Ismail Kadare e Enver Hoxha a 400 passi

8 Ottobre 2024

Appena quattrocento passi separano la casa di famiglia di Ismail Kadare, situata al numero 16 di Rruga Fato Berberi, dalla casa natale di Enver Hoxha. Da un lato lo scrittore che più volte fu candidato per il Nobel, dall’altro il segretario del Partito del lavoro albanese dal 1941 al 1985.

Percorrere queste poche centinaia di metri all’alba, significa districarsi nel dedalo di stradine della vecchia Argirocastro senza poter chiedere informazioni a persona. Camminando lungo le pendenze si coglie con il corpo la distanza fisica che collega le due dimore, ma anche non si può evitare di pensare all’inaudita prossimità tra vite così diverse che in quelle case sono nate e in parte cresciute. Non c’è ancora nessuno in giro, comunque non le torme di visitatori che fra poche ore riempiranno le anguste stradine del bazar all’ombra della moschea centrale. A quest’ora solo qualche animale qua e là vi guarda incuriosito. E quindi percorriamo la strada (in salita, qui è tutto in salita) da casa Kadare alla vecchia casa Hoxha, odierno Museo Etnografico albanese. Capita di fare la stessa strada a chi leggendo si avventuri tra le pagine di La città di pietra, lo straordinario racconto che Ismail Kadare ha fatto della sua infanzia trascorsa tra le case ottomane della città vecchia, a ridosso del confine, posizione malauguratamente strategica per gli italiani negli anni Trenta e per i loro malaugurati sogni di conquista della Grecia. Del sapore di quelle pagine non si ritrova molto nella casa-museo, restaurata in modi che farebbero la gioia di qualsiasi immobiliarista, ma che ne fanno un luogo abbastanza vuoto di appigli sensoriali. Quando capita di visitare una casa-museo così, viene da pensare che siano rimasti solo i silenzi dietro la partenza dei suoi abitanti. Così chi non conoscesse la scrittura magistrale del bambino che li nacque e crebbe, è arduo pensare che verrebbe preso dalla curiosità di leggerlo, visitando quelle stanze. 

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Forse manca una voce, ecco cosa manca. Manca la voce di una guida che sappia far risuonare queste stanze così sterili e igienizzate dalla loro storia. A questo monumento muto mancano le storie, le voci, i rumori, l’umanità varia, che popolano in modi spesso gioiosamente drammatici tutte le pagine di Kadare. Guardiamo un video, osserviamo distratti alcune teche, troviamo dei disegni che un qualche laboratorio per bambini si è lasciato dietro, ma per lo più ci muoviamo senza sapere bene cosa siamo venuti a cercare in questo posto. 

Però, come tutte le superfici lisce, anche qui non è impossibile trovare una breccia o, più esattamente, una piega nascosta. Anche la superficie più liscia non manca delle sue sorprese, ad attenderle con un po’ di pazienza.

Ci sono in particolare due elementi che ci guardano dal loro cantuccio e che forse rimarrebbero muti senza le pagine di La città di pietra. Il primo è il pozzo, situato dentro il cortile interno della casa. Sembra quasi un resto incongruo di quella che è stata davvero una casa, un po’ come quando all’interno di un edificio si ritrovano resti di un altro uso del palazzo. Al pozzo i lettori di Kadare sanno che sono dedicate pagine bellissime dell’autobiografia, in particolare la pagina che racconta una notte di tempesta in cui la cisterna minacciava di straboccare e di allagare tutte le stanze del pianoterra, perché alimentata dalla pioggia, come generalmente accadeva nelle case ottomane. Per il bambino che Ismail Kadare era in quel momento, l’accaduto diventa una straordinaria immagine del carattere rovinoso di quando si accumula più del necessario. Ma è anche l’immagine di un singolare indeterminarsi tra dentro e fuori, rappresentato dal pozzo, con l’acqua libera di scorrere dentro casa attraverso apposite grondaie, in modo che alla famiglia non mancasse mai il suo bene.

