I Greci sono ancora lì nel paesaggio

23 Luglio 2014

All’inizio di quest’anno cercavo di spiegare a Miranda Popkey, una delle redattrici della casa editrice Farrar, Giroux &Strauss a New York che volevo scrivere una guida “on the road” ai Greci di Sicilia. Le spiegavo che una cosa così non esiste né in italiano né in francese, tedesco , inglese o spagnolo. Una guida che li cerchi davvero, che li faccia venir fuori dal paesaggio e dai colori dell’isola e non solo dai cocci e dagli scavi. Come diceva Bruce Chtawin in polemica con l’archeologia del suo tempo, “bisogna immaginarseli vivi, per vederli vivi”. Miranda mi ha guardato e con un guizzo mi ha detto: “interessante, sarebbe come andare in giro per l’America a cercare le tracce dei Sioux o degli indiani Seminole”.

 

Ovviamente non è lo stesso, pensavo di spiegarle, ma poi ho capito che effettivamente nei Greci c’è qualcosa che noi non abbiamo capito e loro sì, qualcosa che somiglia all’impossibile comunicazione tra indiani d’America e visi pallidi. E allora mi sono messo “sulla strada” in Sicilia a cercarli. E se ci riesco questo viaggio dovrebbe diventare una guida alla ricerca dei Greci di Sicilia, come se fossero andati via da poco e come se ci guardassero. Ed essere pubblicata per il Mulino a primavera prossima. Qui di seguito il passaggio da Morgantina, una città fondata nel VI secolo avanti Cristo da coloni Greci di Calcidia.

 

… Per chi va in giro come me i Greci sono ancora lì nel paesaggio e nelle magnifiche campagne che adesso sono rigogliose di carciofi e fave, i primi impettiti e spinosi, cardi e carciofi e le seconde proibitissime dai pitagorici e da molte sette ellenizzanti. Il paesaggio è l’altra componente monumentale di questo viaggio, salvato dal fatto che i siciliani – come i Greci – amano vivere attaccati tutti insieme nello stesso posto (che odio per l’essere lontani dalla polis!).

 

Vado allora da Palermo ad Enna in autostrada e poi svicolo sulla statale 117 per raggiungere Morgantina ed Aidone. E già il paesaggio è un inno a Demetra, campi gialli, colline dolci e affioramento di rocce improvvise, cornacchie e fagiani che svolazzano nell’aria tersa. Perdo la strada a causa di un cartello mal posto (un must in questo giro, come se ci fosse un vero fastidio o una gelosia tutta sicula, chissà, a fare arrivare i turisti nei siti greci).

 

Morgantina è sconvolgente. Questo promontorio fresco è una sella leggera che si protende verso la piana sottostante. Dal primo momento in cui imbocco i resti di una delle due plateie, le strade che correvano parallele verso le stoa e l’agorà, mi appare l’imponenza di questo paesaggio. Da qui si domina, ma si potrebbe dire si corteggia la piana ondulata, le geometrie dei campi di grano, e sullo sfondo, tra le nuvole, l’enorme vulcano, l’Etna che racchiude tutto il senso mitico dello star qui. Kore Persefone rapita da Plutone, dio degli inferi e del Vulcano stesso. Ritrovata dalla madre Demetra disperata che la cerca dappertutto tra i campi e finalmente liberata a metà. Per sei mesi è la regina delle messi e della primavera e per sei mesi è la dea delle potenze ctonie.

 

L’altra impressione è che questi Greci sapevano vivere! Ci fossero oggi ecisti, fondatori professionisti di città, capaci di scegliere dove insediarsi come ce n’erano allora. Ci fossero urbanisti capaci di tracciare con linee decise il rapporto formale tra un promontorio ed una città, le abitazioni, le strade, il teatro, il bouleterion un po' discosto dove si riunivano i consiglieri, l’agorà ekklesiasterion ampio dove i mille cittadini discutevano insieme delle questioni riguardanti la gestione della polis.

 

E poi il teatro che conteneva almeno tremila cittadini su una popolazione che non superava i diecimila.

Morgantina che guarda al Vulcano ma anche alla cittadella, una emergenza rocciosa più in alto e discosta dalla città, da sempre luogo di culto ad una dea della fertilità, cara a morgesi e siculi abitanti del luogo prima che arrivassero i coloni. Morgantina rappresenta l’avamposto verso il centro dell’isola dei coloni gelesi e di Kamarina, ma soprattutto l’esperimento di una convivenza con gli autoctoni. Le loro capanne, i loro templi che vengono assorbiti verso il quinto secolo avanti Cristo dall’idea greca della divinità femminile e dall’idea greca del convivere.

