Il dolore e le sue interpretazioni
Un angelo dalle fattezze umane piange accasciato sopra una grande urna marmorea. Dalla sua schiena partono due ali enormi, bellissime, che ricadono ai lati della tomba; sul braccio destro piegato è appoggiata la fronte, i capelli sono acconciati alla moda in uso nell’età napoleonica: raccolti con semplicità dietro la testa, una riga diritta nel mezzo e una frangetta corta sulla fronte. Il braccio sinistro cade abbandonato sul lato breve del sepolcro. Il colore dello sfondo, un grigio intenso, sfumato di nero e di blu, mette in risalto il chiarore del marmo creando un’atmosfera romantica e dark, iperrealisticamente post-moderna.
Questa immagine è un’allegoria coerente, ma anche leggermente fuorviante rispetto ai contenuti del libro cui fa da copertina, cioè l’ultimo saggio dell’antropologo e sociologo francese considerato uno dei maggiori esperti europei di antropologia del corpo David Le Breton, Esperienze del dolore, pubblicato da Raffaello Cortina Editore nella collana «Scienza e Idee» diretta da Giulio Giorello.
L’angelo umanissimo, che sta soffrendo intensamente, simboleggia l’impossibilità di separare le dimensioni fisica e spirituale del dolore. È questa l’idea portante del pensiero di Le Breton: non esiste separazione tra dolore del corpo e sofferenza dello spirito; siccome la persona è unità di corpo, spirito e mente, il dolore colpisce l’essere tutto intero. E, per la stessa ragione, poiché nessuno è uguale a un altro, ogni dolore è unico, e ognuno lo vive a modo suo. Le malattie psicosomatiche, che attraverso il corpo esprimono una sofferenza dello spirito, sono una prova dell’unitarietà e dell’interconnessione potente tra mente e corpo. D’altra parte, è ben noto come un dolore fisico, di qualunque natura – e Le Breton è davvero meticoloso nell’enumerarli –, possa provocare una sofferenza spirituale tanto grande da incidere sulla psiche e cambiare il carattere.
Analizzando la relazione tra dolore e sofferenza, “l’esperienza del dolore e il modo in cui è vissuto e avvertito dal singolo individuo, e così pure i comportamenti e le trasformazioni che esso adduce” (p. XI), Le Breton avverte che l’intensità della sofferenza provocata dal dolore è soggettiva, dipende dalla cultura, dalla sensibilità e, soprattutto, dal significato che ciascuno riesce ad attribuire al proprio dolore. Ci sono dolori, spiega, che ci si autoinfligge per ottundere una sofferenza più grande di quella provata dal corpo ferito, tagliuzzato o punto. Altri sono legati a riti d’iniziazione, di passaggio dalla giovinezza all’età adulta, e chi li patisce dà loro un senso positivo, il che ne riduce la sofferenza o la rende accettabile. Lo stesso avviene nel caso del parto: la volontà, il desiderio e la gioia di essere madre fa passare in secondo piano il dolore. Anche il dolore dello sportivo che porta il proprio corpo ai limiti delle sue possibilità, o quello di chi si sottopone a tatuaggi sia per abbellire il proprio corpo sia per ottenere un’identificazione di sé fortemente desiderata, comporta un tipo di sofferenza non percepito come esperienza negativa; c’è poi un dolore che è addirittura mezzo di godimento, come nel caso di pratiche sado-masochistiche.
Angelo del dolore, William Wetmore Story, Roma
Dopo avere analizzato un’ampia e varia casistica, Le Breton afferma, in modo abbastanza prevedibile, che comporta meno sofferenza e si sopporta meglio il dolore scelto volontariamente, al quale si attribuisce un significato molto importante e di cui si sa che sarà breve. La sofferenza più grande, invece, e da cui raramente ci si riprende del tutto, è provocata dalla tortura, dal male inflitto con sadismo; fatta subire con la volontà precisa di distruggere l’identità della vittima umiliandola fino al totale disprezzo di sé, la tortura è patita senza una speranza di via di scampo che non sia la morte. Se si sopravvive, ne esce meglio chi è riuscito a salvaguardare il senso di sé dando un significato alla propria resistenza, prosegue l’autore raccontando le esperienze di molti sopravvissuti.
