Il saluto di Faussone ai miei studenti

27 Agosto 2014

Ultime settimane di scuola con il pensiero agli esami di maturità. Nella parte conclusiva del programma affrontiamo la storia d’Italia del secondo dopoguerra: dalla nascita della Repubblica agli anni del terrorismo. Parallelamente propongo un percorso fra gli scrittori italiani che i manuali scolastici inseriscono nel capitolo “Letteratura e industria”. Decido di fotocopiare parte delle mie ricerche di un anno fa, quando preparavo il materiale per il documentario La zuppa del demonio che verrà presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il 2 settembre.


A lavoro iniziato, mi rendo conto di aver accompagnato i ragazzi della classe quinta - che sto per salutare - fin dalla prima, settembre 2009, fin da quando ha cominciato a circolare lo spettro dell’attuale crisi economica e occupazionale. Insomma, questi studenti sono cresciuti negli ultimi cinque anni bombardati quotidianamente da notizie, diagnosi, statistiche, commenti sulla crisi.


Non solo, le famiglie di molti di loro hanno dovuto farci i conti direttamente: padri e fratelli hanno perso il lavoro, sono rimasti a casa mesi in cassa integrazione, si trovano adesso in mobilità… In effetti, nei due viaggi organizzati negli ultimi due anni, prima a Roma e poi a Londra, avevamo sempre fatto fatica a raggiungere il numero minimo di adesioni, e la stessa cosa si ripeteva in occasione delle attività integrative che richiedevano contributi alle famiglie..


Io stesso, peraltro, dovevo averci messo del mio in questi anni, tutte le volte che ricordavo loro quanto avrebbe contato una formazione seria in un mercato del lavoro tanto difficile. Mattia, quelle mattine, mi provocava sempre: col nostro diploma di geometra, profe, cosa vuole che si possa trovare? avremmo fatto meglio a cercarci un lavoro in cantiere a sedici anni, come i nostri compagni bocciati… Allora Luisa gli dava sulla voce: ma se stanno chiudendo tutti i cantieri? cosa dici? Gli altri tacevano, alcuni pensavano ai problemi di casa e guardavano da un’altra parte.

 

Così, alle prese con gli anni del “Miracolo economico”, propongo alcune pagine di Una nuvola d’ira, quelle in cui Arpino racconta degli operai torinesi che la mattina della domenica si affollavano presso le fontanelle sotto i platani dei viali e si dedicavano a lavare la Seicento comprata a rate, oppure si chinavano sotto il cofano motore a provare la tenuta del filo dell’acceleratore che rispondeva e “cantava come una sposa”…


Volevo trasmettere loro l’immagine positiva degli italiani di allora, ottimisti e infaticabili, e così ho letto anche le pagine di Tempi stretti, in cui Ottieri celebra l’attitudine allo studio delle “piccole donne di Milano, le stenodattilo, che imparano il francese e l’inglese. Le lingue, le lingue, che meta sociale. La tenacissima volontà di studiare, di migliorare, riempie e soddisfa il sangue di questa città, piena di eroi civili, che lavorano, fanno le scuole serali, si laureano lavorando”. Le scuole serali, ragazzi, laurearsi lavorando: vi rendete conto?

 

Siamo a giugno, ultimi giorni di scuola, ho tenuto in serbo per il gran finale La chiave a stella di Primo Levi, autore che hanno imparato a conoscere nel tempo ma per altri motivi. Racconto loro dei viaggi di Libertino Faussone, dei cantieri e del lavoro italiano nel mondo. Insisto su un passo in particolare, questo: “il termine ‘libertà’ ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”. Mi sembra ci sia nascosto un messaggio importante, so quanto peso diano i diciannovenni alla parola libertà. Cerco di spiegarmi meglio: quando sarete fuori di qui, qualunque cosa farete, ricordate di imparare a fare il vostro lavoro meglio degli altri, nessuno potrà rompervi le palle se sarete padroni del vostro mestiere, non ci saranno capiufficio, dirigenti o manager che potranno mettervi in croce, e sarete liberi dentro, per quanto lo si possa essere quando si lavora. E se sarete fortunati, capirete la gioia di Faussone nel tornare in cantiere, a lavoro finito, magari la domenica, per godersi la vista dell’opera ben fatta.


Credo di averli toccati, aggiungo che questa per loro è la mia ultima lezione, è così che li voglio salutare. Luca e altri hanno gli occhi     un po’ lucidi, Mattia mi sorride ma non rinuncia a dire la sua: sarà già bello superare l’esame, mi fa, altro che imparare bene il mestiere... La battuta riscuote successo, hanno tutti ancora paura dell’esame, la sottile commozione di poco prima si scioglie.

 

Un mese dopo torno a scuola a leggere i tabelloni delle commissioni d’esame, tiro un sospiro di sollievo, ce l’hanno fatta tutti, anche se non proprio brillantemente. Mattia è uscito con sessanta.

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