Gli enigmi della Tholos di Delfi
Se non appartenesse a una famiglia di architetti, (architetto il suo illustre padre, architetto lui stesso e pure suo figlio) Attilio Pizzigoni, per la sua vasta cultura potrebbe essere scambiato per un archeologo di stampo romantico/letterario, come un Evans, o uno Schliemann (mi si perdoni l’ardire). E ciò non soltanto per l’amore che, come loro, egli nutre per la Grecia antica, ma anche per il suo essere un tipo tenace, come son stati quelli. Inoltre egli scrive come un romanziere di archeologia. Infatti, l’incipit del suo libro Osservando i marmi bianchi della Tholos di Delfi. Perché sono crollati i templi greci (Christian Marinotti Edizioni, pp. 165, € 20.00) mi ricorda l’atmosfera di Civiltà Sepolte, il romanzo dell’archeologia di Kurt Wilhelm Marek (che si firmava C.W. Ceram, pseudonimo da lui adottato scrivendo il proprio cognome da destra a sinistra, alla maniera etrusca e trasformando la k in c).
Civiltà sepolte è stato uno dei primi libri che ho letto quando ho iniziato a scegliere le mie letture, restando sedotta dal mondo di cui narrava, al punto da aver intrapreso gli studi classici con l’intenzione di fare poi archeologia. In seguito, però, ho cambiato idea.
Così esordisce Pizzigoni: “Me ne stavo là, in piedi, all'ombra del grande platano monumentale in fondo alla strada del paese, confuso tra i turisti che con gli zaini per terra studiavano il programma per concordare l’ora del rientro. […] Tutti avevano negli occhi la luce della Grecia.
[…] La calma del vento, il riverbero delle pietre e lo stridio delle cicale riempivano l'aria di quella sacralità che hanno solamente i luoghi archeologici.”
Il paese di cui Pizzigoni tratta è Delfi. Non dice come fosse vestito, ma io lo immagino con un completo di lino bianco, con in testa un panama chiaro, la cui tesa fa ombra al suo volto, del quale si distinguono bene solamente i baffi, oggi canuti, ma che io ricordo neri, ai tempi del nostro comune incarico alla Scuola di Architettura del Politecnico di Milano.
Perché come già detto, Pizzigoni non è un archeologo ma un architetto, e lo confermano il suo modo di affrontare il problema che si pone, nonché le conclusioni a cui giunge e il metodo che impiega per trarle.
Oggetto di questo suo studio e delle sue riflessioni nel libro è la Tholos di Atena Pronaia (che significa situata davanti al tempio, pro nàos, appunto), quel magnifico edificio circolare impresso nella memoria di chiunque abbia amore per la classicità e che, sebbene ne sopravvivano soltanto il crepidoma e tre colonne, costituisce un archetipo dell’architettura greca e quindi di quella di ogni tempo successivo.
Come nella miglior tradizione filosofica greca, anche il libro di Pizzigoni si dipana in dialoghi e, rifacendosi soprattutto ai Dialoghi Delfici di Plutarco (Plutarco è storico dell'oracolo e teologo della ispirazione e della divinazione dei responsi pronunciati dalla Pitzia, la sacerdotessa delfica) anche il nostro Pizzigoni/Plutarco incontra una sua moderna Pitzia.
Così la descrive:
“Poteva avere qualsiasi età, con dei lampi da ragazza che si accendevano improvvisi e avevano l’effetto di rendere morbidi i tratti e le espressioni di quel volto e di quel corpo che sprigionava un carisma ieratico d’antica sacerdotessa, e a volte da maschera tragica.
[…] ‘Il mio nome è Pitzia. Tu invece chi sei?’
[…] ’Io sono Lui. Ma tu davvero ti chiami come l’antica Sibilla?
‘Non è il mio nome che è strano, ma il tuo.’”
‘Sarà anche insolito ma quando venni al mondo i miei genitori dissero: eccolo, è Lui. E da allora tutti mi chiamano così.”
Il clou del dialogo tra “il professore”, come l’autore si autodefinisce in seguito nel loro colloquio, e la sua Pitzia verte attorno agli enigmi della Tholos, che hanno occupato per secoli le menti degli studiosi dei costruttori di bellezza, a partire dall’identità del suo autore, forse quel Teodoro di Focea che l’ha progettata agli albori del IV secolo a.C., passando per Marco Vitruvio Pollione che a quest’ultimo la attribuisce e che ne fu il primo esegeta, fino a Le Corbusier. Questi, addirittura, quand’era ancora Charles-Eduard Jeanneret, fu proprio al cospetto della misura (o dismisura) dell’architettura greca, dal magnificente Partenone fino alla inconsueta Tholos, che ebbe per la prima volta contezza della rilevanza delle dimensioni in architettura. “È da questo disagio”, afferma Pizzigoni “da questo shock che deriva l’uomo con il braccio alzato, chiave di ogni architettura.” Il suo Modulor, insomma.
