La grammatica del mondo / Helgoland: Rovelli e i quanti

30 Dicembre 2020

Il volume degli scambi della Borsa di New York varia ogni giorno tra i 2 e i 6 miliardi di transazioni, con un valore medio giornaliero (dato del 2016) di 169 miliardi di dollari. L’unico modo per gestire una tale mole di dati è affidarsi alle macchine: algoritmi e software “decision-making” le cui prestazioni migliorano di anno in anno, come fa la tecnologia quando è pungolata dalla finanza: se un trader umano può gestire intorno ai cinque scambi al giorno, i software di High-frequency trading ne gestiscono diecimila al secondo

In questo momento stanno circolando 17 milioni di container. Le supply chain, le catene logistiche che permettono alle merci di essere assemblate e distribuite, sono di una tale ramificata complessità che, come la proverbiale farfalla che scatena l’uragano, uno sciopero in un porto, il crollo di una miniera o, be’, un pangolino in un mercato cinese, possono alterare in maniera imprevista il mercato globale.

Queste e altre infinite strutture sono tenute in piedi e collegate tra loro da internet. Secondo alcune stime, nel 2025 ogni giorno verrano creati 463 milioni di terabytes, l’equivalente di 212.765.957 DVD. Ogni giorno. Internet è un sistema di piattaforme, servizi, data-center, dorsali oceaniche la cui complessità è tale da trascendere qualsiasi tentativo di comprensione del singolo individuo, ma di cui godete i frutti: ad esempio leggendo queste parole. 

Il mondo è una rete di reti dentro altre reti, una complessità ingovernabile e ingovernata, senza nessuno alla guida se non (forse) la sua stessa, inumana, logica strutturale.

 

Ma perché mi venivano in mente queste cose leggendo Helgoland, l’ultimo libro di Carlo Rovelli? Helgoland non parla né di container né di mercato azionario: è invece l’affascinante (oserei dire, come sempre per i libri di Rovelli, seducente) racconto di come un gruppo di giovani fisici all’inizio del XX secolo hanno forgiato la teoria dei quanti; è anche l’esposizione – con grande efficacia divulgativa – di alcuni dei fondamenti di questa teoria, e con essi degli ineliminabili paradossi e delle sue meravigliose stranezze; Helgoland è, infine, un’apertura alle più recenti versioni della teoria dei quanti, quelle in particolare che cercano il sacro Graal della fisica contemporanea: lo sposalizio tra relatività e quantistica. Per giungere a questo obiettivo, per entrare nel castello del Re Pescatore, esistono numerosi sentieri: al momento la comunità scientifica è variamente distribuita lungo queste strade, non esiste unanimità. In questo Rovelli è sempre molto chiaro a sottolineare quanto le idee più estreme (anche come visionarietà teorica) di cui parla, siano comunque un’ipotesi – anche quella che lui ritiene più interessante e promettente è ancora soltanto una tra altre.

 

«C’è stato un momento in cui la grammatica del mondo sembrava chiara». Alla radice di tutte le molteplici e mutevoli forme della realtà, sembravano esserci poche particelle di materia – gli elettroni, i protoni e i neutroni che formavano gli atomi – guidate da poche forze. Per qualche istante, l’uomo aveva pensato di essere arrivato a fine della corsa, di aver, se non capito tutto, quantomeno capito la logica secondo cui tutto funzionava, la sostanza di cui era fatta il mondo: «l’umanità poteva pensare di aver sollevato il velo di Maya: aver visto il fondo della realtà». Ma questa illusione non è durata a lungo, troppe cose non tornavano, anzi c’è una data precisa a segnare la fine dell’illusione. Nell’estate del 1925, un promettente fisico tedesco di 23 anni, Werner Heisenberg, va a trascorrere qualche giorno di agiata solitudine in una sperduta isola del Mare del Nord, Helgoland. Vi era stato mandato dal suo maestro Niels Bohr per cercare la soluzione a un problema su cui stavano lavorando e che sembrava tanto insormontabile quanto enigmatico. Alcune formule sul comportamento degli atomi individuate Bohr avevano qualcosa di veramente assurdo: «assumevano, senza motivo, che gli elettroni negli atomi orbitassero attorno al nucleo solo su certe precise orbite, a certe precise distanze dal nucleo, con certe precise energie; e poi “saltassero” magicamente da un’orbita all’altra».

