Fiona Tan. Inventory
Per la sua personale al MAXXI, Fiona Tan ha scelto di dialogare con la città di Roma sul piano della relazione tra opere d’arte, luoghi e collezioni. Questo è in effetti il nodo tematico sul quale si articola il più recente lavoro dell’artista, che dà il titolo all’intera mostra, Inventory, una proiezione multipla ispirata alla collezione di archeologia classica avviata proprio a Roma dall’architetto inglese Sir John Soane (1753-1837).
Il percorso espositivo si snoda in più tappe, con una significativa selezione di videoinstallazioni realizzate dal 2004 a oggi, cui si aggiungono un intervento site-specific e una citazione. Inizia con una premessa: Correction, lavoro sulle carceri, presentato per la prima volta nel 2004. Disorient (2009), doppia proiezione già esposta al Padiglione Olandese per la cinquantatreesima Biennale veneziana.
Cloud Island (2010), video sulle trasformazioni economiche e sociali dell’isola giapponese di Inujima nel XX secolo, realizzato per la Biennale di Architettura, ancora di Venezia. Infine Inventory. Passaggi che danno forma a questo impianto come i capitoli di un libro in una narrazione lineare, attraverso i secoli.
A dare un orientamento allegorico al suo discorso, Tan adotta come legante tra le diverse opere in mostra una citazione dalle Carceri d’Invenzione di Giovanni Battista Piranesi. Le incisioni storiche risalenti alla metà del XVIII secolo sono qui riprodotte in stampe digitali e, se da un lato fanno eco a Correction, funzionano come rimando visivo all’architettura del MAXXI, ammiccando espressamente al binomio tra la libertà dell’immaginazione e la costrizione del pensiero.
Correction
Il termine inglese ha il suo corrispondente italiano in “correzione”, e in entrambe le lingue include i significati di “miglioramento” e “castigo”. In ogni caso, implica un rapporto verticale tra un modello riconosciuto come “positivo” e un comportamento che lo trascende.
L’installazione si compone di sei pannelli verticali, sospesi e disposti nello spazio intorno a un’asse centrale, esplicito rimando al panopticon, su cui scorrono più di trecento ritratti di detenuti e delle loro guardie carcerarie, immobili davanti allo spettatore, che si ritrova incluso al centro dell’opera e in rapporto visivo diretto con le presenze evocate.
Il sistema architettonico a raggiera del panopticon, sintesi e metafora dell’esercizio del controllo e del potere, è ricalcato da Fiona Tan che ne simula i meccanismi promuovendo lo spettatore a sorvegliante onnisciente. La premessa metaforica introduce la riflessione sul modo di avvicinarsi e guardare l’arte, di coglierla, sulla funzione del museo e sui modelli architettonici che lo organizzano.
L’artista rilegge il lavoro sulle carceri e cerca di rispondere alle seguenti domande: quanto sono spontanee o mediate le pulsioni emotive che proviamo di fronte a un’opera e che ci portano ad ammirarla, condividerla, e in alcuni casi collezionarla? Esiste una continuità tra la vita di un’opera, una collezione, un museo e le forme di controllo?
Carceri d’invenzione
Proseguendo verso le sale superiori, Fiona Tan guida lo spettatore a ribaltare il suo punto di vista. Lo prende per mano, accompagnandolo attraverso le scale, assunte a segno identificativo del MAXXI. Nere e sinuose si stagliano sullo sfondo neutro delle pareti in cemento e si rincorrono incrociandosi disegnando linee sospese senza lasciar prevedere la loro destinazione. Al di sotto di queste, grandi specchi ne riflettono il fondo, ne moltiplicano le visioni, ne amplificano la già ingombrante presenza; appena sopra, nella Sala Guido Reni, la riproduzione di otto delle incisioni settecentesche delle Carceri d’invenzione, sottolinea quindi la corrispondenza visiva, e forse quella allegorica, tra il regno dell’immaginazione e il regno del controllo. In quello che lei stessa ha definito un “match di boxe”, l’artista assume le architetture del MAXXI come anello di congiunzione tra i quattro differenti lavori esposti in mostra, in una verticale diretta infilata dal basso verso l’alto che vede ai suoi margini opposti le scale reali dello spazio e quelle immaginate da Piranesi.
Disoriented
L’opera è un viaggio in Oriente, impostato su un doppio binario visivo cui corrisponde uno sdoppiamento temporale. Due video proiezioni, una di fronte all’altra, fanno scorrere immagini riprese alle varie latitudini da Baghdad all’India, alla Cina, da un lato alternando visioni di slum e grattacieli, paesaggi urbani, monti innevati, i gesti delle antiche abitudini e le ingombranti presenze dei militari occidentali, dall’altro concentrandosi su una dettagliata perlustrazione di angoli e scaffali straripanti di merci e oggetti di un negozio cinese.
