Influencer: esseri di moda
“Influenza” deriva dal latino medievale influere, scorrere dentro, insinuarsi. Nel suo uso figurato descrive l'infondimento di sentimenti e opinioni nell'animo, spesso in accezione negativa, come del resto accade per il suo corrispettivo medico che indica una malattia virale. Influenza ha in sé il germe della viscosità, dello scorrere di una sostanza fluida che si infonde e attecchisce in ciò con cui entra in contatto. Influenza, come virale, appartiene ormai al dizionario del marketing, in relazione a un'azione esercitata sul pubblico, spinto a compiere una determinata scelta di campo. I responsabili del contagio sono gli influencer, meglio ancora se digital influencer, coloro che, in virtù di una nutrita schiera di follower, vengono scelti dalle aziende in veste profetica, per promulgare il verbo ed evangelizzare i consumatori. Fino a qualche tempo fa un contenuto doveva essere, appunto, virale, adesso, si parla di influenza. Probabilmente i cervelloni del marketing amano ispirarsi alla retorica medica.
Zoella Zeebo, prima al mondo nella classifica Top Fashion Influencers
I digital influencer basano il loro processo di comunicazione su mezzi utilizzati per impressionare il pubblico, di solito blog e social network, visualizzati e consultati da chi si vuole far orientare sui trend in atto rispetto a un determinato ambito. Bisogna tralasciare qualsiasi accezione behaviourista e organicista perché chi segue i digital influencer attua una scelta di campo ben precisa rispetto a determinate circostanze. Il concetto alla base è lo stesso dei leader di opinione, ne parlava già Paul Felix Lazarsfeld nel 1955, rispetto alla diffusione verticale di mode e abitudini di consumo, affidata a chi occupa una posizione di predominio sociale all'interno di determinati gruppi, ma la differenza sostanziale è nella distribuzione di queste figure, oggi numerosissime rispetto a cinquant'anni fa, basta avere il giusto numero di follower. A dire il vero, il potere dell'influencer non è misurabile solamente attraverso i contatti, ma dalla sua abilità di generare interazioni, discorsi su se stesso o un su tema, determinando un reale coinvolgimento del pubblico. Le interazioni sui social network sono ormai considerate rilevanti non solo dalle aziende, ma anche dai media stessi, nel senso che è sempre più frequente assistere a operazioni meta-discorsive durante programmi televisivi per valutare i discorsi su ciò che si sta facendo in tempo reale, con lo scopo di avere un feedback istantaneo sulle elaborazioni degli spettatori e sulle loro sanzioni finali circa l'esperienza di visione. Penso a trasmissioni come X Factor durante la quale, a partire da Elio, uno dei giudici, che indossa t-shirt con stampe a tema social, vengono consultati freneticamente i tweet degli spettatori per indagare la natura del loro sentiment sul susseguirsi degli eventi, al fine di interpretare se i pareri sono positivi o negativi, euforici o disforici. Il sentiment degli utenti ha letteralmente sostituito i sondaggi di opinione per ragioni di natura spaziale e temporale: grazie agli hashtag capire cosa pensa il pubblico è facile e istantaneo. Tweet, status e caption, con i relativi sentiment, sono da considerare termometri del gusto contemporaneo e permettono di attuare aggiustamenti delle strategie in lassi di tempo minimi.
Certo, guardare in televisione celebrità di vario genere che scrollano impazientemente la home di Twitter sui loro smartphone non è il massimo dell'intrattenimento, ma se interi articoli di testate internazionali vengono scritti su una certa foto di Instagram pubblicata da tal dei tali vuol dire che il vertice dell'agenda mediatica si è spostato sui social. È pacifico che i tweet o le caption sotto i riflettori saranno quelle di chi ha un certo peso su tali canali di comunicazione, e ovviamente tra loro ci saranno alcuni influencer, lasciando ancora una volta a bocca asciutta i comuni cittadini. Il digital influencer viene spesso additato come lavoro, la cui remunerazione viene quantificata a like e love, e a cui si accede non con colloquio o concorso a titoli, ma tramite regram di raccomandazione, pubblicato da un influencer più affermato, meglio ancora se una celebrity. A mio parere non stiamo assistendo alla democratizzazione della sponsorship, o del marketing bottom-up, giocato sulla meritocrazia o sul puro caso, visto che alle spalle dei digital influencer c'è un meccanismo molto complesso, basato sulla monetizzazione della fiducia degli utenti.
