Gela: realtà e condizione umana

Lo scritto di Leonardo Sciascia su Gela pubblicato sul “Gatto Selvatico”, la bella rivista dell’ENI diretta dall’amico Attilio Bertolucci, ci riporta ai toni e allo stile del suo primo libro, Le parrocchie di Regalpetra. Vi riconosciamo, pur nella brevità del testo, la stessa capacità di restituire la storia di una comunità cittadina per scorci essenziali, che saldano la ricerca del dato statistico e d’archivio alla minuziosa conoscenza dei testi canonici sulla “questione meridionale” e, soprattutto, allo sguardo attento del testimone. 

Un testimone che si vuole non oggettivo ma partecipe, anzi impregnato, di volta in volta, di pietà e indignazione: sentimenti, questi, che possono provocare delle impennate liriche nella scrittura. Si leggano qui le parole di Sciascia sulla miseria che «scendeva dentro di voi, si faceva peccato d’origine e specchio del destino: inalienabile e irredimibile in voi come in quell’umanità dolente ed attonita», oppure quelle sul mare «vuoto, che quasi batte alle sue case, aggiungeva riflessi di allucinazione, note di fonda desolazione». 

Quando scrive “Personalmente, credo di non aver avuto mai, come allora a Gela, una più cruda rivelazione della povertà siciliana, della miseria”, lo scrittore-testimone è, insieme, fuori e dentro la comunità gelese: “fuori” perché la confronta continuamente con un’altra Sicilia a lui più familiare – quella di Racalmuto, paese d’emigrazione e di zolfara, lontano dal mare e privo di presenze archeologiche greche, o quella della colta Caltanissetta, “piccola Atene” dei suoi anni liceali –; “dentro” perché Gela (la fame, la sete e la mancanza d’igiene di questa Gela tracomatosa) è uguale a tanta Sicilia che ancora tra gli anni Cinquanta e Sessanta conosce gli stessi drammi, sui quali è compito degli intellettuali richiamare l’attenzione: la mancanza d’acqua a Palma di Montechiaro, pubblicamente denunciata da Sciascia in un convegno di quegli stessi anni; i “cortili” miserrimi di Palermo, individuati da Danilo Dolci in mezzo all’opulenza dell’antica capitale; i cittadini di Scicli che ancora abitavano nelle scandalose grotte di Chiafura, di cui l’Italia venne a conoscenza grazie a Carlo Levi e Pasolini. 

Ma Gela, sul finale dello scritto di Sciascia, diventa soprattutto – dopo il momento di gloria dovuto agli scavi archeologici di Dinu Adamasteanu, che però non sfamano i cittadini – la nuova città del petrolio, uno dei grandi progetti di Enrico Mattei. I suoi cittadini sono gli stessi che cadono sotto lo sguardo di Giovanni, l’operaio specializzato milanese che ne I fidanzati di Ermanno Olmi (film che precede di solo un anno quest’articolo) viene inviato a Gela come guida per gl’inesperti colleghi siciliani e mette così a repentaglio la sua storia d’amore con la fidanzata Liliana. E Giovanni si muove, perplesso, in un mondo popolato di immagini oscillanti tra passato (i balli tra uomini) e futuro (il motel nuovo di zecca, costruito per i tecnici dell’ENI). Ma Sciascia ci mostra il rovescio di quello sguardo, la prospettiva dei cittadini di Gela che guardano, diffidenti, l’arrivo di «quegli uomini ben vestiti e ben rasati, le loro famiglie, i loro bambini ben nutriti». 

Insomma, Sciascia ne coglie efficacemente l’incertezza tra ben giustificato scetticismo e timide speranze di progresso. Torniamo così alle Parrocchie di Regalpetra: anche in quel libro, infatti, la denuncia dei soprusi subiti dai poveri lavoratori di Racalmuto non era mai separata dalla percezione, colta da un occhio degno d’un sociologo esperto, di un trapasso graduale verso la modernità, che Sciascia rappresentava in emblema nelle calze di nylon finalmente indossate dalle donne regalpetresi. 

