Il ponte delle spie di Steven Spielberg

Gilles Deleuze diceva che il cinema moderno è stato in grado di farci credere ancora una volta in questo mondo. Credere “all’amore o alla vita, credervi come all’impossibile, all’impensabile”. Quando il legame tra l’uomo e il mondo sembrava essersi rotto, il cinema è stato invece capace di farci vedere come “l’uomo stesso non [sia] un mondo diverso da quello in cui sente l’intollerabile e si sente incastrato”: riconoscere di farne parte è allora una condizione necessaria per ogni possibile trasformazione di sé e di ciò che ci sta attorno.

 

È evidente come questa sensibilità cozzi con il cinismo corrente, che invece sembra incapace di uscire da quell’eterno scarto parodico, ironico, auto-distanziante nel quale pare che siamo tutti intrappolati. Quello che non ha fatto il post-moderno l’hanno fatto i social network, che hanno definitivamente azzerato la distanza tra l’oggetto e la propria narrazione, tra l’evento e la sua parodia, tra la realtà e la sua rappresentazione. Un regista intelligente come Noah Baumbach è da anni che riflette proprio su questo tema: com’è che la vita non viene più vissuta dal “di dentro” ma sempre dal “di fuori”? Sempre tramite la distanza creata da un post su Facebook, un romanzo da scrivere, una citazione di una citazione, una parodia e poi una parodia di una parodia? Com’è che tutt’a un tratto abbiamo preso a “vederci vivere” e non più a “vivere”? Parrebbe allora che la frase di Deleuze appartenga davvero a un’altra era geologica, se è vero che l’atto di credere – dal fanatismo religioso alla politica rivoluzionaria – è diventato non solo il grande tabù ma anche il grande nemico dell’ideologia contemporanea.

 

In questo contesto Steven Spielberg, uno che al cinema e al suo potere di creare un’immagine alla quale credere senza se e senza ma ha dedicato tutta la sua vita, non può che risultare fastidiosamente inattuale. E Il ponte delle spie infatti – soprattutto nella prima parte – si costituisce subito come un piccolo trattato sulla sovversività dell’arte di credere; quando colui che decide di credere rischia per questo di essere marginalizzato e ostracizzato dalla comunità in cui vive.

 

La storia è nota: siamo nel 1957 in piena guerra fredda, John B. Donovan, piccolo avvocato di cause assicurative che vive a Brooklyn (il classico middle-man del cinema spielberghiano) viene scelto suo malgrado per difendere in un processo una spia sovietica che è appena stata catturata sul territorio americano e che nessun avvocato vuole difendere. Lui, che pare tra l’ingenuo e il tontolotto (a metà tra il Jimmy Stewart di Mr. Smith va a Washington e Forrest Gump), prende molto sul serio la sua missione e tenta di fare il suo lavoro il meglio possibile per difendere il suo cliente. Tutti i personaggi che stanno attorno a Donovan, dai membri della CIA che lo contattano segretamente, agli avvocati suoi colleghi, allo stesso giudice del processo, non riescono a capacitarsi di come lui voglia davvero prendere sul serio il suo ruolo. Non riesce a capire che le cose non vanno prese così alla lettera? La loro morale è: “Ok, siamo americani, quindi dobbiamo far vedere a tutti che abbiamo un sistema penale equo. Ma appunto, dobbiamo farlo vedere, non dobbiamo farlo veramente. Questa spia russa va messa al patibolo no matter what”.

 

Perché Donovan prende così sul serio il suo ruolo? Perché è troppo stupido per riuscire a capire quali sono le regole implicite che si nascondono dietro alle leggi. Da sempre la legge ha un suo testo esplicito e una faccia implicita, denegata e nascosta. Lo sa bene la cultura cattolica che ha sempre lasciato che in filigrana tra le maglie della legge ci fosse sempre spazio per la trasgressione, perché è sempre stata convinta che legge e trasgressione – o come direbbe Lacan, legge e desiderio di trasgressione – fossero inevitabilmente annodate l’una all’altra. Le cose vanno fatte così, però… Questo non è per una sorta di “mollezza” morale dei paesi cattolici, ma per una ragione di struttura: perché l’enunciato della legge, che è universale, viene sempre enunciato da qualcuno in particolare (un giudice, un padre, un Presidente della Repubblica etc.). E allora “perché proprio lui mi sta dicendo questo? Non è che quello che lui dice essere una legge universale è solo invece il suo tornaconto personale? Non è che dietro alle legge universale c’è invece semplicemente l’interesse privato di qualcuno?”

