Garrone: Il racconto dei racconti
C’è una tensione continua, irrisolta e per questo creativa, nel Racconto dei racconti [Tales of Tales] di Matteo Garrone: la tensione fra il fiabesco e il realismo, fra una materia letteraria fatta di re, regine, draghi marini, pulci giganti, orchi, castelli, orridi, streghe, fate, miracoli e orrori, e la verità con cui questa è messa in scena, calata e incastonata in un ambiente credibile. La sfida di Garrone sta nella capacità, e prima ancora nella possibilità di catturare con il cinema la trasformazione del fiabesco da parola a evento realistico, cogliendo non solo la meraviglia dell’effetto finale (che nel cinema commerciale di oggi è la meraviglia dell’effetto speciale, la concretissima, tecnologica creazione di un immaginario inesistente grazie alla computer grafica), quanto lo stupore del divenire, il movimento incessante della realtà che rende viva un’opera d’arte.
Salma Hayek in "Tales of Tales", di Matteo Garrone, 2015
Garrone insegue la mutazione in immagine di un immaginario letterario, popolare e fiabesco; non cerca il realismo magico, ma il realismo della magia, offre a una fantasia di parole uno spazio, un tempo e una terra in cui radicarsi, superando con il suo realismo la realtà stessa delle cose, offrendone una sorta di revisione e interpretazione.
Alla base di tutto c’è ovviamente un testo: Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, raccolta di fiabe in napoletano secentesco pubblicata postuma fra il 1634 e il 1636. Un’opera che in pochi ricordano, di solito citata a lato di qualche testo coevo più frequentato dalla scuola italiana, come L’Adone di Giambattista Marino, e ricondotta al gusto barocco per il nuovo e lo strano. Recuperando invece un testo fondamentale per il genere fiabesco non solo italiano, Garrone elimina d’un sol colpo la questione spinosa del napoletano e del suo adattamento a un uso e un ascolto contemporanei: sceglie infatti l’inglese come lingua unica e, forte della produzione internazionale, opta per un discorso che si distacchi in modo oggettivo dalla propria matrice letteraria. Non per questo, però, dimentica la questione della lingua, trasformandola piuttosto in una decisiva questione di stile e di sguardo e sostituendo per questo la ricchezza espressiva di Basile con un realismo che prova a rendere plausibile la dimensione fiabesca.
Stacy Martin in "Tales of Tales", di Matteo Garrone, 2015
Il testo di partenza diventa perciò materia grezza e scarnificata, secondo il procedere tipico di quel cinema contemporaneo che cerca nuove forme di rappresentazione per mondi ormai digeriti e conosciuti, superando da un lato l’estetica del blockbuster in CGI e dall’altro la trappola del cinema letterario calligrafico. Un problema che qualche anno fa si poneva, ad esempio, la versione di Andrea Arnold di Wuthering Heights (purtroppo rimasta inedita in Italia), che grazie a un realismo sporco e diretto radicalizzava il romanticismo del romanzo, ma per le stesse ragioni scadeva nella semplice e nuda messa in scena del testo, senza essere in grado di trasformare in materia moderna da reinterpretare una trama usurata da due secoli di riletture e infinite versioni.
È vero, insomma, che nel caso di Lo cunti de li cunti non ci si trova di fronte a una materia sfruttata: ma se Basile è in fondo sconosciuto, altrettanto non si può dire del suo universo fantastico. E se dunque Garrone sa di avere fra le mani un immaginario abusato, proprio per questo, forse, sceglie di svuotare la meraviglia dei suoi racconti in nome di una concretezza che aggiunge credibilità ma toglie stupore. Nell’ossessione per il divenire e la trasformazione del Racconto dei racconti, il pericolo sta allora nello svelamento del meccanismo, nella sua consapevole messa a nudo e per questo nell’inevitabile scacco spettacolare di tutta l’operazione.
Vincent Cassel in "Tales of Tales", di Matteo Garrone, 2015
Come ha scritto Michele Rak a proposito di Basile, «l’uso di una lingua è l’uso di una cultura. Fa riferimento e introduce nel discorso argomenti, visioni del mondo, prospettive, pratiche e oggetti oltre che grammatiche, generi, modelli, metriche». In tal senso, anche quella di Garrone è una lingua a tutti gli effetti, opposta ed equivalente a quella di Lo cunto de li cunti: non un semplice ripiegamento della fiaba al realismo ontologico del cinema, ma un controcanto al blockbuster hollywoodiano, anche a costo di procedere in senso inverso rispetto al gusto metaforico e concettoso del barocchismo. Una lingua che funziona meravigliosamente nella scena del drago marino, con il palombaro che fa pensare alla magia infantile di Méliès, che rivendica l’anacronistica pesantezza di un mondo artefatto da costruire, e che procede invece più incerta in altri momenti, in particolare in un finale allestito di gran fretta, con un ritmo narrativo accelerato e fuori tono rispetto al resto.
Garrone sottolinea per tutto il film la credibilità della sua versione del meraviglioso, insistendo sul circo e sulla risata indotta (con riferimenti inattesi allo Scola meno conosciuto degli anni ’80, quello di Il mondo nuovo [1982] e Il viaggio di Capitan Fracassa [1990]) e ricorrendo tanto al camuffamento dell’effetto speciale quanto alla sua evidenza (con trasparenze e figure scontornate). È in fondo nell’indecisione tra l’immaterialità del digitale e la pesantezza della scenografia teatrale e insieme naturale (la donna appesa ai rami della foresta), che Garrone gioca tutta la sua partita, sospendendo il suo film come il camminatore sul filo infuocato nell’ottagono vuoto di Castel del Monte.
Toby Jones e Salma Hayek in "Tales of Tales", di Matteo Garrone, 2015
Il racconto dei racconti si apre con una donna, una circense, che avanza in una corte: insegue in questo modo un movimento, entra in un mondo, riprende l’idea della creazione del racconto passo dopo passo. In un film di doppi e opposti, di nascite e morti, di catene da spezzare ed equilibri da conservare, in cui ogni racconto è racconto fra i racconti e ogni elemento è ripreso dagli altri, con tre regni e altrettanti sovrani, una coppia di gemelli e una di sorelle, un padre che sostituisce la figlia con un animale mostruoso, con un funerale e un’incoronazione messi in apertura e in coda, fine di un regno in un caso e inizio di un altro nell’altro, la stessa immagine della donna di spalle ritorna in modo significativo: ritorna per riprendere la sorella della regina che non ha avuto in dono il miracolo del ringiovanimento camminare grondante sangue dopo aver cercato di farsi scorticare viva. Nella distanza fra il cangiare dolce di un corpo – ripreso in divenire grazie all’effetto speciale – e la spietata violenza della mutilazione, Il racconto dei racconti racchiude ancora una volta la sua tensione irrisolta, la forza contraddittoria e fertile sprigionata dall’incontro fra l’immaterialità sognante della magia e la materialità grezza del realismo.
Per questo è come se Garrone avesse intrapreso una battaglia contro le convinzioni e le convenzioni del racconto fantastico, accettando anche di perdere e di sbagliare pur di sondare un po’ più a fondo, come il palombaro che arriva al cuore del drago, i limiti del cinema e del suo immaginario.