Il sapere della melanconia

22 Maggio 2024

Perché “melencolia”? Perché non “melancholia”, come la più naturale traslitterazione dal greco μελαγχολία suggerirebbe? David Finkelstein, fisico americano autore di Manifesto della melanconia (trad. it. di S. Ferraresi, con una prefazione di C. Rovelli, Adelphi 2024), è piuttosto assertivo: il titolo della celeberrima incisione di Dürer è un anagramma, metodo in voga fin dal medioevo sia per proteggere la “proprietà intellettuale” di scienziati e inventori che per occultare messaggi, cifrandoli in miscugli di lettere il cui significato apparente è diverso da quello reale. “Melencolia” sta per “limen caelo”. Il limen è la soglia: «ma limen, a seconda del contesto, significa anche cancello, porta, architrave, muri, casa, dimora, passaggio perimetrale e limite» (p. 31). Temi ricorrenti in Dürer, a partire dal suo nome. Il padre era originario della cittadina ungherese di Ajtós (Aytó in ungherese significa “porta”, ci assicura Finkelstein riprendendo Panofsky) e, trasferitosi a Norimberga a ventott’anni prese il cognome Thürer, da Tür, “porta”. Il “limen” nel titolo dell’incisione potrebbe essere un rimando al nome del suo autore. Ma “caelo”? Il bulino, lo strumento della tecnica dell’incisione, in latino è detto “caelum”. Lo striscione che reca il titolo dell’opera (l’interno delle ali di un demone volante) ripropone in altra veste i motivi dello stemma di Dürer: ciò che nello stemma è raffigurato, il nome e l’attività di Dürer, nel titolo dell’incisione è messo per iscritto.

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Resta da spiegare il perché del numero “I”. Un’ipotesi è che l’incisione sia la prima di una trilogia di cui le numero II e III sono andate perdute. Già Panofsky complicava il quadro: “I” potrebbe implicare «un’ideale scala di valori anziché una vera e propria serie di stampe» (Panofsky 2006, p. 219). Come è noto, l’interpretazione di Panofsky (su «Doppiozero» ne ha scritto Claudio Franzoni) si appellava alla teoria degli umori di Ippocrate, secondo cui l’umore melanconico è proprio di coloro in cui prevale la bile nera, mélaina cholè. Stabilito il legame tra l’opera di Dürer e la teoria umorale, e stabilita la “consonanza” tra l’umore melanconico e i vari pianeti-divinità, l’“I” indicherebbe il primo dei tre generi di genialità che operano sotto l’influenza di Saturno (l’antico dio della terra): la genialità immaginativa propria degli artisti, distinta dalla ragione discorsiva degli scienziati e dei politici e dalla mente intuitiva dei teologi. Le cose stanno in modo ancora diverso secondo Finkelstein: Melencolia § I è sì una di tre opere, ma le altre che compongono la trilogia non sono affatto andate perdute: sono le altrettanto celebri Il cavaliere, la morte e il diavolo e San Girolamo nello studio. La triade neoplatonica di filosofia naturale, politica e teologica, conosciuta da Dürer per il tramite del De occulta philosophia di Cornelio Agrippa, è completa. Panofky aveva già ampiamente accertato l’influenza di Agrippa sull’arte di Dürer e, seppur con alcuni distinguo, Finkelstein la ribadisce. Melencholia § I diventa così la rappresentazione della soglia del sapere, il primo gradino di un itinerario che dalla conoscenza del mondo naturale porta alla riflessione sulle cose ultime.

L’anagramma del titolo è solo uno dei ventinove simboli individuati nell’opera e decodificati da Finkelstein, con richiami costanti, oltre che ai lavori di Panofsky, anche a quelli di Frances Yates, autrice tra l’altro di Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Nell’incisione di Dürer tutto, veramente tutto, è simbolo. E non soltanto ciò che si vede, ma anche ciò che rimane sub-limen, al di qua della “soglia” della percezione. “I fantasmi”, “gli amici”, “l’Arabo” sono alcuni dei soprannomi assegnati da Finkelstein ai volti nascosti da Dürer tra le pieghe della veste dell’angelo, o nelle robuste braccia del putto. Volti fantasmatici, il più evidente dei quali è inciso sulla faccia più esposta dell’ottaedro e rispetto a cui Finkelstein non ha dubbi: è il volto ormai anziano della madre di Dürer, impietosamente ritratto con lineamenti scheletrici perché provato dall’età e dai numerosi parti (Dürer fu il terzo di diciotto figli).