 

Donovan, esattamente come Spielberg, non sopporta il fatto che dietro al testo della legge ci siano delle intenzioni ambigue, denegate, nascoste (“Suvvia, Donovan, facciamo finta che non stiamo avendo questa conversazione, ma mi dica se la nostra spia russa ha già parlato”). Lui, da ingenuo spielberghiano, vede solo quello che la legge dice e vuole essere fedele a quello. È naïf, ma per questo, spielberghianamente, è più intelligente degli altri: perché per Spielberg l’ingenuità – coloro che proprio come i bambini prendono le cose alla lettera – è l’unica vera questione morale dirimente. Lo si capisce da quello scambio di battute fulminante e rivelatore che Donovan ha con un agente della CIA in cui gli dice: “io sono di origine irlandese, lei è di origine tedesca, ma che cosa ci rende entrambi americani? Solo una cosa, il libro della regole [ndr: cioè, la costituzione]”.

 

È credere alla costituzione, alla sua lettera, l’unica cosa che rende americani. Spielberg infatti ha lo stesso atteggiamento con l’America che ha con Israele, e non è un caso che si tratti degli unici due paesi al mondo che non hanno un popolo già bell’e fatto ma una missione, religiosa o emancipativa da costruire (e non a caso, due paesi che per “non avere un popolo” hanno avuto bisogno di fare “terra bruciata” di coloro che prima vivevano in quelle terre). La fedeltà alla costituzione, non è data dall’essere parte di un popolo (“lei è tedesco, io sono irlandese”), ma è una questione morale. È una scelta. Scegliere di non seguire le regole vuol dire allora, per l’ideologia spielberghiana, decidere di stare dalla parte sbagliata della storia.

 

La prima parte del film allora, quella della naïveté emancipativa dell’essenza dell’identità americana (quella di Lincoln per intenderci), non può che essere continuamente esposta al fatto che qualcuno quelle regole non le segue. La seconda parte del film prende allora una svolta a 180 gradi. Un aereo americano in perlustrazione viene abbattuto dai russi. Il pilota viene fatto prigioniero, e le autorità statunitensi cercano di scambiarlo con la spia difesa da Donovan. Teatro dello scambio dovrà essere una Berlino in procinto di essere divisa in due dal muro allora in costruzione. C’è però un problema: poco prima, un giovane studioso americano viene trattenuto per un incidente a Berlino Est, e bisogna trovare il modo di liberare anche lui.

 

Con lo spostarsi dell’azione nella capitale tedesca, si direbbe che Il ponte delle spie finisca, e abbia invece inizio un secondo film. A colpire è soprattutto che, a dispetto della neve abbondante, dappertutto sembra di essere nell’assolato mercato egiziano de I predatori dell’arca perduta. Perché russi e tedeschi dell’Est, dai pittoreschi parenti della spia ai ferocissimi agenti sovietici (quasi comico è il contrasto con i guanti di velluto usati dagli americani), di fatto sono tutti riproposizioni dell’arabo che passa secondi e secondi ad agitare la scimitarra con vistoso, sbracato e immotivato zelo, e che un impassibile Indiana Jones abbatte con un singolo colpo di pistola. L’“altro”, insomma, se si rifiuta di inchinarsi al codice della Legge (come invece a proprio modo fa la spia “buona” difesa da Donovan) è “altro” per davvero, e non c’è nessun margine possibile, nessun ponte che sia possibile gettare per farcelo sembrare più vicino.

 

Nell’ottica di Spielberg, chi si pone al di fuori della Legge nella sua purezza di lettera sacra non ha diritto ad alcun riguardo, e anzi ad alcuna pietà. Il punto, però, è soprattutto un altro: la purezza stessa della Legge, per potere davvero porsi come tale, ha bisogno di un nemico “impuro” che non contempli la sacralità della sua lettera. Non basta, quindi, fare un film “alla Frank Capra” che celebri con il cuore in mano la grandezza degli ideali della Costituzione. Affinché questo film possa compiersi, ci vuole un secondo film (la seconda parte berlinese), in cui il nemico viene affrontato e battuto a casa sua. Non è un caso se Spielberg inizia il suo film con la spia che ci guarda negli occhi, e con la macchina da presa che indietreggia fino a scoprire che a guardarci è la sua immagine riflessa su uno specchio, che da pittore dilettante la spia sta utilizzando per realizzare il suo autoritratto – il quale però, nel corso del film, “diventa” un ritratto di Donovan che a questi viene regalato, nel finale, per ringraziarlo della sua rettitudine. Se da un lato l’avvocato è un’incarnazione evidente dell’ideale spielberghiano, d’altra parte il regista ci dice anche che solo attraverso l’Altro l’autoritratto può compiersi.

