I deportati del verde
Per nulla pallidi, né pii gli ulivi del Salento. Tantomeno casti. Gli aggettivi dannunziani non s’addicono agli antichi grigi legni sul rosso della terra. Persino l’argento è meno spendibile per le coriacee lamelle foliari. E se proprio si vuole dire mistico, ascetico, l’itinerarium mentis si contempla qui al suo primo stadio: la prepotenza della carne, dei nervi e del sangue. Di chi, in là con gli anni, ancora ricaccia polloni, si rigenera in rami e foglie nuovi.
Tra i coni tronchi delle pajare (i ricoveri in pietra a secco dei contadini), questi ulivi centenari sono corpi riarsi: ritorti, incisi, scolpiti. Come le tajate, le cave di tufo dove per generazioni gli zuccaturi si sono rotti la schiena. Gli uni e le altre monumenti muti, inascoltati testimoni di fatica e sudore.
Allora, le parole giuste sono di David Maria Turoldo: “albero essenziale, dall’ombra lieve/ come una carezza; e pure ossuto, e nodoso, e carico/ di ferite, uguale alla vita”. Perché, più di ogni altro albero, nelle rughe mai dissimulate della vecchiaia l’ulivo rappresenta la vita allo stremo, la vita degli ultimi come, appunto, quella degli zuccaturi o dei condannati al buio lavoro nei frantoi ipogei. Per lunghi mesi soli, sottoterra con le olive e gli asini, gli ultimi degli ultimi.
E dei diseredati, oggi, l’ulivo salentino sconta anche un destino déraciné, da deportato del verde. L’ho visto su un autoarticolato con le barbe fasciate, stravolto in una posizione innaturalmente orizzontale: un prigioniero legato, diretto a una serra o a una villula del nord.
Evaporata la sbornia esotica che ha imposto un’araucaria ad ogni giardinetto lombardo, è scoccata l’ora dell’ulivo secolare davanti alla villetta a schiera, a dispetto di ogni senso della misura e della proporzione. È l’ultimo vacuo status symbol di una borghesia sempre più piccola, sempre più al verde.