Ma si veda, nell’ultimo capoverso dell’articolo su Gela, la cautela dell’autore nell’esprimere (sulla rivista dell’ENI!) un assai moderato ottimismo. Non ricorre più a statistiche ma si accontenta di notizie più generiche («molta gente ha già lasciato i catoi, l’aumento dei redditi è continuo e sicuro, più vasto l’accesso ai beni di consumo e d’uso»); richiama alla memoria i versi di due giovani poeti locali pubblicati dalle edizioni Salvatore Sciascia di cui era ascoltatissimo consulente; ritiene, insomma, di dover restituire dialetticamente sulla pagina quasi tutti gli elementi che potrebbero far pensare al prevalere di magnifiche sorti e progressive. 

Trent’anni dopo quest’articolo di Sciascia, Gela sarà «il teatro dell’abbaglio e dell’inganno, del petrolio favoloso, la trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne saracine delle credenze popolari» nelle parole di Vincenzo Consolo, ulisside siculo nell’Olivo e l’olivastro. Una città apocalittica: «la Gela della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasìa, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo». La Gela, insomma, della stidda, nuova mafia non meno violenta di Cosa nostra. Una Gela, purtroppo, molto vera, che Leonardo Sciascia non ha fatto in tempo a vedere ma di cui probabilmente intravedeva qualche barlume, trent’anni prima. 

 

Giuseppe Traina

 

Gela (Terranova fino al 1927) è uno dei pochi paesi siciliani in cui l’aumento della popolazione è stato nei secoli costante: tranne una lieve flessione, registrata nel 1653, e dovuta a cause d’ordine generale (carestia, rivoluzione, peste), dal 1570 ad oggi la popolazione di Gela è stata sempre in aumento. Fatto non comune per una terra baronale, dico di una signoria relativamente buona, o almeno non eccessivamente esosa: ed era quella dei Pignatelli di Monteleone, ai quali la gran parte del territorio, “immensa proprietà”, apparteneva ancora quando nel 1876 Franchetti e Sonnino vennero in Sicilia a svolgere la loro ormai classica inchiesta.

E che i Pignatelli curassero questo loro latifondo più avvedutamente che altri nobili siciliani, prova la diga che uno di loro fece costruire, a proprie spese, alla fine del Settecento: rendendo irrigua tutta la vasta pianura. Questa opera di bonifica permise l’introduzione di una nuova coltura: quella del cotone, che per il paese segnò un momento di insolita prosperità negli anni della guerra civile americana e poi, fatalmente, una depressione; per cui si tornò all’antica rotazione di coltura, grano e fave, grano ed erba, grano e pomodoro. Ma restarono alcune piccole aziende rurali, giardini d’agrumi e alberi fruttiferi con intorno poca terra arativa che, annotava Sonnino, destano “un’impressione di piacere in chi provenendo dall’interno dell’Isola ha l’animo rattristato dalla vista di quelle immense estensioni di campagna, priva affatto di ogni abitazione”.

Paese di mare, affacciato su quel mar d’Africa che per paesi dello stesso litorale Licata, Porto Empedocle, Sciacca, Mazara è stato ed è fonte di vita, Gela ha guardato soltanto alla terra: alla rossa pianura, all’altipiano degli zolfi. Fino a pochi anni addietro, un paese con molti contadini e pochi zolfatari: e quel mare vuoto, che quasi batte alle sue case, aggiungeva riflessi di allucinazione, note di fonda desolazione.