 

I primi «salti quantici». Ma perché proprio quelle orbite? E perché gli elettroni saltavano da una all’altra? Mistero. Ma ecco l’intuizione di Heisenberg: non ci riusciamo? Non troviamo una benedetta forza che determini il comportamento degli elettroni come lo osserviamo? Allora proviamo a guardare il problema da una direzione diversa, opposta. Proviamo a rovesciare il tavolo: «non troviamo nuove leggi del moto che giustifichino le orbite e i salti di Bohr? Bene teniamo le leggi del moto che già conosciamo, senza cambiarle. Cambiamo invece il modo di pensare l’elettrone». Rinunciamo a descrivere il moto dell’elettrone, descriviamo solo ciò che osserviamo dall’esterno. Così Heisenberg, nelle equazioni del moto dell’elettrone, sostituisce le variabili con delle matrici, delle tabelle cioè che descrivono tutti i possibili stati dell’elettrone con le orbite di partenza e le orbite di arrivo. Questa «assurda ricetta di sostituire variabili con tabelle», dice Rovelli, porta però a calcolare i risultati giusti: prevede esattamente quello che osserviamo negli esperimenti. Semplice? Per niente. Anche perché la matematica delle matrici è diversa da quella ordinaria: tanto per dire, moltiplicare la matrice della posizione per quella della velocità è diverso da moltiplicare la velocità per la posizione (mentre con i numeri è indifferente: il risultato di 3 x 4 è identico a 4 x 3).

 

 

«Ero profondamente allarmato. Avevo la sensazione che attraverso la superficie dei fenomeni stavo guardando verso un interno di strana bellezza» scrive Heisenberg. La strana bellezza che il mondo dei quanti gli aveva dischiuso, e che lui e gli altri fisici degli anni Venti e Trenta stavano esplorando per la prima volta, è quella per cui i fenomeni si modificano se qualcuno l’osserva, in cui il tessuto più profondo della realtà si rivela granulare, discreto, non continuo. Un mondo di paradossi e inspiegabili influenze. Non è un caso allora che a Helgoland fossero state girate anche alcune scene di Nosferatu.

 

Ma questa è storia, come si dice. E Rovelli è, come al solito, bravissimo a raccontarcela. E riesce, con le sue grandi capacità divulgative, a farci intuire alcune delle verità matematiche che hanno reso possibili queste scoperte. La struttura matematica che sostiene la fisica quantistica, scrive Rovelli, ci dice in estrema sintesi che c’è un limite inferiore, che non esiste nulla di infinito andando verso il piccolo. Ci dice che il futuro non è determinato dal presente. Ma soprattutto che «le cose fisiche hanno solo proprietà relative ad altre cose fisiche, e che queste proprietà ci sono solo quando le cose interagiscono». La lama tagliente e solidissima di un coltello, a livello atomico «è fluttuante e imprecisa come il bordo di un oceano in tempesta che si sfrangia su una spiaggia di sabbia bianca». Le conseguenze di tutto ciò sono l’argomento della terza e quarta parte del libro, le più personali e teoreticamente vertiginose, quelle in cui Rovelli perora la causa dell’interpretazione relazionale della fisica quantistica (e non solo).

 

I paradossi e le ambiguità della fisica quantistica, l'entanglement che lega due atomi lontani nello spaziotempo ad esempio, oppure l’influenza dell’osservatore sui fenomeni, le sovrapposizioni quantistiche (il fatto che il gatto di Schrödinger sia allo stesso tempo vivo e morto), assumono un’altra valenza se iniziamo a pensare che il mondo non sia composto da una sostanza dotata di attributi, ma soltanto dalle relazioni che gli enti hanno tra di loro: «il mondo che osserviamo è un continuo interagire, (…) una rete di reciproca informazione al livello fisico più elementare. (…) Siamo un ricamo delicato e complesso della rete di relazioni di cui, al meglio che comprendiamo oggi, è costituita la realtà».

