Deledda ha un’isola tutta per sé / Grazia è partita

27 Febbraio 2017

Arrivo a Nuoro in una fredda giornata di quell’interregno delle feste, che si estende tra il 25 dicembre e Capodanno, tra una nascita e un inizio.

Via Grazia Deledda, casa natale di Grazia Deledda, Museo Deleddiano... Basterebbe solo questa ripetizione per informarci che una casa natale non è mai un museo qualsiasi. Essa rilancia, con tutta l’insistenza di cui è capace, la questione stessa della nascita. Cosa significa nascere? Cos’è natale in questa casa, aldilà della banale constatazione che là è nata una donna che mezzo secolo più tardi diverrà Premio Nobel per la Letteratura?

 

Mi pongo queste domande attraversando le stanze di una casa arredata in parte come nella migliore tradizione di un museo etnografico: la vita quotidiana nella Sardegna dell’interno di fine Ottocento, in una città che nell’anno di nascita di Grazia conta appena 6000 abitanti. Cucina e dispensa rispondono a questo criterio. Sono posti del Qui. Benché siano stanze ricreate di sana pianta, sono anche gli unici ambienti in cui, per uno strano paradosso, si viene investiti da impressioni olfattive. Qui la memoria, pur mentendo, ritrova il versante odoroso che propriamente le appartiene.

 

 

Invece, le parti dedicate più da vicino alla scrittrice sono testimonianze dell’Altrove, organizzate come grandi teche-contenitori: il salotto della casa romana, i ricordi del Nobel, i luoghi della scrittura... Di tutto questo le spoglie pareti di casa sarda dicono: sarà stato là, sarà stato Altrove, qui è solo nata, ma la sua vita appartiene ad altri luoghi. I grandi successi, i momenti culminanti di una biografia, parlano altre lingue, non certo il nuorese. Come i romanzi, del resto. Eppure le stanze, un certo segreto vorrebbero comunque conservarlo e comunicarcelo. Non abbandonano tanto in fretta l’ambizione di essere loro le legittime custodi di una vita altrimenti vissuta “in continente”, come qui usa dire. Sembra che dichiarino: il segreto di quella vita, se da qualche parte ha da essere, è qui che deve stare, gelosamente conservato, chi meglio di noi potrebbe farlo?

 

Sorprende ma sino a un certo punto. Del resto parliamo di una scrittrice che, a ragione o a torto, viene identificata con la Sardegna. E certamente più a ragione che a torto. Come diceva Lawrence ai lettori inglesi nel presentare il romanzo La madre, Deledda ha un’isola tutta per sé e quest’isola è niente meno che la Sardegna antica. Eppure anche questa non è che un’impressione fugace. Sotto la superficie della letteratura infuria il conflitto tra il sembiante sardo di quella scrittura e il suo valore universale. Tra il Qui e l’Altrove. Se la letteratura onora l’origine, la nascita, il paese natale, da cui trae forza e ispirazione, nello stesso tempo non può che complottare contro tale origine, non foss’altro che in forza della potenza della sua parola poetica. Il Nobel, la vita romana, la scrittrice e le sue frequentazioni intellettuali, appaiono qui come degli innesti sul corpo di questa casa. Le altre città – Roma, Stoccolma, Cervia – sono un’altra vita. Sono altrettante vite, inimmaginabili da Qui. Sono delle spine infitte nella struttura solida e muta di questa casa benestante, ma austera. Delle spine: momenti acuminati, anche dolorosi, ma sostanzialmente instabili, che non smuovono la sostanza delle cose, visto dalla prospettiva del Qui.

 

 

Deledda stessa ne era consapevole, mi pare: una scrittura per fedele che sia finisce sempre per tradire, per lasciare il paese da cui ha preso avvio. Ecco perché l’idea di una letteratura nazionale possiede inevitabilmente qualcosa di animoso contro la scrittura che non ha mai un Qui nel quale situarsi. Per nazionale che sia, una letteratura non può mai essere di Qui. È piuttosto il luogo delle infinite deviazioni, delle peregrinazioni e dell’esilio. È una lingua della visione: la sua è una parola che spazia. Aldilà del mito autoctono, pensa l’isola dal continente e il continente dall’isola, come due parti di una stessa cosa: due parti di quella contraddizione che chiamiamo vita.

