Furore oggi
Cosa accade quando la violenza sconfigge la ragione? La risposta sembra facile: guerre e altri disastri sociali, esistenziali, culturali, politici, ecologici. Il Novecento ce ne presenta un elenco impressionante, ma anche questi ultimi tre decenni non sono stati da meno. Perché la violenza che sconfigge la ragione ha molte facce: l’oscena invasione russa dell’Ucraina, certo, ma anche le speculari guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan e prima ancora nella ex-Jugoslavia; violenza che sconfigge la ragione è la corsa al riarmo (con la spesa militare raddoppiata tra 2000 e 2021); violenza è quella che il capitalismo industriale e tecnico (la ragione strumentale finalizzata alla massimizzazione del profitto) ha scatenato da tre secoli di rivoluzione industriale contro l’uomo, la biosfera e contro le future generazioni – chiamandolo progresso – oggi non facendo nulla o quasi contro un riscaldamento climatico che sta accelerando sempre più.
E ancora: violenza è quella dei maschi contro le femmine (femminicidi e violenza domestica), maschi chiusi tra patriarcato proprietario e machismo retrò; violenza è l’omofobia; violenza è l’accanimento statunitense contro Julian Assange, colpevole del reato di libertà di espressione; violenza è quella di chi ci vuole imporre l’intelligenza artificiale come un dato di fatto a prescindere da ogni deliberazione democratica del demos; violenza è il principio della disruption che impone il tecno-capitalismo; violento è ogni potere che nega la possibilità di un’autentica autonomia dei soggetti umani (quella autonomia che cercava invece l’illuminista Immanuel Kant) e li porta, li ingegnerizza a invocare sempre qualcuno che pensi per loro; violenza è quella che ogni giorno tutti noi pratichiamo contro gli altri avendo dimenticato quei concetti fondanti della ragione che sono libertà, uguaglianza e fraternità/solidarietà: una violenza che ogni giorno – quasi inavvertita perché ormai normalizzata – esercitiamo con i nostri comportamenti arroganti/rabbiosi verso gli altri, in rete e non solo. E si potrebbe continuare. E davvero tutto sembriamo, meno che sapiens.
Quando la violenza sconfigge la ragione è anche il sottotitolo di Furor, l’ultimo libro del sociologo Carlo Bordoni (Luiss University Press, pag. 158), che ci ricorda come la violenza si faccia ancora peggiore di quanto non sia in sé e per sé quando si torna appunto a giustificarla con le più diverse e stravaganti motivazioni. Il tutto, aggiungiamo, in una società neoliberale che ci ha fatto regredire allo stato di natura secondo Thomas Hobbes (dove regnava l’homo homini lupus), pre-contratto sociale moderno, cioè il neoliberalismo (complici le nuove tecnologie social ma anti-sociali), ha cancellato il contratto sociale della modernità e quindi la ragione del nostro poter vivere civile, trasformandoci in una società di mercato, utile solo alla massimizzazione del profitto – e anche lo sfruttamento del lavoro e la sua precarizzazione sono una forma di violenza.
Riflessioni amare queste che stiamo facendo e condividendo, che il libro di Bordoni ci aiuta però a inquadrare e razionalizzare, trovando nelle sue pagine la genealogia di questa (irrazionale, antiumanistica, paradossale, pericolosissima) legittimazione della violenza – tenendo però ben presente che, come scriveva Hannah Arendt citata da Bordoni, “la violenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittima”.
E ancora: la guerra può diventare anche un’emozione collettiva, chiede una mobilitazione totale e questa mobilitazione cancella o nasconde la ragione. Ed “è il fascino perverso della guerra come mutamento epocale; uno strumento formidabile, dirimente per uscire dallo stato di incertezza, che permette di resettare la realtà e preparare la rinascita. Nuove opportunità, nuove regole, che però richiedono un prezzo altissimo da pagare. Ma è soprattutto quando questa emozione condivisa diventa etica, dunque moralmente ammissibile, che bisogna cominciare ad avere paura”. E allora – ecco il senso del libro – “ora è più che mai necessario cercare di capire cosa stia succedendo in una società sempre più insofferente e insicura, che cerca soluzioni nelle risposte emotive, nell’aggressività e nella negazione dell’altro” – appunto nella negazione della ragione in nome di una non-ragione emotiva ed etica – e che “sta entrando prepotentemente nelle nostre vite”.
E nel suo libro Bordoni analizza il problema della violenza affrontandolo da più punti di riflessione e con molti richiami ad autori come Benjamin, Derrida, Foucault, Schmitt. Come il clima di irrazionalità che mette in discussione la scienza, preferendovi un uso passivo e automatico della tecnologia; come “la prevalenza della non-ragione, unitamente a esempi di auto-affermazione personale basati sull’emotività e la spontaneità, attraverso gli immancabili social e accompagnata dall’imperversare del diritto di parola, potente cassa di risonanza per ogni opinione personale, anche la più strampalata […] con una preferenza per la disintermediazione che ha un sottofondo di populismo e falsa democrazia”. Ma lo fa cercando di recuperare “la razionalità perduta e il lato positivo della tecnica”, il pharmakon buono che Bordoni considera “così utile all’umanità”.
