Piero della Francesca / Alla ricerca di Piero. La casa di Sansepolcro
All’ombra dei personaggi famosi prospera un sottobosco di figure minori, le cui azioni risultano indissolubilmente intrecciate con il nome di qualcuno incomparabilmente più celebre di loro. Viaggiare per visitare le case di donne e uomini illustri significa alla lunga scontrarsi con questa evidenza, per cui ciò che chiamiamo storia è l’annodarsi di vicende vicine e lontane, minori e maggiori, luminose e in ombra. Capita così a noi, addentrandoci in quell’angolo tra l’Umbria e le Marche, tra Città di Castello e Pieve Santo Stefano, alla volta della casa natale di Piero della Francesca a Sansepolcro, in provincia di Arezzo. Nelle stanze semivuote, arredate oggi con alcune piccole mostre (pittura, oreficeria), incontriamo presto un nome che entra a pieno titolo a far parte della storia della casa e della memoria postuma dell’artista: Giovanni Battista Collacchioni, detto Titta.
Nella seconda metà dell’Ottocento il Collacchioni, cavaliere e senatore del Regno, divenne proprietario del grande edificio, che la famiglia di Piero, ricchissimi conciatori, aveva abitato e ampliato (probabilmente su progetto di Piero stesso) esattamente quattro secoli prima, nella seconda metà del Quattrocento. Fu il Collacchioni a far staccare un affresco raffigurante Ercole, unico soggetto laico conosciuto del pittore, databile a un periodo successivo al 1465, dalla parete su cui era stato dipinto. Portato su tela, il quadro finì sul mercato antiquario in uno stato danneggiato dall’operazione di distacco e di trasporto. Fu poi acquistato da Isabella Stewart Gardner per il suo museo di Boston, dove tutt’oggi si trova. Dell’Ercole di Boston Longhi diceva di trattarsi di un “gigante troppo nervoso”, la cui figura “ci appare di un contorno insolitamente vibrato, sebbene la plastica che un tale contorno costringe sia, fino ad un certo segno, placata dalla materia rara”. Senza mezzi termini Longhi dice che in questa pittura Piero sembra aver ecceduto in accorgimenti pittorici, per distinguerlo dalle figure a cui l’affresco si accompagnava e che ora sono perdute, “allo scopo di esprimere con la maggiore evidenza i contrassegni di una prepotente energia corporea”.
Da questa casa insieme all’Ercole è uscita anche la Natività, presente nell’inventario stilato alla morte del pittore e ora conservata alla National Gallery di Londra. Fu venduta dalla Curia, mi dicono nel borgo, per pagare il restauro del tetto del Duomo. Così nel corso dei secoli sono scomparse dalla casa le tracce preziose di pittura che la abitavano, lasciandola deserte. Ora queste stanze ricordano un po’ la sua vita, così magra di notizie. Notevoli sono infatti i limiti della biografia di Piero, in cui le date sicure sono poche, anche per quanto riguarda le opere. Nella prefazione alla sua Indagine su Piero, Carlo Ginzburg scriveva: “il ricercatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a una parete di roccia di sesto grado, liscia e senza appigli. C’è solo qualche chiodo sparso qua e là: la presenza di Piero a Firenze nel 1439, al seguito di Domenico Veneziano; la commissione per la pala della Misericordia a Sansepolcro nel 1445; l’affresco di Rimini che raffigura Sigismondo Malatesta, datato 1451; l’attività a Roma nel 1458-59, documentata dai pagamenti della camera Apostolica… Per il resto, congetture, notizie malsicure o indirette, nei casi migliori datazioni post quem e ante quem che lasciano aperti vuoti di decenni”.
Questa casa ricorda quello che Henri Focillon diceva dell’esistenza di Piero: pare vivere di “una vita tutta interiore, segreta, eppure profondamente immersa nella realtà del proprio tempo”. E allora dentro queste mura domestiche dobbiamo riconoscere l’esistenza di qualcosa di inaccessibile, come quando scrutiamo i volti grandiosi dipinti da Piero, imponenti, ma al tempo stesso imperscrutabili sino all’impersonalità, monolitiche presenze dentro uno spazio tutto congegnato secondo il più rigoroso rispetto delle leggi della geometria.
Qualche anno fa fu pubblicata una guida artistica il cui titolo suonava: “Alla ricerca di Piero”. Là si trattava di reperire le tracce dell’artista nel territorio sul quale aveva operato. Questa ricerca non ha perso nulla della sua rilevanza: alla ricerca di Piero significa che Piero non lo si trova facilmente. Che non è mai là dove ci si aspetterebbe di trovarlo. Che la sua pittura non dà molti punti di riferimento a chi la contempli da vicino. “Alla ricerca di Piero” vuol dire chiedersi: dove si trova questo genio inarrivabile e inafferrabile della pittura di tutti i tempi?
La sua casa ripropone però lo stesso quesito: dov’è Piero? In queste stanze vuote, di Piero c’è forse proprio la difficoltà di afferrarlo, di ridurlo o di ricondurlo alle nostre aspettative, magari mediante qualche pezzo antico o qualche “autenticità” appartenuta alla famiglia. La signora che lavora all’ingresso mi racconta che i visitatori le chiedono abitualmente: dov’è il letto? dov’è la mobilia? Domande simili raccontano come ci si trovi vaghi e dispersi in questo edificio enorme, o almeno nelle sue parti visitabili. È vero che a Parigi in Place de la Bastille c’è chi chiede dove si trovi la Bastiglia. Però qui la richiesta dice qualcosa di vero sulle stanze vuote che ci troviamo ad attraversare. Dice della sottrazione a cui Piero ci consegna.