Di Teodoro di Focea, nominato da Vitruvio (Liber VII), ‘il professore’ traccia una ‘autobiografia’ immaginaria, concepita nello stile dell’Eupalino di Paul Valery, una sorta di orazione/divinazione autocelebrativa che, nella finzione narrativa egli afferma di aver vergato di propria mano su di un misterioso taccuino, di cui la Pitzia declama il testo ad alta voce mentre da una vetta circostante entrambi rimirano l’area sacra del terrazzamento di Marmaria, al cui centro si innalzano, appunto, le sopravvivenze della Tholos. (“Marmaria deve il suo nome ai marmi ampiamente utilizzati nei secoli come materiale di costruzione”, spiega Pizzigoni).
In quella orazione, lo ‘pseudo’ Teodoro racconta delle opere che ha progettato nella propria vita, soprattutto delle sue due Toloi, quella di Delfi e quella di Epidauro (realizzata però da Policleto il Giovane) dei loro princìpi statici e delle loro proporzioni, che, emulando il linguaggio del Pollione (all’epoca di Teodoro peraltro sconosciuto perché coniato ben sei secoli dopo) da doriche si son fatte ioniche, presiedute quindi dal dettato della geometria euclidea e dal fondamento del kalòs kai agathòs e perciò governate da Armonia.
Ecco la sua esortazione finale: “Non curatevi quindi dei segreti della Tholos, ma del senso dell’architettura che la Tholos nasconde, e manifesta.”
Al termine della lettura della falsa autobiografia, la Pitzia arriva però a mettere addirittura in dubbio l’esistenza stessa di Teodoro di Focea, nella totale mancanza di fonti che la attestino.
Tuttavia, poiché il suo nome pare essere stato accreditato nella tradizione orale, alla quale Vitruvio deve aver fatto riferimento, avanza l’ipotesi che il nome Teodoro fosse stato, in realtà, uno pseudonimo di qualcuno di noto che per varie ragioni non avesse potuto farsi riconoscere. Forse Iktino? E perché non Fidia? Entrambi infatti, sul finire del V secolo, erano stati vessati da questioni giudiziarie e da difficoltà politiche che avrebbero loro reso impossibile accettare la commessa di un’opera così importante, se non sotto mentite spoglie. E di fatto “i loro nomi”, conferma ‘il professore’, “sono perfettamente compatibili con il livello qualitativo dell’impresa.”
Ma il progettista della Tholos avrebbe potuto essere stato anche uno dei loro allievi, o qualche altro architetto sconosciuto, azzarda la Pitzia. Difficile però credere che una simile architettura passata alla storia fin da subito come capolavoro possa essere stata opera di un anonimo, concordano entrambi. “Dunque resta il mito” conclude ’il professore’” L’opera come dono degli dei. Teodoro, Θεόδωρος, teo-doro, non significa forse dono divino? Un amalgama architettonico.” Magari un'opera collettiva di menti geniali.
Oltre a quello relativo al suo progettista, un altro degli enigmi della Tholos di Delfi riguarda la sua copertura. Com’era il suo tetto? Purtroppo, a causa dei crolli e delle continue spoliazioni subite dal monumento nel corso dei secoli, non sono state rinvenute in situ tracce archeologiche che ne aiutino la soluzione. La maggioranza degli studiosi suppone che la Tholos fosse coperta da un tetto conico a due falde circolari concentriche, con tegole numericamente degradanti verso la cuspide di mano in mano che si elevavano in quota. E ciò in virtù del fatto che in Grecia era in uso il sistema trilitico, si sa, forse anche sui rari edifici a pianta centrale come questo. Invece, l’ipotesi avanzata da Pizzigoni, suffragata soprattutto da valutazioni condotte con gli strumenti del progetto, e grazie a una sua nuova interpretazione di alcuni reperti (le tegole marmoree trapezoidali e lanceiformi, da lui definite “forma-forza e auto-stabilizzanti”), è quella di una sua copertura a cupola, per quanto più unica che rara in quella cultura, se si escludono le antiche false cupole d’età micenea, che non han conosciuto fortuna in seguito. Pizzigoni, ovviamente, non intende quelle, bensì opta per una cupola vera, nel più puro sistema archivoltato.
“È chiaro, le pietre parlano attraverso le loro misure”, afferma. “[…] 707 dattili (nda circa mt. 13) indica il diametro di questo grande disco di pietra dal quale sorgono le venti colonne doriche” che si dispongono su di esso disegnando nello spazio un icosaedro (che Platone nel Timeo fa corrispondere all’acqua, uno dei quattro elementi generatori del Cosmo).
E da qui inizia l’avventura delle congetture, guidata da riflessioni metriche e geometriche (ah, i geometri ionici!), ma soprattutto progettuali (ossia strutturali e compositive), perché ognuna delle forme di questa singolare architettura, dal più minuto dettaglio al suo insieme, è un inno a Euclide e al suo libro degli Elementi.