 

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Finkelstein accompagna il lettore nel labirinto di simboli, allegorie, riferimenti impliciti che traboccano da ogni traccia di bulino che compone l’opera, compresa quella traccia che rende indecifrabile l’espressione dell’angelo e che potrebbe essere un omaggio alla Gioconda. A questo proposito, Finkelstein sottolinea come il volto dell’angelo non tradisca depressione, tristezza né apatia: gli occhi non sono rivolti a terra, ma guardano in alto. Si tratta piuttosto della malinconia creativa caratteristica degli artisti, la lucida perplessità che già Panofsky riconosceva in alcuni motivi peculiari della figura ritratta da Dürer. La testa reclina e la mano chiusa a pugno su cui poggia la guancia sono simboli non solo di dolore e fatica, ma anche di pensiero e meditazione. Ma sta veramente sorridendo? Non possiamo vederlo, così come non possiamo vedere il campanaro a cui accenna la corda semitesa della campana appesa al muro della casa (anche su questo pochi dubbi: il campanaro è Dio). Una casa senza porte («quando l’uomo delle porte disegna la casa di Dio senza porta, sta probabilmente asserendo qualcosa», p.83), di cui possiamo forse intravedere l’interno ma a cui non possiamo avere completo accesso. Avvertimenti di Dürer all’uomo del suo tempo, e avvertimenti di Finkelstein a noi che restiamo affascinati dall’incisione: tutto è simbolo, ma niente è enigma. La conoscenza umana ha dei limiti strutturali al di là dei quali non può spingersi. Il senso dell’interpretazione di Finkelstein muove dunque in direzione contraria rispetto all’impressione che il lettore del suo libro può ricavarne. Se l’impressione è infatti che tutto, in Melancolia § I, sia spiegabile, riconducibile a un significato determinato e univoco, vero è l’opposto: «L’aspetto meno ambiguo dell’incisione è la sua ambiguità» (p. 98). Ogni spiegazione del simbolo rimanda al suo residuo inaccessibile; la prospettiva da cui osserviamo il reale ce ne fa cogliere alcuni aspetti e immancabilmente ne nasconde altri. Da qui anche la decisione, quanto mai opportuna, di affiancare allo scritto su Melencholia § I un breve saggio su Vuoto e relatività, in cui leggiamo tra l’altro: «Poiché illuminare il sistema lo perturba inevitabilmente, visualizzare completamente qualcosa «come è» è autocontraddittorio. «Come è» significa senza intervento esterno, nel qual caso il sistema sta da solo al buio, non percepito» (p. 137), o ancora: «percepire qualsiasi entità è operazionalmente inseparabile dal modificare quell’entità […] e cos’è quest’entità chiamata Natura? Dove mi colloco per vederla tutta nitidamente?» (p. 150). Melencolia § I rendeva palpabile proprio la miopia costitutiva del nostro sguardo sul mondo; la verità di Dürer non è poi tanto diversa da quella di Heisenberg o Bohr.

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Torniamo al titolo dell’incisione: abbiamo spiegato il significato di “melencolia” e il perché di “I”. Possiamo davvero pensare che il segno “§” che li separa non sia simbolo di nulla?  Due “S” sovrapposte. Guardate il particolare del quadrato magico e osservate il primo numero della seconda serie. Un “5” rovesciato (che sovrasta un “6” che sembra cancellato) richiama nuovamente la lettera “S”. È l’iniziale di “salus”? Scendete di una casella. L’estremità inferiore del “9” presenta una curvatura verso l’alto. La testa di un serpente? Scendete all’ultima serie. I due numeri centrali formano la data di composizione dell’opera, 1514. Alle estremità laterali, un “4” e un “1”. In termini alfabetici, 1=A, 4=D. “Anno Domini” o “Albrecht Dürer”? Spostate lo sguardo. Perché il cane? E la macina su cui siede il putto? La bilancia sulla facciata laterale della casa? Il compasso impugnato malamente? Perché una scala appoggiata all’edificio? Del resto eravamo stati avvisati: non possiamo vedere tutto.

Nota di lettura

David Finkelstein, Manifesto della melanconia, trad. it. di S. Ferraresi, con una prefazione di C. Rovelli, Adelphi 2024.

R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1983.

E. Panofsky, La vita e l’opera di Albrecht Dürer, trad. it. di C. Basso, Abscondita, Milano 2006.

E. Panofsky, F. Saxl, La «Melencolia I» di Dürer. Una ricerca storica sulle fonti e i tipi figurativi, a cura di E. De Vito, Quodlibet, Macerata 2018. 

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