Un libro esplora il rapporto tra immagine e scrittura / Immagini, immaginari, immaginazioni
È uscito da Donzelli Nell’occhio di chi guarda. Scrittori e registi di fronte all’immagine, a cura di Clotilde Bertoni, Massimo Fusillo e Gianluigi Simonetti. Pubblichiamo la postfazione di Stefano Chiodi.
I felt as if I had been plunged into a sea of wine of thought, and must drink to drowning. But the first distinct impression which fixed itself on one was that of the entire superiority of Painting to Literature as a test, expression and record of human intellect, and of the enormously greater quantity of Intellect which might be forced into a picture – and read there – compared with what might be expressed in words.
John Ruskin, Diary, 8 September 1849
Cosa può aggiungere il critico d’arte a chiusura di un libro che esplora in vivo la distanza, la competizione, l’alleanza, tra parola e immagine? Cosa, a parte confessare la sua impenitente iconofilia, il tempo, il debito, l’esaltazione, lo spreco che le immagini hanno sempre preteso dalla sua esperienza di spettatore? E ammettere senza ipocrisie l’innamoramento colpevole per il flusso inarrestabile di immagini digitali, per la vertiginosa espansione inflazionaria del web, per il suo potere di penetrare in depositi, collezioni, regesti segreti, antichi e nuovissimi, e di accenderli, più che aprirli, come irresistibili fari multicolori, ancora e ancora. Passione eccessiva e avventata oltretutto, perché tradottasi negli anni nella scomoda constatazione che con tutta la loro frenetica disponibilità, le immagini, anonime o illustri, seguitano imperterrite a sottrarsi alla loro supposta pienezza e flagranza e naturalità. La parola, il racconto, l’ekphrasis appunto, il tema di questo libro, e più ancora gli strumenti della critica e della teoria, benché troppo spesso mal compresi, o inadeguati, mi sono sempre apparsi altrettanti ganci provvidenziali, contravveleni per combattere l’ansia di godimento e la mancanza d’aria che le immagini finiscono invariabilmente per provocare, per avvicinarle e trattenerle, come in un lungo, lento zoom, di fronte a uno sguardo irrequieto, sempre tentato di fuggire altrove.
Perché ciò che vedo, ciò che ho visto e rivedo, tende di solito per me a scadere nel puro riflesso se non fosse rinnovato, vivificato, dall’assennato richiamo della lingua, dal suo tempo largo, dalla sua tranquilla forza di confronto. Ha ragione Michel Tournier quando scrive che l’iconosfera è sempre minacciata d’asfissia e ha sempre bisogno, imperativamente, di un collegamento alla logosfera non solo per poter durare, ma ancor più, aggiungo, per poterci apostrofare, per richiamarci alla presenza di noi stessi, come i ritratti funerari del Fayum – ora per lo più separati dal corpo mummificato che suggellavano per la morte – fissano lo spettatore convocandolo di fronte al singolare e universale destino del soggetto che ritraggono. Memento mori, certo, ma non con una formula generica, bensì individuando donne e uomini nel loro specifico vissuto, nella loro creaturalità, morti e pure per noi ancora vivi. I ritratti del Fayum, come ha osservato Jean-Christophe Bailly, sono privi di affetti, di desideri, “vi è in essi una sorta di mitezza, di neutralità. Là dove si trovano, e dove in fondo è impossibile trovarsi (ossia vivi nella morte), essi tacciono”. E forse è proprio questo silenzio che li rende così vicini e fa di essi in un certo senso dei nostri contemporanei. Se la morte è per ognuno, come ha scritto Jacques Derrida, “un appuntamento con un sé che si è e non si conosce”, allora ciò che scorgiamo nei ritratti sono sì volti di sconosciuti, ma di sconosciuti che hanno visto o stanno per vedere gli sconosciuti che erano per se stessi nel divenire. Essi “rappresentano per noi tutta la morte, tutto quel che sappiamo della morte, quel qualcosa, cioè, di cui non vi è né esperienza né racconto”. È in questa relazione lancinante, in questa eloquente reciprocità di sguardi che sta forse il migliore esorcismo e la migliore introduzione a ogni immagine, ovvero a ciò che resterà sempre, per propria natura, presenza di un’assenza.
