Contro l’analfabetismo economico (parte terza) / Miti e leggende dell’austerità

4 Febbraio 2019

Il termine ‘austerità’ ha una forte connotazione etica. Il dizionario Treccani indica come sinonimi castigatezza, continenza, frugalità, misura, moderazione, e morigeratezza. Ma l’austerità è entrata anche nel lessico economico e politico. Si riferisce in questo caso alle politiche che mirano a ridurre la spesa pubblica. Il secondo significato indicato dal dizionario Treccani è infatti: ‘regime economico-politico di risparmio nelle spese statali e di limitazione dei consumi privati, imposto dal governo al fine di superare una crisi economica’.

In realtà si tratta di un uso infelice del termine, che rischia di confondere un concetto economico con uno etico. ‘Austerità’ evoca i volti torvi della Merkel e di Juncker, lo spettro del Fondo Monetario o della Ue che obbligano gli ‘stati-cicala’ a stringere la cinghia. Gli economisti in realtà hanno a disposizione un linguaggio neutro per descrivere le politiche di spesa, parlando di manovre ‘espansive’ e ‘restrittive’. Questo linguaggio è preferibile perché le buone politiche non sono mirate a ‘stringere la cinghia’ per ragioni etiche. Non c’è niente di immorale o di sbagliato nell’aumentare la spesa pubblica quando è necessario.

 

Chi parla di ‘austerità’ spesso intende giocare con le emozioni. Anche per questo il dibattito sull’austerità si svolge in un clima di grande confusione. I cittadini sono bombardati da cifre e dichiarazioni contraddittorie. Molti politici dipingono l’Italia come un paese strozzato da un decennio di austerità imposta dalle istituzioni internazionali. Alcuni economisti aggiungono che il taglio della spesa pubblica ha inasprito la recessione invece di accelerare la ripresa. Dall’altra parte, molti giornalisti, politici ed economisti ci avvertono che un aumento della spesa pubblica rischia di portarci dritti verso una crisi finanziaria peggiore di quella precedente. In effetti il debito pubblico è aumentato costantemente dal 2008 in avanti, fino a raggiungere la cifra stratosferica di 2.300 miliardi di euro, ovvero il 130 per cento del Prodotto interno lordo.

 

 

Chi ha ragione? C’è un po’ di verità in tutte queste affermazioni. È essenziale quindi fare alcune distinzioni: quando si parla di ‘austerità’ si intende la spesa totale dello Stato, o soltanto quella parte dedicata a fornire servizi per i cittadini? Se si intende soltanto quest’ultima (quella che ci importa di più, quando ‘stringiamo la cinghia’) allora è vero che essa è in parte diminuita. I tagli maggiori si sono verificati nella pubblica amministrazione, compresi alcuni settori cruciali per lo sviluppo, come l’università e la ricerca. (Prima che qualcuno mi ‘smascheri’, dichiaro subito un conflitto di interessi: sono un docente universitario!)

In un senso ovvio, dunque, c’è stata austerità. Ma questi tagli al budget dello Stato purtroppo sono stati compensati dall’aumento simultaneo di altre voci di spesa, in particolare quelle dedicate alla previdenza. Quest’ultima in Italia comprende le spese di welfare (per combattere la povertà), le politiche per il lavoro (sussidi di disoccupazione), e le pensioni. In un periodo di recessione, non è strano che si spenda di più per welfare e disoccupazione. Ma il nostro paese si porta dietro anche il peso delle ‘baby pensioni’ e delle pensioni retributive — quelle erogate sulla base degli ultimi stipendi invece che sulla base dei contributi complessivi. La cosiddetta riforma Fornero ha corretto questo meccanismo, ma i suoi effetti sono proiettati nel futuro, quando andranno in pensione i lavoratori di oggi e scompariranno a poco a poco i vecchi pensionati.

 

Se sommiamo le spese per servizi e previdenza, otteniamo la cosiddetta ‘spesa primaria’, ovvero quello che spende lo Stato prima di pagare gli interessi sul debito. Ebbene, la spesa in Italia è sempre aumentata nell’ultimo decennio, tranne nel 2011 (l’anno di Monti). In questo senso, quindi, c’è stata ben poca austerità. 