 

 

Questo luogo è spettacolare e dolce al tempo stesso, rinfrescato da una brezza quando invece a valle fa molto caldo. Sì, sapevano stare bene. Nella cucina di una delle belle case che si affacciano sull’agorà c’è scritto EUXXEI, “stai bene”. E le terme che erano vicino alle porte della città, con copertura a tholos, e tre ambienti per lavarsi, fare la sauna e rinfrescarsi, con deliziose pitture alle pareti, la cultura dell’acqua corrente – sifoni, tubature in piombo, acqua piovana e acqua sorgiva – fanno pensare a una concezione della vita come piacevolezza comunitaria. Mi viene da pensare, mentre passo tra i resti delle stoa che circondavano lo spazio dell’agorà ,“quanto erano freschi, freschissimi” questi greci, come se avessero appena scoperto il mondo.

 

Erano radicati nella propria storia, differenti dagli altri, con un complesso pantheon orientale, mercanti e guerrieri, abbastanza tribali da essere connessi con le forze e le risorse della natura e però inguaribilmente convinti dell’importanza della buona convivenza, della coesione sociale. Le case di questa bellissima città importavano ettolitri di vino da Rodi per banchetti, simposi, il momento in cui cibo diventava cemento di relazioni tra i coloni e gli autoctoni. Il poeta Alcmane ricorda come il senso del simposio sia il vino, la condivisione delle carni – spesso quelle del sacrificio all’ara degli dei poco lontana – e la poesia che viene improvvisata e cantata durante il convito.

 

Cosa guadagna chi cerca i Greci come me, per “strada”? Ci guadagna il loro senso magnifico del situarsi nel mondo, un mondo che miracolosamente qui intorno è intatto. Saranno cambiate le tecniche agricole, più giù sulla piana si apre un lago artificiale che ha prosciugato il fiume che solcava i campi prima di Raddusa, ci sono fichi d’india ed agavi arrivati dal Messico, ci sono gli Eucaliptus infestanti che vengono dall’Australia, ma i cipressi, i pini, le querce, il lentischio, il dividere i campi con i ciuffi di un’erba fitta e bianca, il volo delle pispise, delle allodole, le rondini che sfrecciano, beh questo c’era anche allora.

 

Quello che impressiona a Morgatina e deve essere probabilmente attribuito agli americani che ancora vi scavano è il senso dell’unità dell’insediamento, questo ridare anzitutto ai visitatori l’impressione di una vita che era intensissima, di una città piena – fu distrutta una volta dal siculo Ducezio che aveva riunito le popolazioni “autoctone” contro i greci – ma poi fu ricostruita da Timoleonte e dallo sforzo congiunto di Gelesi e Siracusani. I romani la distrussero, incendiandola nel secondo secolo avanti Cristo. I segni del fuoco ci sono ancora, ma questo improvviso abbandono ci ha regalato una città che sembra essere stata lasciata ieri, improvvisamente.

 

E il sito, nonostante i tombaroli e i secoli è stato praticamente dimenticato per mille anni fino a quando i normanni non si insediarono ad Aidone. Che differenza tra l’idea medievale dello stare e quella greca! Per questi vigevano ragioni di difesa, ma anche di bellezza, per i medievali il terrore delle incursioni barbare.

 

A chi ha il privilegio di percorrere i luoghi e di non leggere solo i libri o di fare entrambe le cose, viene una commozione forte qui, viene da pensare al senso del mondo classico di uno come Salvatore Quasimodo o di uno come Giuseppe Bonaviri, il più classico dei narratori siciliani, figlio di contadini di Mineo, all’impronta che questo paesaggio umanizzato ed amato dai Greci lascia indelebilmente in chi lo percorre oggi e si chiede com’è stato possibile che per una breve, brevissima stagione l’umanità abbia avuto l’intuizione forte del limite della vita e della bellezza inebriante e tragica del limite. Una immanenza laica, se il termine avesse qualche senso, un politeismo profondo e immaginifico, un senso narrativo della metafisica, un’idea della morte e della vita come dignità suprema.