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L’altra parte che attira la nostra attenzione è la piccola cantina, usata – ci ricorda una delle poche targhe parsimoniosamente distribuite nella casa – come bunker negli anni dei bombardamenti della città, contesa tra italiani e greci e poi finalmente riconquistata dai partigiani albanesi. Anche attorno a questo spazio altrimenti angusto e insignificante le pagine de La città di pietra fanno ruotare storie di un’incredibile potenza. Là si ricorda, per esempio, dell’orgoglio del piccolo di famiglia nel leggere il cartello affisso dalle autorità al portone di casa: RIFUGIO PER NOVANTA PERSONE. Se in città non mancavano i luoghi in cui proteggersi dai bombardamenti, si trattava pur sempre di rifugi per quindici o venti o trenta persone al massimo. Niente di paragonabile alla sensazione che la casa fosse diventata da un giorno all’altro “il centro del quartiere”. Traspare ancora l’eccitazione del bambino quando Kadare scrive: “Vi regnava adesso una grande animazione. Lasciavamo la porta spalancata perché la gente potesse trovarvi riparo al primo urlo della sirena d’allarme. C’era qualcuno che arrivava persino prima e restava ore nel corridoio, accanto all’ingresso della cantina, a riprendersi d’animo, a fumare, a discutere. […] La nostra casa era diventata una sorta di luogo pubblico. Ogni giorno era teatro di qualche incidente […] ci si accapigliava soprattutto per i posti migliori. Quasi tutti portavano coperte perfino materassi, si stava sempre più stretti”.

Se ora lasciamo questo luogo, dopo averlo riempito nuovamente delle storie che gli appartengono e per quasi quattrocento volte mettiamo un piede davanti all’altro, passando di fronte ad alcune tra le più belle dimore in stile ottomano di Argirocastro, si arriva sulla strada dedicata a Hysen Hoxha, zio di Enver, e all’odierno Museo Etnografico. 

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La ex casa natale di Enver Hoxha è stata distrutta da un incendio e ricostruita a cavallo degli anni ’60 nello stile delle case tradizionali ottomane della città. Il museo si visita con interesse. Tra i documenti dalle varie regioni del paese veniamo attirati da due video: uno è la registrazione di un canto dell’esilio – elemento cardine di un paese segnato dalle partenze e dalle migrazioni – e uno muto su un matrimonio tradizionale albanese, il volto della sposa ricorda i ritratti di donna di Klimt o di Khnopff. Con la stessa eleganza fende la folla riunita sotto la casa del padre per andare incontro al suo promesso. Ma sono soprattutto altri elementi ad attirare qui l’attenzione. In una stanzetta sono raccolte alcune biografie di vite perseguitate dal regime, condannate a morte o a una detenzione disumana. È uno dei timidi tentativi del paese di fare i conti con le responsabilità storiche del più lungo regime comunista del blocco dei paesi dell’Est (1945-1991), l’unico a evitare la destalinizzazione alla morte di Stalin, finendo per diventare una dittatura feroce. Alla chiusura dell’Albania nell’isolazionismo paranoico di allora corrisponde oggi un paesaggio costellato da bunker, piccoli o grandi, visibili o invisibili, che le statistiche nazionali conteggiano nella cifra monstre di 170 mila e passa unità (contro i 230 mila che il regime avrebbe voluto costruire). 

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Nel Museo c’è un altro dettaglio sul quale inciampa subito il nostro sguardo: la culla intagliata nel legno nel locale in cui fu tenuto al caldo il neonato Enver. Immagino per un istante che effetto farebbe la stanza natale di uno dei tanti tragici soggetti del potere del Novecento in uno dei nostri musei europei. Singolare perché il sito del Museo afferma che “non c'è nulla che abbia a che fare con Enver Hoxha, né i suoi averi, oggetti o mobili della sua vera casa, e nulla che riguardi la sua storia”, mentre il dettaglio viene segnalato da un cartello ad hoc.

