Speciale

Economia / Il virus dell’incertezza

15 Marzo 2020

Quando il Governo ha deciso di chiudere l’Italia tutti hanno finalmente capito che l’epidemia di coronavirus non è soltanto un problema sanitario. È qualcosa di molto più complesso, che impone grandi responsabilità per i cittadini e per coloro che hanno il compito di guidarli. Le scelte individuali – se andare in ufficio o prendere il tram – non hanno conseguenze soltanto su chi le compie, ma su tutta la collettività. Il peso più difficile è sulle spalle di sindaci, governatori e ministri, che devono prendere decisioni dalle conseguenze enormi, in condizioni di estrema incertezza. Neppure chi possiede più dati – le commissioni di esperti alle quali si affidano i politici – è in grado di individuare con sicurezza la linea di intervento migliore. I modelli matematici possono tentare di prevedere il tasso di diffusione del virus facendo ipotesi, per esempio assumendo che questa epidemia sia simile ad altre studiate in passato. Ma anche se esistessero modelli matematici affidabili, essi non potrebbero decidere al posto nostro.

 

Come decidere dunque? Una scelta razionale si basa su due pilastri essenziali: una valutazione delle possibili conseguenze, e la loro probabilità. Questi due aspetti vengono spesso confusi quando si parla di ‘rischio’. Valutare il rischio in realtà vuol dire porsi due domande: quanto è probabile un evento, e quanto è dannoso?

 

Non sappiamo esattamente quante vittime potrebbe fare il coronavirus. E non sappiamo neppure quali interventi siano efficaci per fermarne la diffusione. Gli esperti ammettono che l’impatto della chiusura delle scuole, per esempio, non è per nulla chiaro. Le stime basate sul passato suggeriscono che potrebbe ridurre i contagi del 50%, oppure soltanto del 20%, ma che potrebbe anche non avere alcun effetto significativo.

 

Una scelta razionale non richiede certezza, ovviamente, altrimenti non usciremmo neppure di casa per andare a fare la spesa. Ma molti rischi possono essere stimati in modo abbastanza accurato: in Italia muoiono circa 10 persone al giorno in incidenti stradali, e in generale riteniamo che il vantaggio di muoverci rapidamente valga un rischio così piccolo. Ma non possediamo dati statistici di questo genere, nel caso del coronavirus. Abbiamo a che fare con un’incertezza radicale.

 

 

L’incertezza radicale porta a ragionare in questo modo: dobbiamo fare tutto il possibile per fermare il contagio, a qualsiasi costo. È un ragionamento plausibile perché ci sono molte vite umane in gioco. Vita e salute sono ‘valori sacri’, e qualsiasi misura volta a minimizzare l’impatto del virus appare legittima. Anche chiudere l’Italia.

 

Gli esperti di decisione hanno dato un nome a questo criterio di scelta: lo chiamano maxi-min, ovvero ‘scegli l’opzione che permette di massimizzare il risultato minimo’. ‘Ragiona come se dovesse verificarsi la peggiore delle ipotesi’. I valori sacri come la vita o la salute ci aiutano a usare il maxi-min, perché fanno passare in secondo piano l’incertezza. Lo stesso ragionamento fu utilizzato nel diciassettesimo secolo dal filosofo e matematico Blaise Pascal, alle prese con un’incertezza davvero radicale – l’ipotesi dell’esistenza di Dio. Non possiamo assegnare una probabilità all’esistenza di Dio, notò Pascal. Ma possiamo dire che è razionale credere in Dio perché, se esistesse, il danno per il miscredente sarebbe infinito.

 

I valori sacri tuttavia devono essere maneggiati con cura. In particolare, non devono farci dimenticare gli effetti collaterali delle nostre azioni. Oggi la preoccupazione maggiore riguarda gli effetti economici che gli interventi di contenimento del virus potrebbero provocare. Ci sono state oscillazioni e indecisioni comprensibili, fra coloro che hanno la responsabilità di decidere per conto nostro. ‘Milano non si ferma’ è stato uno slogan infelice? Il governatore del Veneto non doveva criticare il decreto ‘Io resto a casa’? È sbagliato mettere economia e salute sullo stesso piano?

 

È importante capire che considerazioni economiche e mediche sono interdipendenti. Le politiche sanitarie hanno effetti sull’economia, e i fenomeni economici hanno un impatto sulla salute delle persone. Quando la Grecia sprofondò nella crisi economica del 2008, il Pil crollò e la spesa pubblica diminuì di quasi un terzo. Gli studi statistici hanno rilevato un aumento significativo della mortalità negli anni successivi. Le stime più attendibili parlano di due-tremila vite perdute ogni anno, per molti anni. Le vittime delle crisi economiche sono per lo più le stesse del virus: gli anziani e i malati, i disoccupati, i poveri che non possono permettersi cure adeguate.

 

L’Italia è grande sei volte la Grecia. Una crisi di dimensioni analoghe potrebbe uccidere decine di migliaia di persone. È una contabilità cinica e sgradevole. Ma ci ricorda che il coronavirus non è soltanto un problema medico. O meglio, che le vie della salute, del benessere, della vita umana non passano soltanto dall’epidemiologia. Per salvare il numero più alto di vite umane, dobbiamo allargare lo sguardo il più possibile.

 

Mentre i media ci bombardano di cifre sul numero dei contagiati, è già necessario pensare al dopo. In particolare, oggi siamo costretti a chiederci quale sarebbe l’impatto di un crollo del Pil italiano nei prossimi mesi. Anche in questo caso abbiamo a che fare con l’incertezza radicale. A differenza della crisi del 2008, che era partita dal settore finanziario, questa sarebbe innescata da uno shock simultaneo dell’offerta e della domanda. Sappiamo che la salute delle nostre finanze è precaria, quindi le conseguenze potrebbero essere molto serie. Abbiamo buone ragioni per credere che gli interventi monetari, come un ulteriore riduzione dei tassi di interesse, sarebbero inutili o controproducenti. La priorità è impedire che falliscano migliaia di imprese e di esercizi commerciali. Gli appelli all’Europa di questi giorni non devono distrarci: al netto di qualche deroga al patto di stabilità, non possiamo attenderci interventi di salvataggio straordinario, specialmente se il virus dovesse diffondersi in altri paesi europei. Lo Stato dovrà fare qualcosa, ma di fatto questo significa che noi cittadini dovremo fare la nostra parte. Ci stiamo comportando bene in questi giorni, auguriamoci di sapere anche sacrificarci.

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