Modi del sentire / L’intimità, là fuori

5 Luglio 2021

Sere fa un amico mi manda un testo in cui racconta una di quelle storie quasi leggendarie che circolano in Palestina non foss’altro che per sopravvivere con un sorriso ai soprusi di tutti i giorni. Benché i fatti narrati possano essere frutto di invenzione, e forse anche lo siano, indubbiamente il racconto descrive meglio di mille analisi cos’è una vita in gran parte inimmaginabile: una vita che trascorre tra un posto di blocco e l’altro, nel segno di un check-point onnipresente, di un bombardamento imminente, di una scarsità di generi alimentari, di medicinali, di scuole dove far lezione…

La storia inizia con dei militari israeliani che fermano un corteo nunziale e pretendono che un giovane credente baci la sposa: 

 

 – «Se baci la sposa passate tutti».

– Lui: «Impossibile!».

– La folla: «Dai baciala e non parliamone più!».

– Lui: «Mai, è una donna sposata, la nostra legge è esplicita!».

– La folla: «ma dai... Su, facci passare!».

– Lui: «Mai! Preferisco che mi sparino piuttosto che toccarla. Siamo musulmani o cosa!».

– La folla: «Trova una soluzione!».

– Lui: «Meglio morire!».

Finalmente è la sposa che ha fatto il primo passo. Ha detto al giovane fedele: 

– «Tu sei mio fratello davanti a Dio». E l’ha baciato. Ci siamo tutti messi a piangere per questa scena indimenticabile. Poi ha detto a suo marito:

– «Ho baciato quell’uomo, se vuoi divorziare, divorzia! E che tutto il mondo sappia perché!».

Il marito ha risposto:

– «Tu sei mia moglie davanti a Dio! Hai risolto tutto, sei la pupilla dei miei occhi! Andiamo!».

Non vi dico quanto tempo c’è voluto per sbrogliarci, per uscire di lì! Finalmente siamo passati tutti. Cosa volete, è il nostro destino…

 

A prima vista la vicenda sembra parlare di un’intimità offesa, in ogni caso l’intimità tra gli sposi potrebbe essere compromessa dal bacio forzato. Ma è la perspicacia della donna che risolve l’intoppo a conquistare il centro del racconto. Come in tutte le vicende mitiche e con buona pace dell’occupazione militare delle vite e del territorio, c’è un’astuzia minore, un acume dei piccoli a cui non si resiste. Almeno così dice la storia, in cui la violenza esterna pare quasi impotente a raggiungere il cuore della cosa. Ma allora l’intuizione della sposa cos’è che permette di salvare?

 

Evidentemente l’intimità tra lei e lo sposo non è qualcosa che possa essere protetto dal solo rispetto della Legge, come vorrebbe il credente, che si sottrae alla richiesta del soldato, riconoscendovi il segno di un sopruso. L’intimità coniugale non è garantita neppure dal rispetto meccanico di una fedeltà per cui il marito intenda il bacio come violazione del patto matrimoniale. Ciò che la storia suggella con le parole dell’uomo – «Tu sei mia moglie davanti a Dio! Hai risolto tutto, sei la pupilla dei miei occhi! Andiamo!» – è un’intimità che nasce dall’invenzione di un gesto inedito, che risolve l’impasse in cui erano incappati loro malgrado. Non c’è intimità senza il rischio di quel bacio proibito. Questo potrebbe risultare facilmente e anzi doppiamente offensivo, tanto nei confronti del credente, quanto nei confronti dello sposo. Un rifiuto del bacio potrebbe inoltre dar luogo a un’ulteriore rappresaglia da parte dei militari ed eventualmente innescare una logica di compensazione vittimaria. Niente di tutto ciò.

 

Anche l’aspetto pubblico della scena rappresenta un rischio, se è vero che l’intimità vive per lo più nel riserbo, quando addirittura non nel segreto. Eppure la storia mostra proprio come l’intimità non sia una passione dell’interiorità, come per lo più la si ritiene. Occorre piuttosto pensarla come una potenza inedita dei modi e delle relazioni, in cui ogni vita si articola. Una potenza dell’esteriorità. È là fuori, non ha niente di interiore. O, meglio, è ciò che dell’interiorità di ciascuno di noi si trova sempre fuori, confrontata con il mondo e con le sue imboscate. È un’interiorità che si indetermina con l’esteriorità e là vive.

 

 

Essere intimi significa, in fondo, creare un dentro nel fuori, portarvi quella connessione con le cose che tanto spesso viene a mancare. Significa trovare la via d’accesso a una realtà che per lo più ci sfugge.