È soprattutto un altro spazio ad attirare l’attenzione: è un passaggio sul retro, che unisce diverse stanze. Su un lato stretto di questo cunicolo e in parte sul soffitto a botte viene proiettato il video (in albanese con i sottotitoli in inglese) di una visita di Hoxha alla casa di famiglia e ad Argirocastro. Scorrono le immagini della popolazione che omaggia Hoxha, le ragazze con i fiori, i veterani della lotta partigiana, la bella città e il suo castello. Hoxha è lì con noi, moderatamente sorridente, autorevole padre della patria e di tutti i suoi abitanti. È ancora lì. In un certo senso, non è mai andato via. Non ci ha mai lasciato.

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Capisco ora meglio una strana mostra improvvisata, fatta di reperti di guerra e di oggetti d’uso domestico nell’epoca comunista. La trovate a ridosso della moschea centrale, subito sopra una delle vie in salita del bazar. Soprannominato “Nostalgia Museum” con quella malinconica inventiva che hanno solo i popoli balcanici, è sostanzialmente il corridoio d’accesso a un bunker murato. Dopo alcune decine di metri di galleria, che su molti visitatori ha subito un effetto claustrofobico, aumentato dall’odore degli oggetti esposti, sul muro in fondo scorre un lungo film sulla storia albanese. Sarà forse dei primi anni ’80, a colori e solo in albanese. La qualità della proiezione, legata anche allo schermo di cemento, è bassa. Senza sottotitoli resta arduo comprendere e allora non resta che farsi prendere dal flusso di folle inneggianti, incontri tra capi di stato, riunioni del comitato centrale del partito, ritratti del giovane Hoxha partigiano, doni di fiori, popoli sorridenti, parate (si riconosce la piazza centrale di Tirana), immagini di partigiani che entrano nelle città liberate dagli invasori tedeschi (e prima da quelli italiani). Sono immagini virate ora in azzurrino, ora in blu, ora in rosso. Già la variazione cromatica dice qualcosa del loro anacronismo. Eppure quell’anacronismo è là davanti, al fondo della galleria, più presente che mai, per quanto in forma spettrale. È la presenza di ciò che non passa nella storia di ciascun paese, di ciascuna cultura. E che chiede di essere ascoltato, al di là delle troppo facili contrapposizioni tra allora e ora, tra dittatura e democrazia, tra povertà e benessere, non per negare la differenza tra le alternative, ma per ragionare su ciò che lega ogni luogo a quello che è stato e che, in una certa misura, sotto la superficiale apparenza accogliente per i turisti, fortunatamente continua a essere. Altrimenti avremmo paesi tutti uguali l’uno all’altro, come uguali sono diventati i centri commerciali e le vie pedonali delle città.

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Solo più tardi leggerò uno dei romanzi più importanti di Kadare, Il Palazzo dei sogni, un libro del 1981, subito censurato dal regime. Leggendo ripenserò a questi due filmati visti per buona sorte ad Argirocastro. Le loro immagini sfuggenti e dai colori improbabili, oltretutto proiettati ogni volta in una sorta di budello architettonico, ricordano quelle dei nostri sogni. O almeno ricordano i sogni come i film hanno cercato di restituirceli nella loro consistenza così inafferrabile e insieme così presente, si pensi a Fino alla fine del mondo di Wim Wenders o a Europa di Lars von Trier.

Nel romanzo di Kadare il potere del Sultano dipende dalla capacità del Tabir Saraj (il Palazzo in cui i sogni vengono raccolti, selezionati, interpretati) di individuare nella ridda dei sogni di tutto il popolo il Sogno-Guida, portatore di segni che anticipano il destino dello Stato. Al di là delle evidenti analogie tra le istituzioni del romanzo con quelle dell’Albania di Hoxha, in particolare con quelle che si occupano di propaganda e con la polizia segreta, alle immagini dei sogni il romanzo attribuisce «un potere terribile, che non si basa sui fatti», ma che anzi è capace di condizionare o di determinare la realtà delle stesse manovre politiche. Così quelle immagini ancora lì ci ricordano di un sogno sognato a lungo e che forse ancora popola i nostri sogni, almeno in Albania, e che resta ancora in buona parte da ascoltare.

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