 

Come sapeva bene il Kafka di Sciacalli e Arabi, straordinario frammento del 1917 che racchiude sinteticamente decenni di conflitto israelo-palestinese a venire, di nulla la purezza della Legge ha bisogno, quanto dell’impurità. E infatti, a ben guardare, lo stesso Donovan decide di difendere la spia non solo per idealismo legalistico, ma anche in virtù di uno schietto pragmatismo che nulla ha a che vedere con la purezza assoluta della Legge, di cui pure è indefettibile alfiere. Lo dice chiaro e tondo da subito: che succede se i nemici fanno prigioniero uno dei nostri, e c’è da scambiare qualcuno? La spia insomma va conservata, perché può venire utile. Nulla del genere, naturalmente, è prescritto dalla legge. Ma il film fa di tutto per assecondare questa doppiezza, incorporandola nella propria stessa costruzione. Proprio mentre, nella prima parte, illustra l’operato di Donovan sposandone in pieno lo zelo legalista, ci mostra in parallelo la storia dell’anonimo pilota che successivamente verrà abbattuto, giustificando a posteriori la “scommessa” dell’avvocato. Come dire: la purezza “vuota” e disincarnata della Legge contiene a priori la contingenza impura, perché concreta, che la giustifica contraddicendola.

 

Solo pochi anni fa, Spielberg ci ha consegnato un Lincoln che faceva di tutto per fare svanire la differenza stessa tra il presidente dal leggendario idealismo illuminato, e il furbissimo lobbysta che si spende e, soprattutto, fa spendere gli altri in un’indefessa attività di “cucina” politica, di paziente costruzione e gestione delle alleanze. Anche Il ponte delle spie tenta di raggiungere quel punto in cui la distinzione stessa tra idealismo “cieco” e “basso” pragmatismo viene a cadere. A Berlino, Donovan scopre di essere non solo il difensore senza macchia della Legge, ma anche un vero e proprio mercante, capace di negoziare con eccezionale scaltrezza e con nessuno scrupolo. Del resto, se il nemico non merita nessun riguardo, il transito dall’idealismo al pragmatismo è automaticamente giustificato anche sul piano stesso della morale. E infatti proprio Donovan, proprio il paladino della Legge nella sua vuota e sacra letteralità, gioca costantemente su due tavoli (i russi, ma anche i tedeschi), anche all’insaputa della controparte, pur di portare a casa la vittoria. Il film in cui vengono celebrati con trasporto emotivo i valori dell’America e della sua Costituzione è possibile solo grazie a un altro film ad esso incorporato: l’idealismo è possibile solo negandosi. Nella prima parte, Spielberg fa di tutto per strapparci un applauso commosso, quando la spia si prodiga nell’elogio dello standing man, di colui che sa resistere agli abusi del potere rimanendo immobile sulle proprie posizioni. L’happy end, tuttavia, ci mostra Donovan in posizione tutt’altro che standing: Il ponte delle spie si chiude con lui spaparanzato sul letto, immerso in un sonno profondo.

 

Ironia? Certamente; del resto, la sceneggiatura è dei fratelli Coen, tra i massimi sacerdoti di quella disillusione cinica che oggi va tanto di moda. Il film, però, dall’ironia si tiene più lontano che può, prendendo la propria materia in sistematico contropiede. La sceneggiatura è strapiena di contraddizioni, “toppe” messe lì giusto per far quadrare i conti, discontinuità di ogni genere. In senso stretto, è un film che “non sta insieme” – e proprio questo è il suo pregio maggiore. I Coen, o chi per loro, avrebbero approcciato la sua inconsistenza nel modo più facile, ovvero attraverso una comoda distanza ironica, sottolineandone l’intrinseca assurdità. Spielberg, al contrario, concepisce la sua regia ancora come il tapis roulant che caratterizzava, ad esempio, le avventure di Indiana Jones: un’inesorabile macchina della continuità narrativa che trasporta lo spettatore senza posa da un punto A ad un punto B, a un punto C e così via. E del resto le primissime scene, quasi interamente mute, culminanti nella cattura della spia, sono un autentico saggio di azione cinematografica pura. Spielberg vuole insomma che lo spettatore creda in un racconto estremamente problematico e frastagliato, come se esso fosse in realtà un blocco moralmente, ideologicamente e formalmente compatto. Al cinismo, Spielberg non oppone il semplice credere, ma un credere nonostante tutto, nel quale il “credere” e il “nonostante tutto” si alimentano l’un l’altro. La tortuosità del racconto non ne ostacola l’assunto di base, ma viene anzi giocata come uno stimolo a crederci ancora di più.

 

Spielberg vuole insomma che alle sue storie, e ai valori a stelle e strisce che veicola, lo spettatore ci creda eccome. Ma sembrerebbe anche che voglia suscitare la domanda fatidica: “Dove esattamente, e in che modo, questi valori hanno finito per ribaltarsi nel proprio contrario?”. Soprattutto, come accadeva assai esplicitamente in Munich, vuole esporre lo spettatore, trascinato nel vortice inarrestabile del racconto, alla vertigine dell’assoluta irreperibilità di una risposta a tale interrogativo.

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