“Ogni singola parte della Tholos, anche quelle mancanti e perdute, rivelano così, incisi nella pietra dello stilobate, la razionalità e i principi progettuali della loro forma”, scrive Pizzigoni. “Mēdèn ágān”, Μηδὲν ἄγαν, nulla di troppo” continua “non una sola pietra in più di quelle necessarie ma neppure una di meno.” Concetto che sembra anticipare il Less is more di Mies van der Rohe, che ha a che fare con l’equilibrio della perfezione.
Lascio alla curiosità del lettore il piacere di scoprire queste riflessioni, che, insieme ad altre sorprese riservate dal libro, non esclusi colpi di scena e apparizioni ‘ultrastoriche’ (se mi è concesso l’uso del neologismo senza svelarne il recondito messaggio), il possibile ‘ritrovamento’ di un testo perduto (De Simmetrias) e una ipotesi molto plausibile sul motivo del crollo della Tholos (e dei templi greci in generale), alla quale accennerò solo brevemente, lo fanno stare con l’interesse acceso fino all’ultima pagina.
Pizzigoni, infatti, ipotizza che quello che caratterizzava i templi greci fosse un metodo costruttivo che oggi potremmo definire ‘prefabbricato’, ossia per parti ripetibili ad libitum con la sola variazione di scala a seconda delle dimensioni che il tempio stesso avrebbe dovuto avere. Inoltre quest’ultimo era una ‘struttura chiusa’, che si autoreggeva staticamente in forza del bilanciamento fra le sue parti componenti. In modo particolare, le metope, i triglifi, gli acroteri, i geison, che per secoli sono stati considerati dei semplici elementi decorativi, erano, in realtà, componenti statiche fondamentali per l’equilibrio del tutto. Essi, infatti, fungevano da bilanciere a tutta la costruzione, o da controspinta, così come accade, per fare un esempio, per i pinnacoli nelle cattedrali gotiche.
Vitruvio, dunque, afferma Pizzigoni, considerando quelle parti dei semplici oggetti scultorei, non aveva per nulla compreso il sistema costruttivo dei templi.
Egli aveva “magnificato questi templi come modelli di una regola estetica senza sapere leggere nella loro complessità e ricchezza l’idea trascendente di conoscenza che vi era contenuta.”
A seguito di questa sua interpretazione, si sa, quelle architetture furono fatte oggetto di spoliazioni continue per appropriarsi delle parti scolpite, e ciò causò la rottura del loro equilibrio statico interno, provocandone il crollo.
“I Romani […] considerarono le statue, gli acroteri, i fregi e le metope come trofei, ornamenti simbolici, asportabili e riutilizzabili come emblemi della loro vittoria. […]
Non fu vendetta della storia o l'invidia dei nuovi dei, come avrebbe potuto dire un epigono di Erodoto. Fu l'arroganza di chi, appropriandosi del nuovo razionalismo, lasciò che le ricchezze di quel sapere arcaico si perdessero tra le scorie della storia.”
La tesi sostenuta da Pizzigoni in forza delle regole progettuali, ovvero statiche e compositive, potrebbe rivoluzionare il modo di intendere e di studiare i templi greci.
A me, poi, della lettura del libro resta anche personalmente impressa l’assonanza tra i nomi Pitzia e Pizzi, l’affettuoso diminutivo con cui chiamavamo Pizzigoni a scuola. Perché nessuno mi toglie dalla testa che esista una coincidenza fra le loro identità, e che in fondo, il sacro vate della Tholos sia Lui. Almeno per quanto concerne i responsi relativi alla sua architettura. E se poi si firmasse Ynogizzip, alla Ceram, il suo nome evocherebbe anche l’allure che attornia la figura di un antico indovino egizio, capace di vaticini che fanno luce su saperi ormai avvolti nell’oblio da secoli, ma non per effetto di una bacchetta magica, no, no, bensì per la forza della conoscenza e della ‘pratica’ dell’architettura medesima. In fondo anche Euripide sosteneva che:
“Ottimo indovino è colui che abilmente congettura.”
Per saperne di più:
Le misure lineari nell’antica Grecia erano basate sul sistema attico, che verrà trasmesso anche al mondo romano, le cui unità si basavano sulle parti del corpo. Andavano dalla più piccola, il dattilo (o dito), alla più grande, l’orgay (corrispondente a due braccia distese), passando per il pugno (due dattili), il palmo (4 dattili), la spanna (12 dattili), il piede (16 dattili), eccetera, fino allo stadio, corrispondente a 600 piedi, il che lo portava a coincidere con l’orgaya.
Inoltre i Greci non conoscevano il numero (che è una invenzione della cultura araba) e ‘contavano’ (non potendo dire enumeravano) usando le lettere dell’alfabeto, così, ad esempio, al nostro nr. 5 corrispondeva la lettera e (epsilon). E anche sul ruolo del numero 5 nel progetto della Tholos, il libro riserva sorprese.