Gli oggetti di Fiori
Umberto Fiori (Poesie 1986-2014 - Mondadori, 2014) si aggira per la città, camminatore solitario, vigile, attentissimo. Osserva scene, situazioni, eventi urbani, luoghi, oggetti, cercandone sempre la parte in ombra, quella che sfugge allo sguardo consueto, strappando luoghi e oggetti al loro uso e alla loro funzione. Ed è proprio questa disfunzione che getta su di loro un altro significato, ci spiega Fiori con la classica forza della similitudine, come quando cade dal tavolo una carta dei tarocchi e noi vediamo sul pavimento il viso della papessa finalmente unico, sottratto alla sua allegoria. La poesia di Fiori racconta questa unicità in cui gli oggetti si presentano allo sguardo veritiero e dentro tale sguardo accadono nuovamente. È una poesia dell'accadere. E questo accadere, queste apparizioni urbane, queste teofanie senza dio si impongono a noi. Sono loro che ci chiamano. Ci chiamano a giudizio, secondo un'istanza morale e lombarda tipica della poesia di Fiori, come nota Andrea Afribo nella sua bella nota introduttiva. Sono loro che ci interpellano, ci interrogano, ci costringono all'incontro. Ecco, l'incontro. È una parola fondamentale nella poesia di Fiori, letteralmente, ne costituisce le fondamenta. Fiori ci ripete (con Sartre) che l'io è ciò di cui qualcos'altro detiene il segreto. Ciò che ci parla segretamente, sarà Altro (autrui) a tradurlo. Lo conosciamo nell'incontro, e senza tale incontro non possiamo approdare alla riva oscura della nostra vita. Potrebbe essere, per esempio, l'incontro con una casa.
Le case sono per Umberto Fiori quello che era la natura per un poeta romantico dell'Ottocento. Sono un luogo di verità, di confidenza, di fiducia, di abbandono. Vengono chiamate "care case", "cari muri", "care facciate". "Ti consolano/più di qualsiasi parola" dice una poesia di Esempi. Ma sono innumerevoli le dichiarazioni d'amore fatte alle case e si inseguono per tutto il libro: "Solo a loro io bado/qui, con le mani in mano,/con l'occhio di un pastore/che da lontano conta le sue capre"(Chiarimenti)..."Allora invece le case/si vede come niente le nasconde,/giorno e notte/davanti a tutti/come rimangono nude" (Esempi)..."Al ritorno da tutto quel viaggiare/ho alzato gli occhi/e voi mi siete apparse,/ care facciate" (Tutti)..."Quante volte ho sentito sul collo il fiato/di quello che voi lassù,/bei musi quadrati, ogni giorno/con infinita pietà/nascondete" (Tutti).
"Quello che voi lassù, con infinita pietà, nascondete". Le case dunque vedono, intuiscono, cantano, parlano (in italiano!) e soprattutto sono preziose alleate che proteggono dall'asprezza umana, dall'imbarazzo del parlare e dello spiegarsi, anche soltanto dello stare vicino agli esseri umani. Moltissime sono nella poesia di Fiori le scene di disagio e di malessere di fronte a quell'inferno che sono gli altri...e cito Sartre perché davvero in certe pagine sembra di intuire un racconto esistenzialista, che ho ritrovato nei bellissimi inediti finali de Il conoscente. La nausea è lì, dietro l'angolo, basta che qualcuno ci sfiori per strada o ci chiami per nome o ci tocchi in ascensore o si volti in un cinema a guardarci. Penso a quella poesia impressionante che s'intitola "Contatti" (Tutti) e che forse andrebbe letta per intero:
Lo vedi come sono
storto, contratto? Lo vedi questo piede,
quando mi siedo, come lo metto?
E' tutto per lo sforzo, in tanti anni,
di non urtare le persone. Stretto
contro un sedile, dentro l'autobus pieno,
stare a posto, evitare
coi miei vicini
persino il minimo contatto.