Con un salto di sette secoli indietro nel tempo la visione è accompagnata dalla lettura di alcuni passi tratti dal Milione di Marco Polo, generando una lista di immagini e impressioni, che contiene in sé le spinte opposte e contrarie dell’esigenza di ordine e controllo e dell’attrazione per lo spaesamento, il disorientamento, espresse nel racconto del mercante veneziano, nei due video, e nel titolo.
Cloud Island
Di diverso taglio e respiro è la terza opera video, narrazione della quotidianità di Inujima, isola giapponese tradizionalmente legata ad attività di pesca e agricoltura, convertita a sede industriale durante la prima metà del Novecento con un conseguente e veloce aumento della popolazione da poche decine a più di mille abitanti.
Oggi le raffinerie di rame, e le altre industrie all’origine dello stravolgimento economico, demografico e sociale dell’isola sono da tempo dismesse. La loro attività e il loro abbandono, la loro continua presenza, sono un nodo della storia dell’isola e, nel 2010, le loro architetture sono state al centro di un progetto di riqualifica culturale e artistica.
Le pulite immagini riprese dall’artista ritraggono un tempo sospeso nella quiete pomeridiana che incornicia le attività degli anziani abitanti rimasti sull’isola, circa una cinquantina, nuovamente dediti all’agricoltura. Le loro case, piene di oggetti accumulati e accatastati, gli album di fotografie, le cucine, gli orti, i cortili, la fabbrica che c’era e quello che ne è rimasto, sono le collezioni private di memorie e ricordi, che essi si portano dietro.
Inventory
“Inventario” in italiano. Stessa radice di “trovare” e “creare” anche in inglese, sottolinea Fiona Tan, per la quale l’approccio catalogativo, che caratterizza l’opera la pone in rapporto dialettico con Roma riproducendo il meccanismo del rapporto tra la città storica e quella contemporanea, attraverso la collezione dell’architetto neoclassico inglese Sir John Soane. Una collezione avviata proprio a Roma. Inventory è una videoproiezione multipla, disposta sulla parete come una quadreria, mossa dal diverso formato e dimensione delle opere che la compongono.
Nel caso specifico sei proiezioni, ognuna realizzata con una videocamera differente, che simulano una visita nella celebre casa-museo dell’architetto inglese. Ne riprendono i reperti incastonati nelle pareti, come si usava nei cortili dei palazzi signorili o nei chiostri delle chiese romane, si soffermano sui resti di sculture, teste, gambe e braccia, costellazioni di una storia conclusa: l’accumulo della collezione si riflette nella moltiplicazione delle riprese e dunque del tempo e dello sguardo.
Il lavoro sottolinea così le molteplici relazioni tra memorie, luoghi, storie, il loro rapprendersi in elenchi e collezioni in cui appare il vincolo tra bellezza e controllo.
La riflessione di Fiona Tan si muove così intorno alla relazione tra la bellezza, il tempo, la memoria e l’identità: da un lato le opere, dall’altro le sovrastrutture culturali che ne incanalano l’invenzione e il godimento. Da un lato la collezione, dall’altro il controllo. L’analogia tra le due parti sembra essere il vero nodo della mostra. Riprendendo Umberto Eco, Fiona Tan ammette un’ambiguità dell’arte, schiacciata tra le due tensioni opposte verso il controllo e l’infinito. Abbraccia l’idea di una collezione come un “elenco di oggetti”: una storia, un ritratto di chi l’ha composta “incongruente e idiosincratica”, mai totalmente chiusa. Elenchi che “alludono quasi sempre all’infinito”, nonostante la controspinta del “desiderio di ordine e controllo” che li domina. Un’ambiguità che non si risolve se non nella compresenza dei due estremi.
Rimane alla fine un dubbio sul legame dichiarato tra la mostra, il Museo e la città di Roma. Certamente gli specchi e le stampe di Piranesi, come si è visto, intessono un dialogo visivo con il MAXXI: scale su scale che salgono verso punti di fuga indefiniti. E poi l’allegoria che le sottende tra fantasia e controllo. Quel che sfugge è però il gancio con la città. Su quale piano va ricercato?
Nella Roma attuale, con la sue specificità, o nell’incrocio tra passato e presente e cioè nella stratificazione di tracce e vissuti di epoche diverse? Certo si possono far scorrere molte parole per riconoscere questo legame, e potremmo anche riuscirci, ma senza rimuovere la sottile sensazione di leggerci una riflessione a posteriori. Che ci sia una “sovradeterminazione” delle premesse curatoriali come ha osservato Valentina Valentini?
D’altro canto, guardando Inventory e la relazione che l’opera dichiara con Roma, viene (amaramente) da pensare che, nonostante tutto, il passato condizioni ancora l’immaginario straniero sulla città, senza coglierla realmente ma anzi procedendo sui binari dei luoghi comuni. Fiona Tan inciampata su questi binari o ci sta danzando sopra? “Non è possibile davvero vedere Roma – scrive Andrea Lissoni a proposito di Inventory – incapsulata nella scatola temporale della Roma di Sir John Soane, a sua volta incapsulata nello sguardo tardo settecentesco neoclassico anglosassone.”