Lauren Conrad, seconda nella classifica Top Fashion Influencers, posa per Cosmopolitan USA di ottobre 2015
È indubbio che gli influencer formulano una proposta di senso in cui si combinano codici impattanti che suscitano attenzione, memorizzazione, giungendo alla creazione di mitologie mondane. L'impatto si estrinseca sull'immagine di sé, sulla personalità dell'audience, sulle abitudini culturali, che subiscono degli aggiustamenti a partire dalla figura dominante consultata, presa in esame, proprio come accade con le pagine di un'enciclopedia, o, per restare in tema, di Wikipedia. La condizione necessaria e sufficiente al processo di influenza è lo stabilirsi di una relazione intersoggettiva votata al congiungimento dei follower con un oggetto di valore, prescrivendone pratiche di azione e d'uso, o inducendo comportamenti individuali e sociali. Per influenzare, la fonte deve essere credibile e autorevole, ovvero la percezione del pubblico del suo livello di conoscenze specifiche rispetto a un dato argomento, della sua affidabilità, deve essere estremamente positiva. L'influenza digitale è un'azione sociale di natura diacronica se dipende da condizioni a essa preesistenti e dalle finalità a cui è rivolta, mentre è sincronica quando deriva da fattori di pressione ambientale e contestuale.
L'esempio più pregnante lo si ha nella moda dove il fashion influencer antropomorfizza l'outfit promosso, soggettivizzando i capi indossati, amplificando lo stato patemico di chi riceve il messaggio. Si tratta di una persona che ha già stretto un patto ben preciso con il suo follower, supponendo un rapporto di subordinazione del secondo dato che il primo appartiene al sistema moda come esperto, o supposto tale. Il fashion influencer interpreta uno stile per renderlo comprensibile al suo follower, ma allo stesso tempo ne carpisce fiducia e attenzione inducendolo a visitare un sito, o a compiere un'esperienza d'acquisto, asservendo l'essere di moda al pay per click che gli assicura la pagnotta quotidiana, o la borsa di Hermès.
L'italiano Mariano Di Vaio, terzo al mondo nella classifica Top Fashion Influencers
Il successo delle collezioni non è solo dovuto al placet della stampa di settore e dei buyer: la massa, chi compra e genera profitto, si raggiunge attraverso soggetti forti che apprezzano le creazioni e vengono fotografati durante la loro quotidianità mentre le indossano. I fashion influencer sono al centro dei pettegolezzi, dei gossip, e quindi in cima all'agenda mediatica rivolta a ogni tipo di pubblico. Come ribadisce anche Paolo Fabbri, il pettegolezzo prolifica e ha una diffusione esponenziale, quasi a tappeto, e, nel caso degli influencer, tale effetto domino è amplificato dalle buone pratiche d'uso dei social network, votate all'autocelebrazione. Basta un tweet o un'immagine su Instagram di Olivia Palermo che esalta un capo di uno stilista per assicurare il sold out delle scorte nei negozi. Il volere, il desiderare, dei fashion influencer diventa quello del pubblico che oggi, come in passato, ha bisogno di modelli a cui ispirarsi, necessita di appartenere a una comunità, e si affida a chi si assicura una presenza tangibile e costante nell'universo mediatico. I fashion influencer sono in primis, parafrasando Isabella Pezzini, un “veicolo di un'identità fantasmatica da assumere e consumare virtualmente”, per poi assurgere a fenomeni imitativi che decretano cosa va di moda. L'essere di moda non deve sembrare vivere, come affermava Roland Barthes, bensì deve vivere e incarnare i suoi oggetti di consumo per assumere rilevanza nella comunità dei fruitori che, operando una selezione dal basso, ha fatto in modo che la moda vissuta divenisse una forma funzionale di comunicazione facendola assurgere a convenzione sociale.
Secondo le mie ricerche e rispetto ai dati della classifica Top Fashion Influencers, gli “esseri di moda” non hanno alcuna forma di expertise riconosciuta in materia, anzi sono in maggioranza socialite, ossia coloro che passano gran parte del loro tempo a partecipare a eventi mondani. Nulla di nuovo sotto i riflettori: negli anni Sessanta riviste come Vogue e Annabella dedicavano interi servizi al guardaroba delle esponenti più titolate dell'aristocrazia mondiale. I fashion influencer hanno il compito di promulgare i tratti invarianti di moda che vengono tradotti, rielaborati e replicati dai follower secondo i loro codici di appartenenza. Il problema, almeno dal punto di vista di chi segue gli influencer, è che ci si può sentire traditi, nel senso che, con il passare del tempo, si giudicano con maggiore sospetto i consigli (per gli acquisti) diffusi sulle varie piattaforme sociali, sviluppando corazze consce e inconsce. Banalmente, non è umanamente possibile avere millecentocinquanta jeans, ristoranti, alberghi preferiti. Non è possibile trovare ogni giorno il maglione più comodo o il panino più buono del mondo. Nonostante le scoperte siano quotidiane e cambiare idea sia indice di apertura mentale, l'illuminazione non può coincidere con ogni aggiornamento di Instagram. Se in principio c'erano i blogger, persone di cui ci si fidava perché reputate semplicemente brand advocate, ovvero consumatori fieri di condividere un'esperienza felice di consumo, senza retribuzione e contropartite, adesso ci sono i testimonial con proprietà infettive. La lotta ai vaccini assume nuove sfaccettature.