Giorgio Fontana. Per legge superiore

6 Dicembre 2011

L’intento di Giorgio Fontana nel romanzo Per legge superiore (Sellerio, pp. 245, 13€) è chiaro: mettere in luce la tensione inevitabile che esiste fra giustizia e verità mostrandoci come essa non dimori fra i concetti, ma negli uomini che li frequentano, li applicano e li praticano. È il caso di Roberto Doni, sostituto procuratore di Milano, personaggio malinconico come la città in cui abita, alle prese con il caso di Khaled Ghezal, ragazzo tunisino ingiustamente accusato di aver partecipato a una violenta aggressione in cui una ragazza ha perso l’uso delle gambe.

 

Non è la prima volta che Doni entra in contatto con il male: per anni era riuscito a occuparsene dal sicuro scranno della giurisprudenza, dal quale amministrava la giustizia eliminando dai fatti i dettagli, gli odori e i sapori che ne costituiscono la polpa, per poter agire sul dato puro, come un chirurgo in un’asettica sala operatoria. L’incontro con Elena, giovane giornalista animata dal “fuoco sacro” della verità, lo induce a compiere il gesto inverso, a riempire i dati oggettivi con le vite e le storie di coloro che li hanno compiuti. Doni, influenzato inconsciamente dalla caparbietà della giornalista, si trova così a “migrare” nel quartiere e nelle case dei testimoni per ascoltare le loro voci, ricomponendo i dettagli necessari a fornire un nuovo orizzonte di interpretazione del caso.

 

La storia è raccontata in soggettiva: chi legge assume gli occhi del protagonista, conosce i suoi pensieri e assiste fino all’ultima pagina alla sua lenta e recalcitrante trasformazione; con Doni si percorrono i corridoi del Palazzo di Giustizia, si ascoltano i discorsi cinici e fastidiosi di chi vi lavora, si passeggia per le vie del centro sino a raggiungere le strade periferiche della città, in una sorta di esplorazione involontaria delle viscere di una Milano iperstratificata, che rivela le sue arterie più vitali e complesse nel quartiere multietnico di via Padova.

Qui Doni non è più nel suo elemento: sulle prime soffoca, tenta la fuga e la deresponsabilizzazione; poi, si abbandona a quella confusa realtà stupendosi dei piccoli piaceri cui questo gesto si accompagna, quasi attratto dal disordine multicolore delle strade che si impossessa del suo corpo e dei suoi pensieri, da troppo tempo addestrati a trarre dal caos le forme astratte e comunicabili della giustizia.

 

La storia è fin troppo semplice e lineare; è facile anticipare quasi sin dalle prime pagine la svolta del protagonista e vedere in Elena la guida di questa discesa agli inferi che cambierà il nostro personaggio: la giornalista, tuttavia, è più simile a una Beatrice, immagine di una purezza un po’ troppo stereotipata e per questo poco credibile come motore dello sviluppo esistenziale del magistrato.

Ci sono troppi bianchi e neri in questo libro, mascherati dal chiaroscuro di una Milano comunque affascinante e ben descritta, che regala saltuariamente sprazzi di luce e piacere a chi li sa guardare; il romanzo, allo stesso modo, è costellato di piacevoli dettagli, istantanee evocative e simbologie efficaci, che tuttavia non riescono a rendere lo sviluppo complessivo della storia convincente e avvincente.

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