 

La quarta parte di Helgoland è fondamentalmente il tentativo di estendere questa «interpretazione relazionale» della fisica quantistica a fenomeni non quantistici, come l’evoluzione e la coscienza umana. Non entro nel merito, mi limito a osservare che in queste pagine la prosa di Rovelli diventa ancora più visiva, immaginifica, accalorata nell’intreccio di metafore e richiami alla filosofia o ai testi della tradizione vedica, facendo ricorso alle non trascurabili capacità letterarie del suo autore: «se guardo una foresta di lontano vedo un velluto verde scuro. Avvicinandomi il velluto si sgrana in tronchi, rami e fronde. La corteccia degli alberi, il muschio, gli insetti, brulicano di complessità. In ciascun occhio di ogni coccinella c’è una struttura elaboratissima di cellule, connesse a neuroni che la guidano a vivere. Ogni cellula è una città, ogni proteina un castello di atomi; nel nucleo di ogni atomo si agita un inferno di dinamica quantistica, vorticano quark e gluoni, eccitazioni di campi quantistici. E non è che un piccolo bosco di un piccolo pianeta che ruota intorno a una stellina, fra cento miliardi di stelle di una fra mille miliardi di galassie costellate di eventi cosmici abbacinanti. In qualunque angolo dell’universo troviamo vertiginosi pozzi di strati di realtà».

 

Quello che trovo più interessante, però, è un’altra cosa. Cosa rende il testo di Rovelli così efficace e anche fortunato? Perché questa storia di particelle e equazioni possiede, o almeno così sembra a me, qualcosa che ci parla, ci interpella, ci riguarda? Ecco che torniamo agli scambi di borsa, ai container e alle dorsali oceaniche: Helgoland ci racconta un mondo di relazioni, un intreccio di reti di complessità ingovernabile e inconoscibile. Questa rete di relazioni è la realtà, è letteralmente il tessuto ultimo della realtà, ci dice Rovelli mentre ce l’espone con la sua grazia e precisione. Come un ammaliante Virgilio (ma sotto quell’affabilità ogni tanto emerge un divertito e luciferino sorriso), Rovelli accompagna il lettore in un tour nei gironi ultimi della realtà. Ogni tanto ci fa anche sporgere la testa dal finestrino, verso il nero abisso del non-essere, il crogiuolo dove muoiono i mondi. E poi ci riporta su, al sicuro, a riveder le stelle. Ma mentre Rovelli gli fa vivere il non piccolo brivido dell’incontro con la realtà, il lettore sente premere il Reale. Come una musica fortissima nell’appartamento accanto, che non sentiamo ma vediamo le pareti che fa vibrare. Il mondo di reti dentro reti, di relazioni, scambi e influenze, di circolazione infinita di informazione è il nostro mondo, è la complessità «senza pilota», senza soggetto, che ci sovrasta e domina, è l’iperoggetto che incombe, l’orizzonte di linguaggio e capitale che sfonda interiorità e esteriorità, che minaccia la nostra individualità al punto di essere irrappresentabile. 

 

Forse in questa mia interpretazione sono stato influenzato da una lettura che facevo negli stessi giorni di quella di Helgoland. In The silence (in uscita a febbraio per Einaudi nella traduzione di Federica Aceto), Don DeLillo immagina che, per una causa non identificata, tutti gli apparecchi elettronici del mondo si spengano. Che tutti gli schermi, gli infiniti monitor che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra vita, ormai invisibili alla nostra consapevolezza, diventino di colpo neri. Il disastro è l’implosione di quella rete di reti che ci avvolge e rende possibile la circolazione di corpi, capitali, linguaggio. Il crollo dell’infrastruttura, per usare il termine che studia Keller Easterling in un libro che c’entra molto con tutto questo (Lo spazio in cui ci muoviamo, Treccani). Non è un caso, allora, che due dei personaggi protagonisti del romanzo di DeLillo siano dei fisici. Il “silenzio”, questo sconosciuto disastro che ha spento tutti i device, è il crollo del linguaggio, il down della rete, la fine delle relazioni: il terrorizzante, impensabile irrompere del prelinguistico: «Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame potesse essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità in modo così naturale da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile da parte degli altri presenti nella stanza?»

 

Carlo Rovelli, HelgolandAdelphi, 2020.

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