I deportati del verde

14 Novembre 2011

Per nulla pallidi, né pii gli ulivi del Salento. Tantomeno casti. Gli aggettivi dannunziani non s’addicono agli antichi grigi legni sul rosso della terra. Persino l’argento è meno spendibile per le coriacee lamelle foliari. E se proprio si vuole dire mistico, ascetico, l’itinerarium mentis si contempla qui al suo primo stadio: la prepotenza della carne, dei nervi e del sangue. Di chi, in là con gli anni, ancora ricaccia polloni, si rigenera in rami e foglie nuovi.

Tra i coni tronchi delle pajare (i ricoveri in pietra a secco dei contadini), questi ulivi centenari sono corpi riarsi: ritorti, incisi, scolpiti. Come le tajate, le cave di tufo dove per generazioni gli zuccaturi si sono rotti la schiena. Gli uni e le altre monumenti muti, inascoltati testimoni di fatica e sudore.     

Allora, le parole giuste sono di David Maria Turoldo: “albero essenziale, dall’ombra lieve/ come una carezza; e pure ossuto, e nodoso, e carico/ di ferite, uguale alla vita”. Perché, più di ogni altro albero, nelle rughe mai dissimulate della vecchiaia l’ulivo rappresenta la vita allo stremo, la vita degli ultimi come, appunto, quella degli zuccaturi o dei condannati al buio lavoro nei frantoi ipogei. Per lunghi mesi soli, sottoterra con le olive e gli asini, gli ultimi degli ultimi.  

 

E dei diseredati, oggi, l’ulivo salentino sconta anche un destino déraciné, da deportato del verde. L’ho visto su un autoarticolato con le barbe fasciate, stravolto in una posizione innaturalmente orizzontale: un prigioniero legato, diretto a una serra o a una villula del nord.

Evaporata la sbornia esotica che ha imposto un’araucaria ad ogni giardinetto lombardo, è scoccata l’ora dell’ulivo secolare davanti alla villetta a schiera, a dispetto di ogni senso della misura e della proporzione. È l’ultimo vacuo status symbol di una borghesia sempre più piccola, sempre più al verde.

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