Si viveva a Gela come in qualsiasi altro paese della Sicilia interna (e forse peggio per quanto riguarda le condizioni igienico-sanitarie, suscitando il clima indici piuttosto alti di tubercolosi e tracomatosi). Nel censimento del 1951 la maggior parte della popolazione attiva del paese risultava impiegata, per 7458 unità, nell’agricoltura e, per 1272, nelle industrie estrattive e manifatturiere. Ma si sa come vanno presi i risultati dei censimenti, le statistiche, le medie, specialmente se sorgono da una realtà amorfa e sfuggente come quella siciliana. Un uomo occupato in agricoltura voleva in effetti dire: non più di cento giornate lavorative in un anno, e con un salario di fame. E nella industria estrattiva, cioè nelle zolfare: lunghi periodi di sospensione e di scioperi, le paghe rimaste in arretrato nell’attesa che la Regione o lo Stato venissero a rinsanguare finanziariamente gli esercenti.

Personalmente, credo di non aver avuto mai, come allora a Gela, una più cruda rivelazione della povertà siciliana, della miseria. Non un fatto oggettivo la casa terragna umida e oscura, il pavese dei cenci sciorinati al sole, le mosche, i vestiti, la denutrizione, il grondare del tracoma ma l’aria che vi batteva in faccia, che vi si attaccava alla pelle. La miseria scendeva dentro di voi, si faceva peccato d’origine e specchio del destino: inalienabile e irredimibile in voi come in quell’umanità dolente ed attonita. “Quel che ci resta è uno sguardo stupito di galeotti per tanti anni vissuti vanamente in questa intensità fissa di cielo”, scriveva Emanuele Gagliano, un giovane poeta di Gela. E come dalla terra cominciavano ad affiorare le rovine degli antichi splendori, i frammenti di una civiltà luminosamente consapevole della dignità e bellezza dell’uomo, il paese vivo sembrava invece scivolare verso un’oscura condizione archeologica.

Ma qualche anno dopo:

 

L’alba striscia sui fiori del cotone

con sentori di notte e di silenzio;

uomini taciturni sulle strade

(immobili i carretti

come per lunga attesa)

guardano gli autotreni

che impassibili arrotano

la dolente speranza.

By City:

dentro gli occhi dei muli spaventati

la luce trema.

 

Sono i versi di un altro giovane, Alfonso Campanile, che a Gela, la Gela nuova ed antica, ha dedicato un gruppo di poesie nel libro “Amore contro amore”; e con quello di Gagliano, che s’intitola “Pianura rossa”, è la più viva e vera voce che sia sorta sulla realtà e condizione umana di questa parte della Sicilia.

Gela diventava la terra del petrolio. E non che subito, appena dalla Piana del Signore venne fuori il primo getto, la gente ne avesse beneficio, sicurezza e speranza.

Il paese sembrò anzi farsi di colpo più povero, i poveri si sentirono più poveri: saliva il commercio ma le cose di cui i negozi si infittivano sembravano respingere la vita della popolazione in una zona ancora più oscura e lontana. E c’era diffidenza: stranieri e uomini del nord ritenevano, forse, che la miseria fosse una vocazione più che una condizione; e dalla povertà i gelesi guardavano quegli uomini ben vestiti e ben rasati, le loro famiglie, i loro bambini ben nutriti, come i cursori di una nuova e diversa depredazione lanciata su una terra che già tante ne aveva subite nei secoli. E di questa diffidenza, di questo rancore, è testimonianza nei due posti citati.

 

Oggi si può dire non ne sopravviva traccia: anche se a svicolare dalle strade principali ancora si scoprono nei catoi forme di vita primitiva. Ma molta gente ha già lasciato i catoi, l’aumento dei redditi è continuo e sicuro, più vasto l’accesso ai beni di consumo e d’uso. Nel paese è sempre un’aria di festa: ch’era in certi paesi zolfatari, nei tempi d’oro delle zolfare, il sabato sera; ma senza quella componente di disperazione e d’angoscia che si intravedeva nel riposo dell’uomo della zolfara, senza quel baluginare di morte che era nell’ebbrezza del vino.

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