Quando arriviamo al numero 71 di Via Niccolò Aggiunti, troviamo in mostra dentro la casa un’esposizione di figure geometriche e solidi regolari, le stesse che stanno alla base della composizione prospettica nella pittura di Piero. Le figure geometriche parlano non solo di misura, ma anche della proporzione, madre e regina di tutte le cose, regola del cosmo: la divina proporzione, come la chiamerà il suo amico, il matematico Luca Pacioli. È sul modulo spaziale di Pacioli che si baserà, per esempio, la misteriosa architettura della Flagellazione. Come ha messo in luce Wittkower, quella città è l’esempio di una divina misura, di una mistica mensura Christi, e al tempo stesso una chiave preziosa per accedere ai contenuti spesso inspiegabili della pittura di Piero.
“Nessuno più di lui fu mirabile – diceva Vasari – nelle cose della cognizione di Euclide”. E velatamente evoca un’accusa di plagio nei confronti di Pacioli: “maestro Luca da ’l Borgo frate di San Francesco che sopra i corpi regolari della geometria scrisse, fu suo discepolo. E vedendo in vecchiezza Pietro che aveva composto di molti libri, Maestro Luca facendoli stampare, tutti gli usurpò per se stesso, come già s’è detto di sopra, sì come quello a cui erano pervenuti nelle mani dopo la morte di Maestro Pietro”.
Piero aveva composto quattro trattati, il più celebre dei quali è sicuramente il De prospectiva pingendi, ma nella mostra della casa se ne ricorda un altro, altrettanto fondamentale, dal titolo De quinque corporibus regularibus. In quest’ultimo – oltre a riprendere i temi dell’antichissima, ma sempre viva cultura geometrica, d’origine pitagorica e platonica – Piero intende studiare i solidi regolari al fine di utilizzarli come elementi del disegno. Nella sempre aperta questione del passaggio dal piano tridimensionale all’ordine bidimensionale della pittura, si fa strada un’indagine di importanza monumentale. Questo accade perché per Piero – come ha riconosciuto Focillon – la prospettiva era meno un problema scientifico e più strettamente una necessità pittorica.
In particolare, colui che Vasari ha chiamato “maestro raro e divino” era interessato alle trasformazioni di un oggetto rispetto alla luce, una volta che veniva collocato sulla superficie piana della tela. La sua ricerca è cioè una ricerca d’arte: sia fini che metodi sono compiutamente artistici. Se arrivò alla teorizzazione matematica fu al seguito delle indagini pittoriche, che erano il suo campo sperimentale. La pittura è qui fondamentalmente un’esperienza di conoscenza del mondo. Attraverso la ricostruzione dei rapporti originari geometrici tra corpi e spazi emerge la prospettiva di Piero in cui, ha scritto Focillon, “non si tratta solo di conferire un’illusione di profondità o di bucare un muro, ma di disporre e distribuire in modo logico e razionale quel che appare su di una superficie, secondo regole e leggi che non appartengono alla realtà, ma all’opera d’arte”.
Notevole del De quinque corporibus regularibus è che nel libro vengano disegnate per la prima volta le figure di cui si parla. Di particolare interesse sono i cinque poliedri regolari: il tetraedro, il cubo detto anche esaedro, l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro. Colpisce della mostra il fatto che si provi a cogliere qualcosa di Piero, della sua presenza, della sua vita, del mistero della sua arte, attraverso queste figure geometriche. È come un tentare di avvicinarsi all’enigma suo e della sua opera, procedendo a tentoni, ma more geometrico. Sono tutti tentativi interessanti nella misura provano a riferirsi a una presenza ideale, ma inafferrabile, com’è quella dell’artista di casa. Pochi sono gli artisti che vengono chiamati con il loro nome di battesimo. Piero è uno di loro e questo ci dà il senso di una vicinanza che però, anche al cospetto della sua pittura, non diventa mai familiarità. Piero è l’infamiliare per eccellenza. Ha qualcosa di inappropriabile, anche per chi ne abbia studiato a lungo la pittura.
Nella enigmatica Flagellazione di Urbino la violenza che si abbatte sul Cristo è rappresentata solo sullo sfondo, mentre davanti tre personaggi dall’identità incerta si intrattengono in conversazione, indifferenti a quanto capita alle loro spalle. Lo spazio si divide in una doppia rappresentazione e potrebbe in effetti alludere a una doppia scena, una storica e l’altra atemporale, in un certo senso contemporanea a tutte le epoche. Sul gradino a sinistra si legge “OPUS PETRI DE BURGO S(an)C(t)I SEPULCRI”.
In quello spazio senza drammaticità, fatto di linee e luci, dentro il quale Piero colloca figure monumentali, la cui pace è in contrasto con il tema stesso del quadro, lo spazio e la sua intellegibilità agiscono come fattori di conciliazione.
Piero non dipinge le figure come i suoi contemporanei, per i quali a essere fondamentale era la linea di contorno che definiva le figure stesse. Piero immerge le figure in una luce, lasciando attorno a loro un contorno luminoso. Permettendo così all’immagine di apparire anche in tutti quegli spazi vuoti, in quelle interruzioni e sospensioni, in cui la luce si muove liberamente. Focillon ha mostrato quanto questa modalità debba alle pagine del De Pictura di Leon Battista Alberti: “Piero sente fortemente questo bisogno di spazi vuoti, questa necessità di procedere lento. […] ogni personaggio ha lo spazio necessario per muoversi con posata lentezza. I movimenti, sottratti così al fluire del tempo, sembrano inscriversi nell’eternità”.
Così da questa grandissima abitazione noi ripartiamo con il solo bottino di domande senza risposta e di una ricerca di Piero che non ne vuole sapere di finire.