Come quasi tutti quelli che trattano il tema inesauribile della sofferenza umana, anche Le Breton cita il mitico Giobbe perché, dice, ci “insegna che l’individuo soffre, più che del dolore, del significato che esso ha acquisito per lui”. Tuttavia, sostiene, il suo interesse è per la dimensione antropologica del testo biblico, non per quella religiosa o spirituale. Ed è per questo che l’immagine dell’angelo sulla copertina ci sembra, come dicevamo più sopra, in qualche modo fuorviante; essa, infatti, evoca la morte suggerendo una dimensione metafisica e universale del soffrire che porta con sé questioni filosofiche e religiose alle quali l’autore accenna soltanto: centrale è per lui il corpo, cui si può pensare anche come fosse una sorta di superficie su cui è possibile “scrivere” (e rimanda alla body art, ai tatuaggi, al piercing).
La lettura del saggio dell’antropologo francese sarebbe molto arricchita da quella di un altro libro che in un certo senso gli fa da contraltare e, pur senza esaurire il tema – al quale negli ultimi anni si sono dedicati studiosi di varie discipline e provenienza –, lo completa e lo approfondisce. Si tratta di un saggio del 1986, scritto dal filosofo Salvatore Natoli, intitolato L’esperienza del dolore, le forme del patire nella cultura occidentale, edito da Feltrinelli. Stampato nella prima edizione con una veste poco accattivante, fitto, a caratteri molto piccoli e senza spaziature è diventato, tuttavia, un testo imprescindibile nel suo ambito.
L’orizzonte culturale in cui Salvatore Natoli colloca la propria ricerca è quello delle due grandi visioni che hanno dato origine e forma al mondo occidentale: la cultura greca e quella ebraica, o meglio ebraico-cristiana dato che Natoli considera il cristianesimo una grande eresia ebraica. Poiché “l’analisi del dolore è soprattutto analisi del linguaggio e della visione che lo ospita – ha affermato in un intervento alla Cattedra del Confronto di Trento –, parlare del dolore nell’ambito di queste due grandi culture significa comprendere come l’Occidente ha interpretato, e in larga parte interpreta ancora, il suo soffrire”.
Giulia Riccobono, Piegato dal dolore
Alla figura archetipica dell’eroe tragico che nel modo in cui affronta il dolore dà prova della propria grandezza morale, si contrappone il grido di Giobbe, immagine biblica archetipica dell’uomo innocente che nel dolore misura la propria fede nella giustizia di Dio. Nella sofferenza egli urla a Dio, non contro Dio, tutta la sua pena, e chiede una risposta che dia senso e speranza al suo patire. La sofferenza dell’eroe suscita il rispetto e la compassione degli uomini e degli dei; a quella di Giobbe, Dio risponde rifiutando ogni spiegazione, eppure chiamandolo amico e offrendosi quale garante di un significato che a Giobbe non è dato comprendere, ma che la presenza di Dio gli assicura. Capirà, saprà, ma non ora. Tra questi due atteggiamenti si pone, terza possibilità, la saggezza del filosofo (molto simile a quella del saggio Gautama Siddharta, il primo Bhudda), bella, grande, ma poco consolante: il dolore insopportabile dura poco e porta presto al sollievo della morte.
Il patire dell’uomo, dice Natoli, resta sempre e comunque un mistero sacro e un paradosso, perché anche se tutti ne fanno esperienza esso resta indicibile e non può essere condiviso; nessuno, per quanto empatico, può davvero sentire il dolore di un altro. Ognuno soffre a modo suo, da solo. Ma la sofferenza, mentre ci chiude in noi stessi e ci ammutolisce, ci costringe – di nuovo un paradosso – a uscire da noi e a chiederci se abbia un senso l’umano soffrire e quale sia e quale significato abbia, se mai ce l’ha, lo stare al mondo.
Questi due libri, separati da quasi trenta anni, hanno titoli quasi identici: L’esperienza del dolore, quello di Natoli, e Esperienze del dolore, quello di Le Breton. La piccola diversità, data dall’uso dell’articolo e dal singolare nel primo e dall’assenza dell’articolo e dal plurale nel secondo, dice tutta la differenza e la complementarietà tra i due testi. Nel primo il tema della sofferenza umana s’iscrive in una riflessione filosofica in cui si esprime una ricerca globale di significato che dia ragione dell’esistenza del mondo.
Nel secondo, il lettore entra nella dimensione psicologica di esperienze individuali attraverso le quali l’autore procede, in modo induttivo, da molti e diversi casi concreti – alcuni duri da leggere per la crudezza delle azioni che descrivono – per dimostrare la tesi che “il corpo è percepito dai nostri contemporanei come una specie di materia grezza” da disegnare, tatuare, incidere come fosse una superficie su cui scrivere di se stessi, e che gli altri possano leggere con un solo sguardo.