Sulle panchine delle sale d'aspetto
o in treno, in corridoio, era una pena
ogni momento sentire sfiorarsi il buio
del mio ginocchio e del loro.
Ore e ore, giornate intere:
uno di fianco all'altro
stavamo, come i gusti del gelato
nel bar della stazione.
Di vero tra noi, di giusto,
lo spazio di due dita
era rimasto.
Legato a questo malessere fisico, c'è il malessere della parola. Un malessere che non è occasionale o connesso a un determinato interlocutore, ma che è parte essenziale del discorso. C'è sempre qualcosa che non si compie, nella parola, qualcosa che le impedisce di colpire il bersaglio. Ci sono molte scene di discussione, alterco, litigio nei libri di Fiori, il quale è maestro nel cogliere le maschere che ciascuno indossa e i personaggi che ciascuno rappresenta e mette in scena. Ed è maestro nel cogliere il vuoto che si spalanca nel parlare. A Fiori non interessa tanto mettere a fuoco le ragioni dei due contendenti ma il terreno che si apre tra l'uno e l'altro. Interessa la preposizione "tra" che rivela un territorio dove si apre il vuoto:
Chiarimenti
Quando uno che ha preso la parola
in una discussione, a un certo punto
mentre sostiene il suo argomento (presto,
prima che lo interrompano)
sente qualcuno sbottare: "Ma questo
lo dici tu!" –
non sa più andare avanti. Parlare
è sempre troppo
e non è mai abbastanza.
Di colpo ha chiaro il vuoto
e l'arroganza
di essere lì presente.
Sotto la sedia, sotto il pavimento,
giù, alla radice,
il niente gli si spalanca (...)
Altrove le parole si trasformano in tremito o in un balbettio. Oppure si tace, mentre gli altri continuano a parlare, e si rimane lì, "zitto, come un bambino lasciato troppo tempo in mezzo ai grandi" (TAVOLATA, in Chiarimenti). Oppure il discorso si distacca da chi lo pronuncia ("Ho visto il mio discorso dilagare/come l'ondata di un maremoto" – QUELLO CHE PARLA, in Chiarimenti). E ancora più nettamente: "Mentre parla, la voce/le sta di fianco, o a volte sembra che scenda/dall'alto, da tutte le parti,/come i comunicati all'aeroporto" (ASCOLTATORE, in Chiarimenti).
E qui entriamo in quella dimensione allucinata in cui precipita a volte il paesaggio urbano di Umberto Fiori, il quale innesta nella sfera del quotidiano e del consueto tutta una serie di segnali onirici che creano un turbamento nella percezione. Il mondo diventa così alterato e inabitabile. Tu ti aggrappi a una sbarra e la senti molle e tiepida come la testa di un neonato (TRASPORTI, in Esempi), le cose del mondo sono tenute insieme da un collante, altrimenti si disgregherebbero (COLLANTE, in Chiarimenti), i muri hanno una forza tremenda che a stento riescono a trattenere (SOLE, in Esempi), il vuoto del cielo entra in noi (ANDITO, in Esempi), tu senti le cose patire (SPIAZZO, in Esempi), la realtà assume un aspetto ondeggiante (A LEZIONE, in Chiarimenti: "Il mondo, ci sono giorni/che balla come se tutto/ – siepi, facciate – dentro/fosse di fuoco./Alla finestra/la strada trema./La testa si riempie di onde"). Una sorta di animismo, dove i pensieri li senti vicini come i musi umidi dei cani (QUELLI CHE PASSANO, in Esempi) e dove emergono presagi e avvertimenti infausti, immagini di solitudine o di pericolo: l'ascensore che sale vuoto (QUESTO, in Esempi), il mucchio di neve nera (UNA VIA, in Esempi), l'autobus deserto, di notte, come un tempio nella valle (AUTOLINEE, in Chiarimenti), il telefono che suona e c'è soltanto un respiro (CHIAMATA, in Esempi) oppure le sirene che diventano un grido di soccorso (SPIEGAZIONE DELLE SIRENE, in Chiarimenti: "Le cose sono lì/svogliate, distratte: il mondo/sta insieme con lo sputo. Colpa delle persone/che non rispondono bene al saluto./Per questo giorno e notte/chiedono spazio/le sirene qua intorno/chiedono aiuto").