 

Tutto si gioca allora sul tra, tra un mondo e l’altro. Come se, anche dopo i successi che ha permesso, la voce di ciò che la chiama alla scrittura dicesse: non sei più Qui, ma non sarai nemmeno Altrove. Dovrai abbandonare la casa natale per farla, la letteratura, e in un certo senso la storia stessa della letteratura. Eppure, quando ci guardi dalle tue foto a Stoccolma qui esposte, così seria, goffa e spaurita, circondata da “principi di sangue reale, in mezzo alla corte fantastica di questo regno, composta di donne e uomini bellissimi, colti, amabili, arguti”, come tu stessa hai scritto ai tuoi figli nei giorni della consegna del Nobel, è come se volessi dirci che il tuo Altrove non poteva essere che quello della scrittura, e non un luogo, una collocazione altra rispetto al mondo che camminava per queste vie, per questi monti del nuorese.

Avverto questo quando un grande libro a muro si apre inaspettatamente e lascia apparire una stanza con i mobili del salotto della casa romana. Non senza incongruenza, la finezza di un pur spartano mobilio della Capitale, benché costruito in Sardegna, contrasta singolarmente con la nudità della casa. Racchiuso tra questi muri, appare d’improvviso. Allora appare Roma, Roma a Nuoro, laddove la logica del Qui vorrebbe: o Nuoro o Roma.

 

 

Solo la sua scrittura poteva tenere unite queste due realtà, che in verità si contraddicevano e forse addirittura si escludevano a vicenda. Forse esagero. Di certo vedo le cose con ancora negli occhi la scena di una notevole macchina teatrale in tre atti, a cui Marcello Fois ha dato vita: il libro si intitola Quasi Grazia ed è edito da Einaudi. In particolare penso alla prima scena, quella della partenza di Grazia da Nuoro, dalla casa natale, dalla Sardegna. Con lo scontro tra Grazia e la madre. Là la voce del Qui parla contro l’Altrove, per presentarlo non come una prospettiva, una strada possibile, una vita amorosa (il matrimonio con il “continentale” Palmiro), ma come una vana tentazione, una fatuità, un misfatto. E certo così parla la madre sarda, con quel suo misto di durezza e di tenerezza, a cui le pagine di Fois danno vita. Una madre che sa al limite perdonare, benché congiuri a favore del silenzio, della cautela, della reticenza e, in definitiva, contro i libri e la scrittura. Ma parla anche l’isola con i suoi abitanti, che per lungo tempo considereranno l’opera di Deledda offensiva nei confronti dell’isola stessa, forse perché si sentono messi a nudo dalla scrittura di questa donna minuta.

 

 

Occorreva lasciare non solo questa casa, ma la tutrice, il nume stesso della nascita, per scrivere, per nascere veramente. Non il padre, attenzione: aldilà di ogni dato biografico e di ogni osservazione etnografica sul matriarcato della società sarda, è la Madre, la certezza della nascita biologica, il dato anagrafico, il legame familiare, che era necessario oltrepassare, per scrivere. La partenza si configura allora come necessaria: interrompere la presunta continuità tra Grazia e l’isola era indispensabile per divenire scrittrice e, più ancora, per farsi scrittura.

Ma è poi davvero possibile lasciare il Qui? In realtà la letteratura – in particolare quella di Deledda – innesta sul corpo del Qui le vite, le tensioni, le luci dell’Altrove. Questo non va senza suscitare insieme meraviglia e ammirazione, miste a dolore, nei luoghi che ha lasciato dietro di sé, ma che in effetti non lascia mai, addentrandosi al loro interno come nessuno aveva fatto mai prima di allora. 

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