 

Mi sposto ad Aidone, dove da poco è tornata la statua di una Venere – ma probabilmente è una Kore Persefone – che era stata venduta illegalmente al Getty di Malibu. Un convento francescano con una chiesa magnifica di affreschi e pitture popolareggianti ospita molto materiale di Morgantina e molto della cittadella dove sono state trovate importanti tracce dei culti pre-greci e greci. Prima di arrivare alla Venere si passa per una stanza dove sono state ricomposte le teste, i piedi e le mani di marmo di due statue – probabilmente in legno o in altro materiale – di Kore e Demetra.

 

 

Mancano le acconciature, realizzate in terracotta e perdute, le vesti, ma la ricomposizione qui montata è davvero suggestiva. E fa pensare alle bambole madonne spagnole e portoghesi, a quest’idea del corpo delle dee come ad un corpo di bambola, vestibile, smontabile, muovibile. Nelle teche delle sale adiacenti c’è un magnifico mezzobusto di Kore, con la veste rosa (rosa e celeste erano i colori di queste dee) e si capisce che il culto le addobbava, adornandole di orecchini, veli, vesti. I buchi nelle mani delle statue raccontano che esse portavano spighe, che il centro del culto era quello per cui i locali ed i greci erano grati al paesaggio di verdeggiare ed imbiondire.

 

Uscendo qualcuno ha trascritto sul muro un’ode di Callimaco alla forza madre

 

Salve Demetra, molte volte salve

generosa di cibo, ricca a staia

E come sono quattro le cavalle

di chioma bianca che il canestro tirano

così la grande dea, molto potente

verrà portando bianca primavera

e bianca estate e inoltre inverno e autunno

e ci proteggerà da un anno all’altro.

E come scalzi e senza bende in capo

camminiamo in città così per sempre

avremo in tutto illesi piedi e capo.

E come pieni d’oro i cesti portano

le portatrici, così avremo l’oro

in abbondanza. Le non iniziate

non oltre il Pritaneo della città

le addette al rito seguano la dea

se non hanno compiuto i sessant’anni

fino alla fine. Ma per chi è pesante,

per chi le mani verso Illidia tende,

per chi ha le doglie, per costoro basta

finché non hanno peso le ginocchia.

Darà loro Deò tutte le cose

in abbondanza e di poter venire

fino al suo tempio. Salve dea, conserva

questa città in concordia e opulenza.

Porta tutti i prodotti della terra,

ai buoi nutrimento, porta i frutti,

porta la spiga, dà la mietitura,

anche la pace entri, perché mieta

colui che arò. Propizia a me dimostrati

tre volte nelle suppliche invocata

grandemente potente tra le dee.

 

 

Poi entro e mi sbatte addosso questa furia che vuole uscire. La dea fanciullona nel suo panneggio concitato e aderente, bagnata o contro un vento impetuoso cavalca verso l’uscita da cui mi sono sporto. Impossibile, forte, imponente, una giovane donna rigogliosa avvolta di panni, una nike con una maniera ancor più spavalda. Dicono che sia stata modellata – il corpo in terracotta e la testa, le braccia ed un piede in marmo, da un prigioniero ateniese che doveva essere stato allievo di Fidia , dopo la sconfitta inflitta da Siracusa agli Ateniesi nella guerra del Peloponneso.

 

Impossibile da fotografare, impossibile da percepire in illustrazioni questa presenza così forte, la gamba slanciata sotto le pieghe, il piglio di una dea che sa correre e portarsi dietro le stagioni. Mi faccio inconsapevolmente da parte per farla passare, sembra debba uscire da dove sono appena entrato io, forse vuol tornare a Malibu. Fa impressione, si rimane attoniti, piccoli e ci si chiede come potessero avere questo senso del bello, qui, una cittadina lontana e remota.

 

Ma no, che lontana e remota, questo era un centro del mondo. Nelle fattezze della dea e nelle fattezze delle dee che si trovano nelle teche del museo è entrato un modo “siculo”, le facce femminili si sono arrotondate, hanno assunto una sensualità materna e al tempo stesso forte. Dicono che gli scultori di qua si ispirassero a canoni più locali, che i matrimoni misti abbondassero e che alla fine greci e siculi si mescolassero con un senso forte dell’appartenenza. Ma per me che rimango seduto a guardarla, quello che mi dà più fastidio è il non riuscire a farmene un’idea, di questa fanciulla. Questa non è una rappresentazione, è una presenza.

 

Estratto da un volume in uscita nei prossimi mesi da Il Mulino

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