La poesia di Fiori, dicevamo, non è una poesia dell'essere o del divenire ma piuttosto una poesia dell'accadere. Una poesia di apparizioni, epifanie, incontri improvvisi. Un ingorgo, una lite, un incidente, una festa, un gruppo di motociclisti. Non viene detto come né perché. Ma accadono. Si impongono sulla scena e lo sguardo del poeta comincia a scrutare, fermarsi, a indugiare, a perforare le apparenze e a trovare dentro la scena una scena ulteriore e sorprendente. Queste epifanie non riguardano solo la scena osservata, ma anche chi la osserva. Rivelano una parte segreta di noi e ce la svelano quando non ce l'aspettiamo. Il segreto è un tema importante della poesia di Fiori – oltre che una parola ripetuta – un tema che tocca zone antiche e infantili, come ci spiega una poesia di Tutti intitolata appunto Segreto:
Quando in una vetrina
leggo le scritte d'oro sugli stemmi
che pendono dai maglioni,
o quando lo scalino dove mi siedo
solo a sfiorarlo con la mano
si sgretola,
mi riprende una pena
torva, profonda:
la stessa che sentivo da bambino
a vedere le femmine,
tre passi più lontano,
scostare i capelli per dirsi
un altro segreto.
L'io è ciò di cui qualcos'altro detiene il segreto, ci ripete Umberto Fiori. La parte più nascosta di noi: sarà qualcos'altro a darcene notizia. Non siamo padroni a casa nostra. Anzi, proprio lì, nella stanza più amata, si spalanca l'esilio. Non siamo auto-nomi: non possiamo darci il nomos da soli. Ciò che siamo comincia a prendere forma nell'incontro, solo allora. Prima dell'incontro non siamo nulla. Il due in Fiori precede l'uno. L'uno procede dal due. L'io è ciò di cui Altro detiene il segreto. Ed ecco che vediamo nuovamente Umberto Fiori camminare per la città, concentrato e ricettivo, incontrare le cose consuete e introdurre in queste cose un altro sguardo e farcele così scoprire in un punto veritiero e segreto, appunto, in quanto lo sguardo di Fiori è sempre acuto nello svelarci la zona nascosta delle cose. E ci sono delle poesie magistrali in questo – anche per la loro costruzione – nello svelarci con un finale illuminante ciò che guardavamo con occhi comuni. E così, per concludere, vorrei leggere una poesia di Esempi e una di Chiarimenti:
Ingorgo, da Esempi
Nemmeno a passo d'uomo
si muove più la colonna
Qui ora c'è questa rete
e al di là della rete
questo terreno.
Al centro del terreno
tra le case
tirano su una casa.
La luce è forte
si vedono bene i vani
vuoti, con le pareti appena asciutte.
Attraverso le porte
si vede l'ombra delle scale
sui soffitti, negli angoli.
Poi si riparte.
Io rimango nascosto
ma quello che mi brucia dentro è là,
sotto gli occhi di tutti.
Aver ragione, da Chiarimenti
Quando a furia di prove e di argomenti
e obiezioni e domande, sei riuscito
a farti dare ragione
e l'altro, quello che ha torto,
lo vedi zitto lì davanti
sgonfio, come morto,
questa scena di uno abbandonato
dalle parole
ti fa talmente patire
che, pur di farlo ancora un po' parlare,
pur di non essere più lì da solo,
vorresti dire che non importa,
che la cosa non è
poi tanto chiara.
Proprio allora
ti accorgi che il discorso
ha lasciato anche te.
26 marzo 2014, Libreria Feltrinelli di via Manzoni - Milano