Fassbinder fuori tono

27 Giugno 2014

Quello della biografia è un genere letterario difficile, soprattutto quando tratta di personaggi che furono “scandalosi” in tempi lontani dai nostri. È complesso riuscire a restituire l'impressione dello “scandalo che fu” e che oggi è riassorbito nella storia come un episodio diventato ormai necessario e non più sconvolgente.

 

In altre parole: la biografia si troverà indecisa se adottare la voce autorevole del presente che racconta il (superato) moralismo del passato, oppure cedere al fascino della narrazione antica, mascherandola da raccontino attualizzato. La biografia ideale, a mio avviso, dovrebbe rimanere in equilibrio tra i due poli, fornendo un contenuto aggiornato (possibilmente non giudicante) senza dimenticare la “forma critica” che ha costituito la storia quando accadde. Insomma, un meccanismo letterario contorto, ben difficile da spiegare senza esempio.

 

Arriva in aiuto la recente e approfonditissima biografia di un regista che cambiò diverse cose nel cinema e che – in molti lo pensano e anche io – morì prima di cambiarne molte altre. Un giorno è un anno è una vita, pur rappresentando un tentativo importante (se non cruciale) di riassumere e raccontare la complessa esperienza esistenziale di Rainer Werner Fassbinder, mi sembra però una biografia che pende un po’ troppo verso l’aneddotica, che fatica a collegare i periodi umani e creativi l’uno all’altro – unendo insomma la vicenda personale e quella artistica senza soluzione di continuità – e che, seppur dettagliatissima, si perda quasi nei suoi dettagli e non riesca a restituirli al lettore come parte di un discorso coeso.

 

È naturale e normale dividere la vita del personaggio celebre in tappe esistenziali e periodi artistici, eppure sembra che il biografo di Fassbinder abbia amato quasi troppo il suo soggetto per permettersi di guardare oltre la “restituzione fedele” del fatti. Capitano cioè due cose, riguardo al momento di passaggio tra un’epoca e l’altra (o capitoli): o è esplicitato dall’autore così tante volte che alla fine non si capisce più quando stia succedendo per davvero, oppure questo momento di passaggio viene sommerso da così tanti particolari che, invece di aiutare a capire, confondono. E se l’aneddotica è qui presente senz’altro per scrupolo storiografico, la forma in cui viene presentata fa pensare più al gossip erudito e dunque un po’ irrita, quando non diverte.

 

Intanto però riprendiamo le fila della critica principale: se riuscire a restituire l'atteggiamento critico del passato con l'occhio consapevole del presente è cosa forse impossibile, mantenere un dialogo paritario tra opera e vita dell'artista è qualcosa che l'autore di biografie può raggiungere con sforzo minore. È qui soprattutto che Jürgen Trimborn – autore, ahimè già passato a miglior vita, di altre biografie importanti su celebrità tedesche e non, come Romy Schneider o Leni Riefenstahl – mi dispiace. Mi sembra che l'autore abbiamo avuto più affetto per l'uomo che per il regista.

 

Non chiedo certo la critica cinematografica approfondita di ogni film – anche perché altrimenti, data la produttività impressionante di Fassbinder, il libro diventerebbe infinito. Però mi sarebbe piaciuto che, per dirne una, venissero spiegate le ragioni per cui Fassbinder passa da reietto inesperto ai margini dell'industria cinematografica tedesca a celebrità amatissima da tutti quasi con timoroso rispetto.

 

Mentre il primo lungometraggio – Liebe ist kälter als der Tod – viene presentato in concorso alla Berlinale del 1969, affianco ad autori tipo Godard, i critici dicono che il film può piacere agli appassionati e studenti di cinema ma i giornali sbeffeggiano più o meno tutti il suo regista, mentre a Monaco la scena cinematografica lo schifa e lo scaccia dal suo locale di ritrovo perché mangia salsicce a tarda notte e si ubriaca spesso selvaggiamente molestando chi gli sta intorno (o forse perché si chiamava “Romagna Antica”...).