Ritratto d'uomo, da Hawara, Royal Museum of Scotland
Cosa dire allora se non anzitutto dichiarare la propria solidarietà ai curatori, specie quando questi ultimi parlano di un tema per tutti così congeniale e scottante: la paura. Paura di doversi accomodare all’egemonia asfissiante del visivo sul testuale, paura che la complessità, la stratificazione, la durata, la forza morale della parola scritta perdano definitivamente la partita di fronte alla irresistibile seduttività delle immagini, al loro fluire ipnotico, alla loro potenza di stimolazione, al loro innato e trionfante conformismo pubblicitario. Consapevoli tutti, in questo, che l’epoca presente appare immunizzata dai contravveleni che il modernismo, Walter Benjamin prima di tutti, aveva cercato di iniettare nel suo corpo di Leviatano: contro la reificazione e l’iperrealizzazione, contro la presunta unicità del mondo reale, contro lo stato “naturale” delle cose, si sarebbero impiegati montaggio, frammento, deformazione, straniamento, disincanto. Ma cosa dire di fronte alla sin troppo evidente riconversione dell’estetica politica modernista in materiale da costruzione dei media, in apparato di omologazione, in passerella midcult verso obbligatorie evasioni?
Che la produzione di immagini, di immagini “qualsiasi”, rappresenti oggi uno dei meccanismi fondamentali nella costruzione dell’identità e della dimensione politica nell’epoca del pieno dispiegamento spettacolare, ce lo ricorda del resto una vasta letteratura, da Slavoj Žižek ai proliferanti media studies. Le immagini vincerebbero perché troppo disponibili a trasformarsi in feticci, a farsi docili strumenti di dominazione, a costituirsi in un immaginario il cui compito è precisamente occultare, rimuovere, deviare, l’appuntamento con il Reale. Saremmo in altre parole di fronte a un collasso al tempo stesso linguistico e politico cui non può rimanere estranea la stessa arte visiva, presa nelle sue convulsioni post- e trans- mediali, ormai troppo compromessa con i meccanismi della reificazione, con il consumo turistico, l’accumulazione collezionistica, ecc.
Un cataclisma estetico così profondo da compromettere ogni residua chance dell’arte visiva come strumento di liberazione e chiarificazione? Così la pensano in molti e questi appunto sono gli argomenti dei sermoni impartiti da blasonati reazionari del calibro di Jean Clair o Marc Fumaroli, o che animano invettive come quella in cui Mario Vargas Llosa si scaglia contro una cultura che “chiude nella soffitta delle cose passate di moda l’esercizio del pensiero e sostituisce le idee con immagini, i prodotti letterari e artistici vengono promossi, accettati o rifiutati in base alle trovate pubblicitarie e ai riflessi condizionati di un pubblico che manca delle difese intellettuali e della sensibilità necessarie per individuare il raggiro e l’estorsione di cui è vittima” ecc. ecc.
Raggiro. Estorsione. Il lessico è minaccioso. Ma poi, di fronte a queste apocalissi da scrivania, a questa cordigliera di nostalgie e frustrazioni, le immagini, incluse quelle più tradizionalmente “alte” e “colte”, anziché dimostrazioni di permanenza, di stabilità, di verità, offrono invece di continuo crude dimostrazioni di una permanente miopia, di un testardo non saper vedere, o non saper mai vedere abbastanza. Asphyxiante culture. Ciò che viene proclamato a gran voce, la forza dell’eredità, il valore del “patrimonio”, la sua superiorità morale – qualcosa che in Italia assume talvolta le ambigue fattezze di una vera e propria emergenza “civile”, dichiarata però in nome di una Storia divenuta ideale intransigente e inimico del proprio tempo –, mi appare soprattutto la conseguenza di una sconcertante, inaccettabile afasia, di una vera e propria sincope culturale. Forse perché gli artisti di cui mi sono trovato a commentare il lavoro, miei contemporanei in un senso ben più esteso della mera attualità, sono i primi a resistere a questi rozzi tentativi di dismissione praticando sistematicamente la via difficile dell’esperimento, della fedeltà a una pratica insieme azzardata e intransigente. E forse anche perché, nel tempo, gli storici, i critici, i teorici dell’arte che mi hanno di volta in volta sedotto, colpito, convinto, sono proprio quelli che mostrano, anziché una fiducia tracotante nella superiorità dei propri mezzi intellettuali, la fragilità delle nostre presupposizioni, lo smisurato piano di oscurità che ogni immagine, le illustri come le più triviali e compromesse, trattiene in sé e trasmette al futuro, il suo compromesso, inascoltato, ma pur sempre prezioso, valore di profezia.
