Il Barbiere di Siviglia secondo De Angelis
All’inizio del Barbiere di Siviglia secondo Luigi De Angelis, Figaro commette un lapsus così fulmineo che rischia di passare inosservato, ma che è decisivo perché in certo modo indirizza tutto lo spettacolo, giocato com’è su un sofisticato, quasi surreale effetto di straniamento. Al momento di leggere al conte di Almaviva il biglietto che Rosina ha lasciato cadere dal balcone, invece di pronunciare le parole che sono nel libretto di Cesare Sterbini («Le vostre assidue premure hanno eccitata la mia curiosità…»), l’ilare factotum attacca con adeguata seriosità le parole della lettera di Giorgio Germont a Violetta Valery, letta da quest’ultima al terz’atto della Traviata, quand’è ormai morente per la tisi: «Teneste la promessa…». È solo un attimo, un flash: di fronte all’espressione sbalordita di Almaviva, Figaro si corregge immediatamente, ridendo di sé stesso, felice della battuta. La divagazione è il fulmineo “climax” di un rovesciamento del senso del comico nel capolavoro di Rossini, preparato in quella scena anche dalla precedente apparizione di un giovane operatore ecologico, che raccoglie diligentemente il foglietto finito per terra costringendo Figaro a recuperarlo non senza qualche ridicola difficoltà.
La presenza decisiva di una piccola società tutta di giovani, che incarnano il “barbaro gusto” dilagante nel “secolo corrotto” di cui invano si lagna don Bartolo, è la griffe caratteristica di questo spettacolo di De Angelis. Il fondatore della compagnia Fanny & Alexander, nome di riferimento nel teatro d’innovazione, è frequentatore di quello musicale quanto basta per delineare – oltre ai progetti nella prediletta contemporaneità – una sorta di sintomatico itinerario attraverso capolavori conclamati di ogni epoca. E basti dire che dal giugno scorso recano la sua firma un Ritorno di Ulisse in patria monteverdiano a Cremona, un Lohengrin nella città più wagneriana d’Italia, Bologna, e ora questo Barbiere, dimostrazione di quanto il benemerito tessuto connettivo dei Teatri di Tradizione possa essere l’incubatore di una nuova e intrigante visione della tradizione stessa. Si tratta, infatti, di una coproduzione fra il Sociale di Rovigo e l’Alighieri di Ravenna (dove l’ha seguito chi scrive), destinata a viaggiare anche nelle Marche e in Toscana.
I dichiarati riferimenti del regista, sia per quanto riguarda ciò che si vede (De Angelis firma anche le scene e le luci, mentre i costumi e la drammaturgia sono di Chiara Lagani), sia per il tratto interpretativo non sono peraltro legati all’attualità più stringente, ma a un maestro del Movimento Moderno nell’architettura come Le Corbusier e a un protagonista del cinema anni Sessanta come Jacques Tati, creatore di una comicità stralunata e surreale. Tolto di mezzo ogni riferimento a Siviglia, con annessi e connessi che del resto musicalmente l’opera non cura se non in allusioni più testuali che musicali, ciò che si vede a scena fissa è una sorta di unità abitativa modernista su due piani, aperta verso il proscenio, nella quale da un lato c’è la bottega del barbiere, dall’altro il salotto di don Bartolo e sopra la stanza di Rosina. Conseguente l’arredamento, assai elegante; immancabili le televisioni, che i protagonisti considerano quasi un rifugio ma che il pubblico può solo intuire.
Davanti a questo piccolo mondo in conflitto generazionale (Rosina, Figaro e Almaviva “contro” Bartolo e Basilio, con Berta a fare da trait-d’union: anziana per età ma giovane di spirito), sfilano muti a proscenio i giovani della Gen Z che in locandina sono definiti “abitanti della città”. Sono idealmente personaggi alla Tati: nei loro gesti la normalità diventa paradosso e la loro relazione con i protagonisti della commedia tocca spesso il nonsense. Si tratta di un manipolo di bravissimi attori (Giada Cerroni, Sofia Clemente, Maddalena Dal Maso, Francesco Dall’Occo, Andrea Gennaro ed Enrico Zelante) che di volta in volta fanno i rockettari, indossano i panni dello spazzino e della suora, dell’addetto al delivery (Rosina mangia la pizza che le è stata consegnata mentre duetta con Figaro) e del runner sempre più dipendente dalla sua corsa quotidiana (fino a comparire alla fine con una lunga barba), di un impiegatino e di un senzatetto che si prepara il giaciglio con il cartone. L’attualità di troppe cronache fa irruzione durante la pagina solo strumentale che introduce al finale ultimo dell’opera, il cosiddetto “Temporale”, quando due figuri si accaniscono contro di lui, prendendolo a calci e riducendolo a malpartito.
Intorno e a contatto con questa varia e attualissima umanità, la partita amorosa e generazionale fra il Conte di Almaviva e don Bartolo per impalmare la vivace Rosina, un po’ maliziosa e un po’ infantile, viene giocata con una linearità narrativa che è tra i punti di forza dello spettacolo e con una sottigliezza attoriale con pochi paragoni rispetto a quel che passa sui palcoscenici operistici. Tutti i cantanti sono infatti anche attori divertiti e divertenti, non solo nel dipanarsi della loro storia, ma nel rapporto con la varia umanità silente e variamente indaffarata che li circonda. De Angelis, poi, non rinuncia alle controscene che la scenografia rende quasi naturali, anche se rischiose. Così, quando Rosina si presenta nella sua celebre Cavatina “Una voce poco fa”, a pochi metri da lei, nella bottega del barbiere, Figaro e Berta si fumano una sigaretta o forse si fanno una bella canna: una scena grottesca che probabilmente attira maggiormente l’attenzione del pubblico, così come l’attira maggiormente il silenzioso e caricaturale duetto erotico che sempre Berta ingaggia con Fiorello al piano terra mentre sopra le loro teste si decide la sorte di Rosina nel terzetto con Figaro e Almaviva che conduce al Finale ultimo.