Per avere un quadro complessivo dobbiamo però considerare anche la spesa per gli interessi — il secondo peso lasciato in eredità da chi ci ha governato negli anni Ottanta. Questi interessi ammontano a 65 miliardi ogni anno, più o meno quanto il governo spende nella scuola. Mentre il debito aumentava (da circa 1600 miliardi nel 2008, a 2300 nel 2018) il Pil purtroppo non cresceva con la stessa rapidità (da 1500 a 1700 miliardi circa). Questo significa che il rapporto debito/Pil è aumentato dal 106 al 130 per cento. Questo è un problema perché la capacità di pagare il debito dipende dal volume delle tasse. La tassazione in Italia è già al 42 per cento del Pil (abbastanza alta). Se il Pil non cresce non crescono le tasse, e quindi aumenta la probabilità di non riuscire a pagare il debito.

 

La risposta alla domanda ‘c’è stata austerità?’ dipende quindi da che cosa si intende per austerità. Non è sbagliato dire che abbiamo tagliato la spesa pubblica, per lo meno alcuni tipi di servizi. Ci siamo anche preparati a risparmiare sulle pensioni. Ma non abbiamo tagliato le attuali pensioni (se non in minima parte), e paghiamo così tanti interessi sul debito che il rapporto con il Pil è andato via via aumentando, rendendolo sempre meno sostenibile.

I governi degli ultimi anni hanno seguito una strategia sbagliata? Avrebbero dovuto aumentare la spesa ancora di più, sperando che questa facesse ripartire la crescita del Pil? In teoria, questo è ciò che ogni governo dovrebbe fare durante una recessione. Si chiama politica espansiva anti-ciclica: quando l’economia va male, si spende di più per compensare la mancanza di investimenti privati, quando va bene, si risana il bilancio riducendo i debiti. Lo diceva Keynes, lo ha fatto la Germania negli ultimi anni, lo hanno fatto gli Stati Uniti e il Regno Unito.

 

Perché l’Italia non ha intrapreso delle politiche espansive più aggressive? Non certo perché in preda a un delirio ‘neoliberista’ (in Italia il liberismo non ha mai avuto molto seguito). La ragione, piuttosto, è che il nostro debito era già troppo alto all’inizio della crisi. Nel 2008 i debiti degli Stati Uniti, della Germania e del Regno Unito erano molto più bassi del nostro, e pur essendo cresciuti negli anni successivi, hanno lasciato sufficiente margine per operare politiche anti-cicliche. Per l’Italia il discorso è diverso: una politica espansiva farebbe aumentare gli interessi troppo rapidamente, richiedendo livelli di crescita irrealistici per essere compensato. Dato che la tassazione è già alta, non si potrebbe intervenire dal lato delle entrate senza disincentivare ulteriormente il lavoro (e quindi la crescita).

Il problema principale del nostro paese quindi è il debito, e difficilmente usciremo dalla crisi senza abbattere il debito. Ci si può provare in diversi modi: promuovendo la crescita del Pil attraverso il settore privato — liberalizzando e diminuendo la burocrazia, per esempio – senza aumentare la spesa primaria. Sarebbe un processo lento ma nel lungo periodo potrebbe dare i suoi frutti. Oppure uscendo dall’euro e svalutando la moneta (quindi il debito), a scapito dei risparmiatori italiani e stranieri che hanno comprato i titoli di stato. Oltre alla perdita di ricchezza immediata, e al caos che l’uscita dall’euro comporterebbe, questa strategia ha il difetto che in futuro gli investitori chiederebbero tassi di interesse più alti, vanificando il risparmio così ottenuto. Infine, si potrebbe pensare a una tassa patrimoniale sui risparmi degli italiani, che ammontano a diverse migliaia di miliardi. I nostri risparmi – superiori alla media europea – sono in parte una conseguenza della generosità dello Stato. I nostri genitori hanno potuto risparmiare molto anche perché lo Stato ha dato loro tanto e chiesto poco. Forse toccherà a noi restituire qualcosa, per garantire un futuro ai nostri figli. 

 

Nessun partito politico osa pronunciare la parola ‘patrimoniale’, per ovvi motivi. Dovremmo quindi inventarci qualcosa per convincere gli italiani a eliminare il macigno che rende quasi impossibile governare, e che avvelena il dibattito politico quotidiano. I popoli si mobilitano per le guerre, ma orgoglio e senso civico possono essere anche impiegati in imprese più nobili. Governare bene l’economia, dopo tutto, è essenziale proprio per evitare le guerre. ‘Abbatti il debito’ suona bene come slogan, chissà che qualcuno non provi a usarlo per costruire un futuro migliore per l’Italia.

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