Questa è la sostanza di quella concezione dialettica delle immagini che Georges Didi-Huberman, ancora sulla scorta delle illuminazioni benjaminiane, ha posto notoriamente al centro delle sue investigazioni, un punto di vista che consentirebbe di interrogare le immagini disancorandole dalla tenace tessitura storicista, dal tempo “assoluto” della loro nascita, come pure, aggiungo, dal tempo maledetto del loro crepuscolo tardomoderno. Per lo studioso francese, che riprende in questo anche la lezione di Aby Warburg, le immagini che ci giungono dalla tradizione artistica diventano leggibili proprio grazie allo scontro con un presente che le apre e mostra al loro interno “sopravvivenze”, fossili di stati precedenti, presenze che contraddicono l’idea della storia come film che si srotola e la configurano piuttosto come assemblaggio di tempi e modelli visivi eterogenei. L’ancoraggio storico dell’immagine dovrà porsi in relazione con la sua leggibilità, ovvero l’operazione che fa collidere due temporalità, il presente e il passato, così che, scrive Didi-Huberman in Devant le temps, “nella storia acquista senso solo ciò che appare nell’anacronismo, l’anacronismo di una collisione in cui il Già stato si trova interpretato e ‘letto’, vale a dire messo in luce dall’avvento di un Adesso risolutamente nuovo”. Definire un’opera d’arte “anacronica” significa in effetti dire ciò che l’opera fa quando è ritardataria, quando ripete, quando esita e ricorda, quando proietta un futuro possibile.
Che tipo di immagine emerge dunque dalla riannodatura dialettica e anacronica? Non certo la “naturalità”. Né tantomeno l’opacità erudita e debilitante che la storia dell’arte ha spesso privilegiato, scambiando il fine della filologia con i suoi strumenti. Piuttosto ciò che David Freedberg chiama in The Power of Images (1989) il potere di ripresentazione, di coinvolgimento simultaneo di tutti i livelli – affettivo, somatico, psichico, simbolico, emotivo – il loro effetto di presenza, sinestetico ed erotico, che apre l’atto di guardare all’irruzione di qualcosa che non è possibile dominare per intero, e che anzi è destinato a essere volentieri represso o rimosso nella sfera verbale, al limite a tradursi in forme più o meno aggressive o confesse di iconofobia.
Aggiungo che questa potenza riguarda entrambe le nature dell’immagine rese sensibili dai termini inglesi image e picture, ovvero l’aspetto mentale e il medium, dove il primo, la produzione soggettiva (sogni, immaginazioni, memorie, allucinazioni), alimenta ed è costantemente alimentato dal secondo (pittura, fotografia, film, ecc) ed entrambi convivono all’interno di una sfera propriamente antropologica – è una vecchia proposta ripresa e affinata in questi anni da Hans Belting – che forma l’orizzonte di visibilità entro il quale la produzione di immagini acquista significato culturale, diviene cioè memorabile, interpretabile. In questa prospettiva lo sguardo – un’altra vecchia constatazione – è sempre un elemento attivo, un processo in cui costantemente le raffigurazioni si trasformano in immagini e le immagini in raffigurazioni, in uno scambio costante tra immagini mentali e icone, tra allegorie testuali e visive, in cui ritorni, sovrapposizioni, memorie e anacronie travalicano e ridefiniscono limiti e caratteri dell’immaginabile. Percepire, ha scritto Hans Sedlmayr, è del resto già interpretare.
Marcel Duchamp, Fountain, 1917. Fotografia di Alfred Stieglitz
D’altro canto, è proprio l’arte dell’epoca attuale a riproporci di continuo il ruolo essenziale, tanto simbolico quanto politico, che i contesti spaziali, le strategie discorsive, le “cornici” ideologiche ed economiche svolgono nel creare soglie di leggibilità, nell’orientare e focalizzare gli sguardi, nell’aprire le immagini a ogni potenziale interpretazione, tradimento, riscoperta. È ormai del resto antica constatazione – da Marcel Duchamp e dalla sua invenzione del readymade come dispositivo estremo della storia dell’arte occidentale, l’enunciato alfa, “questo è arte”, a dispetto delle apparenze – che si possa smettere radicalmente di dipingere, scolpire, o fabbricare alcunché senza per questo smettere di fare arte e di fare immagine, ponendo al centro in forma radicale quella «sorta di appuntamento», l’incontro di un oggetto, di un autore, di un contesto (materiale – un luogo – o puramente mentale), i quali, senza altro movente che le condizioni stesse del loro incontro, senza altre determinazioni, rappresentano, per un liberatorio paradosso, il presupposto essenziale di ogni riconoscimento, di ogni potenziale di senso. Ri-presentando nel readymade il “già fatto”, Duchamp ha liberato il significante immettendolo in un campo aperto di possibilità interpretative che non possono essere più identificate stabilmente con un soggetto o un oggetto, ma piuttosto con la loro imprevedibile interazione. Nel mondo delle merci, nell’universo capitalista, l’iscrizione del readymade annuncia il “regresso” dell’arte a uno stato di indistinzione, di depotenziamento semantico che a sua volta allude a una possibilità di disarticolare il feticcio, di inceppare quel processo di introiezione del mercato su cui il capitalismo ha edificato la sua forma di vita. Smascherando la natura di “istituzione” dell’arte, facendo franare le sue pretese, mettendo in luce “un io alternativamente organico e inorganico, maschile e femminile”, Duchamp parla cripticamente di una liberazione possibile.
