuttavia, per produrre una certa significatività nonostante la brevità, devono possedere un potenziale poetico: il lessico è preciso e ricercato, la scelta puntuale di alcune parole allude a slittamenti di significato che fanno di ogni singola biografia il dispiegarsi di un mondo, come tanti piccoli aleph posizionati sotto ogni gradino di questa piacevole e densa lettura. L’abilità letteraria dell’autore nel comunicare, in pochissime righe, la singolarità di un’esistenza e al contempo sensazioni che attingono all’universale è notevole e tuttavia non compiaciuta, quanto piuttosto divertita: è tangibile l’estremo piacere con cui Baroncelli, immagine dopo immagine, ci invita a guardare nel buco di una serratura, il cui contenuto – la vita, la morte - non può che essere vertiginoso.

 

La sensibilità della scrittura, intrisa di lirica e musicalità, è la chiara traccia dell’affetto che l’autore prova per i suoi personaggi: a volte egli si chiede cosa penserebbero se si vedessero tratteggiati con quelle parole, come se il racconto di queste esistenze fosse un modo per riportarle in vita e avere un contatto diretto con esse; e allo stesso modo, scrivere le vite dei morti permette forse all’autore di prendere contatto con la morte stessa, poiché scrivere una biografia vuol dire poter scrivere di una vita che si è già conclusa e che forse, con l’evento della proprie fine, celebra il proprio senso.


 

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