Finitudine

10 Ottobre 2011

7 Ottobre 2011. Chiuso in una specie di bunker, a  dispetto di una generale richiesta di dimissioni, il Presidente del Consiglio ha ribadito che non vi è alternativa al suo esecutivo. Non vuole finire.

 

Asparire


Volendo rimarcare con forza quanto del Novecento filosofico doveva, a suo parere, essere mandato in soffitta,  un giovane e assai brillante filosofo francese, nel 2006, intitolava il suo libro Dopo la finitudine. In effetti la parola “finitudine”, sebbene non bella e usata quasi solo dai filosofi, calza a pennello. Non ve ne sono altre così capaci di sintetizzare in una battuta l’ossessione di un’epoca. Nell’Ottocento la palma per la parola chiave sarebbe senz’altro andata a “storia” ed il secolo dei lumi non avrebbe avuto dubbi ad assegnarla alla “ragione”. Che la parola novecentesca sia “finitudine” e non la più comune “fine” o l’altrettanto dotta “finitezza”, si deve ad una precisa intenzione espressiva. Connota non un dato di fatto, non una mera condizione, ma un rapporto attivo con la fine, costitutivo dell’umano modo di essere, il quale, secondo Heidegger, funzionerebbe come orizzonte ultimo della comprensione della realtà. Un poeta italiano, Giorgio Caproni, che amava molto giocare con la filosofia per irridere poi chi lo prendeva troppo sul serio, si è inventato una volta un neologismo per dare un immediato contenuto intuitivo alla “finitudine” dei filosofi: “asparizione”. Intendeva un apparire che fosse al contempo uno sparire e, correlativamente, uno sparire che fosse nello stesso tempo un apparire, con grave pregiudizio del principio logico del terzo escluso.  La vita aveva per lui questa forma logicamente assurda: non qualcosa che appare e poi scompare, secondo un processo lineare, ma qualcosa che si dà nel suo splendore – splendere significa proprio portare l’apparire alla sua massima intensità - nel mentre si sottrae indefinitamente. Non due eventi, ma lo stesso unico evento. Un’offerta ed un rifiuto simultanei e indiscernibili.


Epifania del poco


Del resto lo sappiamo benissimo. È sufficiente un minimo di lucidità. Avere e perdere sono termini non solo correlati, ma sinonimi. “Epifania del poco”, scriveva ancora Caproni dialogando con Calvino.  Se l’uomo “ha” un mondo, una madre, un’amata o il potere, lo ha solo nella misura in cui l’ha “già da sempre” (altra espressione caratteristica della filosofia tedesca del Novecento) perduto. Fuori dall’orizzonte della perdita non c’è avere alcuno. Avere tutto è non avere niente. Il “poco” è il nostro orizzonte, posto che in quell’aggettivo si percepisca non soltanto la esclusione dal tutto ma anche la felice emergenza dal nulla di qualche cosa. Per nascere e per avere finalmente un mondo devo uscire fuori, cioè cominciare a perdere. Avrò una madre perché il cordone ombelicale è stato tagliato e la madre è per sempre dileguata in lontananze inaccessibili. L’insistenza novecentesca sulla “mancanza” come tratto caratteristico dell’umano non stigmatizza perciò una deficienza, ma illustra una relazione. La psicopatologia (il “berlusconismo”, ad esempio) inizia quando la mancanza è vissuta come una ferita che deve essere guarita, mentre l’etica comincia quando la mancanza, il mancare, il perdere, sono assunti come modalità positive del rapporto con il mondo. Lo psicoanalista Jacques Lacan vestiva dunque i panni del filosofo quando ricordava ai propri allievi, aspiranti terapeuti, che la psicoanalisi non guarisce e che deve piuttosto essere rubricata nella categoria dell’etica.


L’esistenzialismo è un umanesimo


La finitudine è una forma della saggezza, un esercizio, ed è perfino troppo facile raccomandarla in tempi caratterizzati dalla compulsione a non perdere, a non invecchiare, a non rinunciare al proprio derisorio potere personale: compulsione a “godere” in barba alla Legge che invece della mancanza strutturale è segno. E allora perché il nostro giovane filosofo – si chiama Quentin Meillassoux ed il suo libro aspetta ancora una traduzione italiana – invita a congedarla? Forse perché anch’essa come l’ottocentesca “storia” e la settecentesca “ragione”, se ben esaminata, nasconde un residuo di mito. Perché l’epoca chiede altro. Perché, con i suoi problemi globali, problemi che investono la natura nel suo complesso, abbisogna di un’altra unità di misura.  La finitudine è un orizzonte troppo ristretto. Nietzsche avrebbe detto che è “umano, troppo umano” Checché ne dicano i diretti interessati, apparentemente ben poco indulgenti con l’”umanismo”, la filosofia del Novecento fissando nella finitudine il suo centro attraente ha continuato a pensare l’uomo come unità di misura ultima. La Storia e non la Natura è rimasta il suo tema. La finitudine è predicato dell’umano modo d’essere,del suo  modo d’essere singolare e del suo modo d’essere collettivo. Dell’animale, ad esempio, si dice che acceda alla finitudine quando comincia ad assomigliare all’uomo, quando la mancanza, come nel caso della malattia, lo afferra e fa sì che egli senta albeggiare in sé una forma aurorale di autocoscienza. Comunque, solo l’uomo è finito, solo lui ha mondo, solo lui è mancanza. Nonostante le contumelie di cui è stato vittima, il saggio di Sartre L’esistenzialismo è un umanesimo, scritto nel 1945, resta il manifesto del secolo passato.


“Bisogna essere assolutamente moderni”


Ma cosa c’è, allora, “dopo la finitudine”? Probabilmente un altro modo di pensare il mondo senza riferirlo all’umano, prendendo le parti dell’animale sano, che non pensa, o della pianta immobile nel suo autismo vegetativo, prendendo le parti insomma di quel vivente che viene sempre prima e che pedina il nostro esistere come l’ombra segue il corpo. Bisognerà, forse, seguire l’invito dei più saggi tra i filosofi del passato e del presente: per vedere correttamente il mondo, essi dicevano, il primo passo da compiere è dimenticarsi, non ritornare costantemente e compulsivamente su di sé e sulla propria strutturale finitezza. Non c’è niente di arcaico in questo invito. Dopotutto, si chiede ancora una volta di essere assolutamente moderni, cioè copernicani, darwiniani, freudiani (non atropocentrici), per salvare qualcosa di infinitamente più grande e di più degno di rispetto della nostra “mancanza”.
 

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