Se raccogliamo ancora a decenni di distanza l’eredità della “bellezza d’indifferenza” e del n’importe quoi duchampiani nella forma malinconica, comica e allegorica che è la cifra contraddittoria dell’arte a noi contemporanea, è perché la mostra, i dispositivi di archiviazione e trasmissione, le interfacce sociali, il mercato e le sue strategie, sono sì penetrati all’interno delle immagini, ne condizionano geneticamente la nascita, ne diventano il soggetto, ma questo processo non può mai escludere la “presa in carico” di uno spettatore critico e attivo, non più, o non solo, portatore di un’attitudine contemplativa messa in crisi dal dissolversi della un tempo stabile distinzione tra immagini “qualsiasi” e quelle destinate a essere conservate e trasmesse. Ogni volta che si ha a che fare con un’immagine – proiettandola in una lezione, scoprendola in una schermata di google images, sulla copertina di un libro, sui muri di un’abbazia, sul poster di una mostra, nelle pagine di una rivista – siamo oggi fatalmente convocati di fronte a un potenziale allegorico, a una risorsa, a una potenziale riscoperta.
Maschera tolteca
Sono tutti temi rilevanti per questo libro, per le sue immagini, per le interpretazioni, le analogie, le memorie che hanno suscitato negli autori. Immagini eterogenee, dall’antichità egizia ad anni recenti, molte di opere d’arte famose e tutte, incluse le fotografie e i film stills, saldamente ancorate nel canone dell’immaginario occidentale. Immagini contrastanti, a volte in modo stridente – gli spazi docili di Luigi Ghirri, la cruda e però già estinta evidenza tragica di un frame dell’11 settembre 2001, la calma intenta dello scriba egizio o del frate seicentesco e la disturbante meccanica del Trionfo della morte, la potente carnalità di una Marilyn Monroe tradotta in materia pittorica e la violenza geroglifica di una maschera precolombiana –, tutte in qualche modo rese di nuovo percorribili dal nostro sguardo.
Non è un risultato casuale. Sarei anzi tentato di considerare l’insieme imprevedibile di queste scelte, prima ancora della loro “traduzione” in scrittura, come una sorta di esposizione ideale, allestita secondo la regola delirante di un hasard objectif dove a una fantasmagoria di frammenti perturbanti, come sarebbe stata all’occasione concepita dai surrealisti, si sostituisce la scelta sintomatica, e nondimeno inspiegata, di autori assimilabili qui a un inconscio collettivo al lavoro. Un’esposizione immaginaria, dove l’aggettivo connota meno l’aspetto fantastico e più propriamente il meccanismo di proiezione che la compone nel mio sguardo e poi nell’ordine spaziale del testo stampato che il lettore si troverà di fronte. Una mostra idiosincratica, inevitabilmente mancante di ciò che la costituirebbe come esperienza di uno spaziotempo specifico, come rete fisica di relazioni, di echi, di accostamenti e contrasti, ma che pure allude a un percorso, a incontri, deviazioni, sorprese. Ridotte alla misura conveniente dello schermo su cui le vedo impeccabilmente allineate, le thumbnails – francobolli colorati su un campo bianco perfettamente omogeneo – possono essere ricollocate a volontà, alla ricerca di configurazioni significative. Sulla carta, esse assumeranno per il lettore la struttura definitiva di una costellazione, al tempo stesso precisa ed enigmatica.
Luke Cremin, Image #1200, The September 11 Digital Archive
Alla sovrabbondanza d’immagine, all’inflazione di immaginario, sarebbe illusorio contrapporre una drastica decimazione iconica, uno sfoltimento preventivo da cui salvare solo testimonianze esemplari purché inattivate. Ogni iconoclastia si scontra del resto col limite di una cancellazione impossibile: per quanto delle pictures potrà non restare traccia, le images seguiteranno a vivere, sia pure in guisa di fantasma, di residuo acuminato e caparbio che richiederà, ancora, un supplemento di disponibilità e una volontà di commento, e cioè, alla fine, di permanenza. Né tantomeno è possibile accettare senza resistenza il diktat dello svuotamento ineluttabile, della ripetizione e dell’accumulazione infinita come orizzonti terminali di ogni progetto individuale o collettivo. La singolare ambivalenza della nostra posizione storica si rivela appropriatamente nella necessità di poter contare su tutte le immagini, per poter rendere conto del loro potere e della loro deriva, per aprire nuovi spiragli simbolici, per riconoscere nella loro eco incerta i semi di altri possibili. È questo scarto imprevedibile, questa promessa di libertà che giustifica in fondo il tributo di ogni umile scriba. Alla fine in effetti, come disse Boris Pasternak in una vecchia intervista alla “Paris Review”, non è l’oggetto che conta, ma la luce che vi cade sopra.