La domanda è dunque: “ma quanto siamo ormai lontani dall’Illuminismo” – che invece proprio sulla ragione si fondava? Molto, moltissimo se quella ragione che si dice avere regolato l’intera modernità, scrive Bordoni “appare messa in secondo piano dalle emozioni […] più adatte alle esigenze di una vita vissuta solo al presente”. Già, perché se la ragione autentica ha bisogno anche di confrontarsi col passato per poter immaginare e costruire il futuro, oggi passato e futuro sono stati cancellati dal nostro dover vivere solo nel presente perché così ci vuole il capitalismo e il suo sistema tecnico, noi dovendo adattarci all’accelerazione imposta dalle macchine e dal capitalismo. E “un sintomo dell’allontanamento dalle idee illuministe è proprio la scomparsa del dubbio – prima qualità della ragione, fondamento della logica e garante della conoscenza – o la sua attenuazione”. Ma la scomparsa del dubbio e del pensiero critico e riflessivo – perché infatti dover pensare e conoscere se per tutto bastano oggi un algoritmo e l’i.a. – favorisce ovviamente la riproducibilità del sistema capitalistico e tecnico, impedendo o rimuovendo ogni opposizione e ogni pensiero altro e diverso (filosofico, responsabile) da quello matematico dominante e oggi, per noi, delirante.
In questa condizione di individualismo neoliberale e tecnologico “l’individuo solo con se stesso cerca di rinvenire certezze interiori, convinto di essere in possesso di auctoritas per il solo fatto di essere qui e ora. Persino la condivisione con gli altri avviene con una sordità selettiva, dove è rifiutata per partito preso ogni opinione contraria e accolta solo ogni conferma del proprio sentire. […] Dilaga un pensiero unico alla rovescia, dove la verità autoreferenziale va difesa con la forza. […] Ma una cultura senza il beneficio del dubbio è destinata a impoverirsi”, e oggi il dubbio è appunto cancellato da un determinismo che ci impone di credere (anche questa per noi è violenza contro l’uomo) a un algoritmo e alla sua presunta ma presuntuosa esattezza, dimenticando che la matematica è una scienza a-valutativa e a-morale, quindi, ciò che sembra esatto quasi mai è anche giusto ed etico. Certo, anche la ragione ha prodotto disastri, pensiamo ai totalitarismi (“il totalitarismo è una creatura della modernità”) e rinviamo alla critica di questa ragione che nega se stessa fatta in Dialettica dell’illuminismo da Horkheimer e Adorno e richiamata da Bordoni; che aggiunge: è con i totalitarismi che “si conclude, nel momento stesso dell’estrema espressione dell’idea moderna di ordine sociale e di meccanizzazione delle esistenze, la lunga stagione della modernità. Tutto ciò che segue da allora […] è solo un tentativo di mantenere in vita una forma di civilizzazione che ha ormai esaurito la sua spinta vitale”; che però forse non è veramente esaurita se oggi quell’idea perversa di ordine sociale totalitario si sta traducendo nella digitalizzazione del mondo e nell’ordine sociale algoritmico. Per cui “l’umanità sembra correre all’unisono non già verso il baratro (come insistono a proclamare gli apocalittici), bensì verso un’ennesima mutazione. Dopo l’Homo Sapiens, e il passaggio attraverso l’Insipiens, è il momento dell’Homo Technologicus, sempre più simile a una macchina, integrato in un rapporto di relazione/dipendenza con le nuove tecnologie, ormai inseparabili dal suo quotidiano. […] Per l’uomo nuovo è sufficiente l’impulso, quello che gli fa premere il bottone con un semplice clic” – in una crescente simbiosi “tra pensiero automatico e l’automatismo tecnologico”; dove tutto sembra razionale (e “il digitale ha svincolato l’uomo da ogni freno inibitore, accrescendo il suo senso di onnipotenza” – e anche questo per noi è generativo di violenza), mentre è tremendamente irrazionale; sempre ricordando, ancora Bordoni con i francofortesi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, che “la razionalità tecnica, oggi, è la razionalità del dominio stesso”, e lo scrivevano quando ancora non c’era il digitale e la digitalizzazione di tutto e tutti.
E così la tecnologia “è il nuovo credo che ha sostituito la scienza. A differenza di questa [però], offre certezze assolute che sono diventate insindacabili in conseguenza della sua utilità, trasformata in dipendenza, perché la tecnologia offre gli strumenti adeguati a controllare e costringere a un comportamento passivo e omologato”, dando però l’illusione “di partecipare al sapere senza conoscere”, il tutto “accompagnato da una nostra totale immersione nell’inconsapevolezza, fino all’inebetimento causato dalla ripetitività meccanica della digitazione. […] Pura irrazionalità, rinuncia all’autodeterminazione” – e anche navigare “è un termine ormai obsoleto, meglio sarebbe dire lasciarsi trasportare”.
E dunque – scrive Bordoni – “non si tratta di essere apocalittici, ma consapevoli di ciò che sta accadendo”, e questo ancora di più mentre stiamo transitando “da un mondo a misura d’uomo a un mondo a misura di macchine”. Eppure, “solo la tecnologia ci può salvare”. Ma potrà farlo solo fino a quando il sapere “sarà coltivato e ritenuto la forma più alta della produzione umana. Questo è il limite che non ci è lecito superare: il disconoscimento del primato della scienza”. Per non chiuderci “in un autismo tecnologico”.