Tanto più se pensiamo allo spazio dell’occupazione militare – in Palestina come altrove – che è uno spazio negato, violato, annichilito. Uno spazio stuprato. L’occupazione è la condizione esistenziale in cui l’intimità è sistematicamente cancellata, così come sono distrutte materialmente le case. Il gesto della sposa reinventa uno spazio, oltre che una possibilità per tutti gli invitati al matrimonio di procedere oltre, verso una festa negata ai soldati. È allora che lo sposo può dire il suo Andiamo!

 

C’è più spazio ora. L’intimità crea un’estensione che ha la forma paradossale di un’intensificazione. C’è più spazio perché lei ha inventato quel bacio proibito e inatteso. C’è più spazio perché lui ha detto Andiamo! Basta un gesto minimo per aprire un pertugio, una via di fuga, inapparente ma essenziale. Basta quello affinché dentro le cose si scavi un’esperienza inedita, un’occasione per le convivenze, per i passaggi. Là eravamo attesi, è la sensazione che ci prende in quello stato di grazia. Là qualcosa di noi era atteso: qualcosa di vitale benché magari possa essere riconosciuto solo in quel momento. E questo è tanto più decisivo oggi dove spazio e tempo sono entrati in crisi. Il rapporto dei corpi con lo spazio da abitare e quello con il tempo da vivere si muovono secondo parametri di cui è difficile offrire la decifrazione. La rarefazione dell’intimità nel nostro tempo ha anche qui la sua origine.

 

Tanto più rara, tanto più prezioso il suo privilegio precario, capace di trasformarci, trasformando il nostro modo di essere al mondo. 

Forse è per questo che bisogna prestare attenzione e non confondere l’intimità con l’amore o con l’amicizia. L’intimità non è né l’uno né l’altra, ma un loro momento: un momento dell’amore, un momento dell’amicizia. Un momento, un luogo, una qualità. Non è l’amore: è qualcosa che capita all’amore. Ci sono relazioni amorose, lo ricorda bene François Jullien nel suo libro Sull’intimità (Cortina, 2014), che non accedono a questa grazia dell’intimità, magari mantenendosi negli anni. Perché l’intimità non è tanto un sentimento, quanto una breccia che si apre sull’esplorazione. L’intimità è una forma di conoscenza a partire dal punto inequivocabile di contatto del corpo con il mondo, ma di un mondo restituito finalmente alla sua assenza di confini. È il punto in cui si entra in contatto con lo sconfinato che in noi riposa. Ed è là che incontriamo le cose e che le cose che incontriamo diventano occasione del nostro divenire. Là diveniamo. Non noi, ma qualcosa in noi diviene, qualcosa in quelle vite che diciamo “nostre”. 

 

L’intimità è sfuggente, guizza via. Non appena l’aggettivo ha preteso di dirne qualcosa o il concetto di fissarne un’immagine indistruttibile. Si sbriciola. È sempre a rischio. Lo racconta anche la storia palestinese: la violenza da un lato, la legge dall’altro, come si potrà mai essere intimi a qualcuno o a qualcosa in queste condizioni? Eppure quando avviene, l’intimità è qualcosa che ci esige: è l’esigenza stessa di un passo, di un’invenzione. Non formule precostituite, non prescrizioni. Almeno per un lungo istante c’è spazio per uscire dalla rassicurante banalità dei modelli offerti a ogni epoca e a ogni stagione della vita. Per osare la singolarità dell’incontro. Di quell’incontro.

 

Per questo stesso motivo non ha niente né della seduzione, né della conquista amorosa. Nessuna strategia può fondare un’intimità. Piuttosto lì c’è il segreto di una vicinanza che non ha il suo contrario nella lontananza. È il senso di una prossimità tutta da indagare. Non è la lontananza a cancellarla, né la separazione. Addirittura talora sopravvive anche a una scomparsa o alla fine di una relazione. Ma a sua volta questa vicinanza è impressionante, chiede di essere portata, di esserne all’altezza, meglio silenziosamente. Si può voler scappare dalla sua presenza. Dalla sporgenza verso il limite che essa sempre ci chiede. È così forse proprio perché è un’esperienza di un tempo altro: è l’irruzione del tempo di una fiducia, qualcosa capiterà. Non vi dico quanto tempo c’è voluto per sbrogliarci, per uscire di lì! – dice il narratore – Finalmente siamo passati tutti. Cosa volete, è il nostro destino… è tutta la fiducia che ci vuole per passare e tutti i popoli che resistono sono passeur, lo sono per esigenza di giustizia. Ma altrettanto vale forse per l’intimità. Tutta l’intimità di questo mondo è, nella sua fragilità, forse ancora un modo per ricollegarsi a quella fiducia che sola permette di varcare i confini già tracciati agli spazi del nostro abitare il tempo.

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