Dal punto di vista drammaturgico, nulla di implausibile. Entrambe le situazioni sono legate a quanto va dicendo, o cantando, Berta. Che starnutirà a più non posso per colpa del tabacco poche scene dopo la Cavatina, mentre il suo caricaturale amplesso appare come la realizzazione dell’aspirazione espressa nell’Aria appena eseguita, “Il vecchiotto cerca moglie”, quando confessa di sentire ancora l’ardore erotico. Quella del regista è quindi una forma di destrutturazione giocata sul filo del rasoio. Il rischio è far diventare la musica poco più di una colonna sonora, ma lo scopo, a ben vedere raggiunto, è quello di sottolineare la forza paradossale di una partitura nella quale la commedia borghese si ibrida con il “comico assoluto” già segnalato da Stendhal nell’Italiana in Algeri, che precede il Barbiere di tre anni. La sintesi fra i due elementi si ha nel sorridente finale (al quale purtroppo, manca in questa produzione l’arduo ma ormai abituale Rondò conclusivo di Almaviva, “Cessa di più resistere”), con gli abitanti della città tutti in scena muniti di tanti palloncini colorati.
Sul podio (e alla tastiera del fortepiano per i recitativi) è salito Giulio Cilona, giovane direttore italiano la cui carriera si sta svolgendo per ora quasi esclusivamente nei Paesi di lingua tedesca: è Kapellmeister all’Opera di Hannover, tra pochi mesi si trasferirà con analogo incarico alla Deutsche Oper di Berlino. Alla guida dell’orchestra regionale Filarmonia Veneta, apparsa equilibrata e precisa alla bisogna, con buoni colori fra gli strumenti a fiato e discreta duttilità fra gli archi, Cilona ha proposto del Barbiere di Siviglia una lettura nella quale la necessaria brillantezza era comunque commisurata alla vasta gamma espressiva richiesta dal capolavoro, con tempi efficaci (anche se talvolta bisognosi di un’elasticità un po’ meno metronomica), fraseggio curato e stilisticamente convincente, dinamiche flessibili e di spontanea evidenza teatrale.
Compagnia di canto encomiabile non solo per la citata ottima predisposizione scenica, ma per una qualità musicale e vocale in generale di tutto rispetto, soprattutto considerando la giovane età di quasi tutti i suoi componenti. Alessandro Luongo è stato un Figaro nel quale ironia, atletica immedesimazione nel ruolo e brillantezza vocale erano in impeccabile equilibrio in una linea di canto capace di restare dentro alle coordinate stilistiche senza perdere nulla delle possibilità espressive di una parte finalmente sottratta a schematismi ormai frusti. Sullo stesso piano, il Bartolo di Omar Montanari si è definito lontano dall’abusato cliché del vecchio baggiano alla fine gabbato, grazie a un fraseggio in cui recitativi e canto trovavano ciascuno un’adeguata ragione musicale, ben sostenuta da un timbro non troppo scuro ma di sicura qualità espressiva. Se Arturo Espinosa è stato un Basilio un po’ “leggero” rispetto alla parte di basso profondo che ha il suo clou nella celebre Aria della calunnia, Matteo Roma ha lasciato intendere di poter padroneggiare la difficile parte tenorile di Almaviva con l’eleganza e la freschezza necessarie alla parte; alla recita cui abbiamo assistito ha fatto annunciare prima dell’inizio un’indisposizione che ha probabilmente influito sulla nettezza dell’agilità e la precisione in acuto, senza tuttavia che questi problemi andassero troppo a scapito della tenuta complessiva. Quanto a Rosina, Mara Gaudenzi ne ha proposto una caratterizzazione di sorvegliata musicalità, elegante nella zona centrale della tessitura, svettante con facilità, forse un po’ meno “presente” nella zona grave della tessitura ma sicuramente convincente grazie a una linea di canto sempre controllata ed efficace.
Il ruolo di Fiorello (e del comandante delle guardie) è stato risolto da Francesco Toso con la necessaria ironia, mentre Giovanna Donadini, trent’anni di carriera, specialista riconosciuta e sempre apprezzata del ruolo di Berta, si è proposta in una trascinante caratterizzazione a tutto tondo dell’onnipresente serva rossiniana, cantando con l’attenzione e la precisione necessarie ad evitare ogni sospetto di banalità e recitando da vera prim’attrice – grazie allo spazio che la regia di De Angelis le ha affidato – in un riuscito mix di simpatia, ironia e sottigliezza gestuale.
Per lei e per tutti gli altri, il pubblico che affollava il teatro Alighieri ha decretato un successo senza ombre, nel quale è stato accomunato anche il Coro Lirico Veneto istruito da Flavia Bernardi, tenuto in questo spettacolo sempre fuori scena ma “presente” vocalmente quando era necessario.
Le fotografie sono di ©Valentina Zanaga.