 

 

Personaggio magari un po’ puzzolente, senz’altro difficile da gestire e con mille difetti, va bene: eppure Fassbinder continuava a fare un film dopo l’altro, riuscendo ad avere finanziamenti sempre più sostanziosi. La spiegazione di Trimborn sembra darsi nell’intrinseca contraddizione del personaggio, come se il suo atteggiamento anticonvenzionale e riottoso si fosse poi ad un certo punto rispecchiato “in positivo” nella ricezione economica e critica dei suoi film. Di nuovo, come se il carattere umano potesse, quasi per osmosi, influenzare i meccanismi di sviluppo della carriera artistica.

 

Tornando un po’ indietro, le radici del suo apprendistato appaiono chiare e risiedono nel periodo dell'Action-Theater poi antiteater. Benissimo. Ma anche qui, a parte i fatti concreti, non capiamo se Fassbinder si sia lanciato in questa scalata omicida culminante con l'eliminazione dei fondatori Söhnlein e Sträz nel nome di una lungimiranza artistica (e no, non basta riconoscere che “non credeva seriamente che col teatro si potesse cambiare il mondo”) o semplicemente per soddisfare una sua banalissima sete di potere.

 

Purtroppo, da quello che emerge qui – come altrove nei momenti cruciali della vita di Fassbinder – sembra che l'uomo abbia prevalso sull'artista, o meglio, sembra che la sua personalità strabordante e iper-narcisista abbia sempre avuto la meglio su tutti gli altri aspetti in gioco – consapevolezza creativa e collaboratori-amanti inclusi.

 

Quest’impressione si inserisce tuttavia in una biografia che potrebbe ben soddisfare il lettore che vuole approfondire la conoscenza del personaggio o che ha cuore la precisione storica. Un giorno è un anno è una vita è infatti capace non solo di raccontare il flusso esistenziale fassbinderiano, ma di inserirlo nel contesto germanico (più che europeo, in realtà) fornendo anche l’immagine che ne avevano i media: e anche se (a mio parere) Trimborn strumentalizza un po’ il ruolo della stampa, è anche vero che il giornalismo tedesco interviene qua e là allentando la narrazione e fornendo veri e propri siparietti comici (ad un certo punto, ad esempio, lo Spiegel gli attribuisce “tutte le carte in regola per diventare un tipico buzzurro di Monaco”).

 

L’edizione italiana ha subito un’ulteriore revisione per adattare certi riferimenti o notizie al contesto italiano, aggiungendo due poesie giovanili dell’autore non presenti nell’edizione tedesca. Il risultato è iper-curato, preciso, senza semplificare e/o sottovalutare il pubblico che potrebbe avvicinarsi a una biografica che in definitiva appare godibile sul piano dell'informazione, approfondita per gli appassionati, ma anche accessibile per i non esperti.

 

Quello che manca è quella voce coesiva di cui ho parlato sopra, che infatti per contrasto appare ben chiara nell’intervista utilizzata come introduzione, condotta da Halla Schlaumber per Playboy del 1978 – e che infatti è stata inserita solamente nell’edizione italiana, a dimostrare che i curatori dell’edizione Saggiatore hanno probabilmente fatto un lavoro migliore dell’originale.

 

Fassbinder appare come un uomo gonfissimo, di ego e di sostanze varie, scorbutico e temuto da tutti, che però riesce a farsi apprezzare non in funzione del negativo né nonostante quello, ma anche con quello che, insomma, era proprio un brutto carattere:

 

PLAYBOY Quand’è che le capita di essere allegro?

FASSBINDER Sempre, adesso per esempio sono molto allegro.

PLAYBOY Ah, ecco. A vederla non si direbbe.

FASSBINDER Non c’è bisogno che si noti. Un’allegria che si manifesti in maniera palese, nei modi consueti, il più delle volte non è allegria.

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