Le forme del creativo di moda
La moda è sempre più dilatata, contaminata, hackerata: la consumiamo in pillole (ne ho scritto anni fa qui), in gocce (i “drop” sono i lanci settimanali), la preferiamo se è cogestita e (non) disponibile in edizione limitata.
Non ha più molto senso parlare di “firma” se i capi più desiderati sono frutto di collaborazioni: Fendace, Fendi x Skims, Gucci x Balenciaga, Gucci x Adidas, Balenciaga x Adidas, e via discorrendo, in un’infinita lista di comunioni d’intenti e moltiplicazione di valore della marca.
Una cosa è certa, lo ricorda anche Maria Luisa Frisa nella seconda edizione del suo fortunato Le forme della moda (Il Mulino), pubblicato nel 2015 e aggiornato nel 2022, “il sarto è la figura delle origini”, alfa della moda e ideatore delle icone venerate nella contemporaneità. Nel corso del libro, seppur tematizzato in base alle varie linee di ricerca della moda, Frisa riflette a più riprese sulla modificazione dello statuto del creativo nel corso dell’ultimo secolo, culminata nell’hackeraggio d’autore di Gucci e Balenciaga che campeggia ‒ non a caso ‒ sulla copertina del libro.
Creativo, spiega Frisa, è un termine ombrello francese, che designa chi inventa qualsiasi tipo di opera artistica, reso con designer dall’anglomania di moda. La genesi di un oggetto di alta moda è sullo stesso piano di quella di un dipinto, di una scultura, proprio come Chanel, Balenciaga, Yves Saint Laurent, Monet, Gauguin e Mondrian. La firma del sarto corrisponde a un manifesto di intenti, impresso nei volumi e nelle forme dell’abito o dell’accessorio.
Il boom economico degli anni Sessanta aumenta la domanda di capi e accessori e la sartorialità non ha la forza di soddisfare le richieste di un pubblico sempre più educato all’eleganza, che, come l’etimologia insegna, sceglie di essere alla moda. E così, in Italia, con Walter Albini, nasce il prêt-à-porter, la moda pronta di alto livello a disposizione di tutti. Il creativo assume una nuova forma e diventa stilista, figura che media tra industria, artigianato e pubblico, cosciente del ruolo della comunicazione nella creazione dell’immaginario di moda. Il concetto di stilista racchiude la forza del connubio tra intelligenza artigianale e cultura industriale del nostro paese, da cui è gemmata la produzione in serie di oggetti di design, globalmente conosciuta come made in Italy.
Essere stilista coincide con l’italianità e un saper-fare quasi intraducibile: in inglese, ad esempio, la traduzione del termine provoca uno slittamento del senso, perché stylist si riferisce a chi compone uno stile e cura l’immagine di una persona scegliendo oggetti, non creandoli.
Allora qual è lo stile degli stilisti?
Negli anni Novanta se lo chiede Omar Calabrese, che pone una questione di metodo a partire dalla denominazione “stilisti”, cioè progettisti dello stile, perché le loro opere sono intese come oggetti d’arte autonomi, ma anche dipendenti. In altre parole, lo stilista offre uno strumento attualizzato che deve essere realizzato da chi indossa il capo e l’accessorio, interpretandone lo stile. Il ruolo di stilista è desueto, quasi estinto come il vero made in Italy, sostituito da designer e direttore creativo, dove il primo termine descrive l’essere creatore di moda, mentre il secondo si riferisce a un compito di supervisione che prevede la tracciatura di una linea, di uno stile da seguire, specialmente nel caso della gestione di un marchio di lusso di cui va preservato l’heritage.
In quest’ultimo caso “lo stile degli stilisti” tratteggiato da Calabrese diventa un elemento di continuità perché il creative director non solo deve suggerire una direzione al consumatore finale, ma anche a tutti i comparti della Maison. La stessa Frisa definisce il direttore creativo un curatore, che nel ruolo di capo-designer dà forma a visioni e scenari, e in quanto manager, garantisce il rispetto dell’identità visiva.
I direttori creativi ravvivano la memoria di oggetti dimenticati, ammantandoli di un nuovo senso per generare, come scrive Frisa, “significati inediti nell’incrocio di temporalità e sensibilità diverse”.
Lo stile quindi è una visione, è la facoltà di indirizzare il gusto, la capacità di creare mondi possibili dell’esperienza estetica. A tale proposito Calabrese suggerisce di separare il modo in cui lo stilista propone le sue opere e il modo di esistenza suggerito ai potenziali clienti, da un lato la parte artistica, dall’altro i codici e le pratiche che caratterizzano un gruppo coeso di individui (una forma di vita o una subcultura). In Italia potremmo distinguere i marchi d’ispirazione classicista, tra cui Armani, Max Mara, da quelli barocchi come Dolce & Gabbana, Gucci, Moschino, Versace.
Attenzione, la contrapposizione non è netta perché lo stile degli stilisti e dei direttori creativi cambia in base allo spirito del tempo e della persona: Gucci di Tom Ford era l’acme del classico degli anni Novanta, ma con Alessandro Michele è il non plus ultra del barocchismo contemporaneo. Difatti, Calabrese avverte che nella somma dei vari elementi distintivi di un brand si aggiunge sempre qualcosa in più, innescando un effetto cocktail i cui ingredienti sono riconoscibili nella teoria, nella ricetta, ma il gusto deriva dal loro insieme. Il potere della creolizzazione descrive il valore della commistione di stili e generi, di vari universi di discorso, in un’epoca in cui l’innovazione radicale è sempre più impossibile e dunque bisogna citare e risemantizzare per creare qualcosa di nuovo.
Il problema si pone quando in questo cocktail sono stati mescolati troppi ingredienti che confondono le papille gustative del pubblico. Non è tanto questione di talento o qualità artistiche, quanto di capacità di entrare nelle conversazioni e imporsi come tendenza. Strategie e tattiche comunicative superano di gran lunga la classe dimostrata sul campo, a comprova che il talento da solo non basta. Similmente alle serie calcistiche, ogni anno viene stilata una classifica dei marchi più amati e, da questi dati, unitamente a quelli delle vendite, i board aziendali traggono le conclusioni sull’operato del direttore creativo, che potrebbe essere esonerato se non porta risultati tangibili, proprio come accade, puntualizza Frisa, agli allenatori delle squadre di calcio. Di conseguenza, la temporalità di moda si condensa sempre più, e sia moda che stile passano in fretta, senza neanche aspettare il corso di una stagione.
Lo stile dei direttori creativi o dei designer deve essere sostenuto da una narrazione potente, al cui interno si susseguono personaggi influenti, attrattori di consensi. Influencer e celebrità assumono il ruolo di corpi mediali modello con il potere di influenzare l’immaginario collettivo e modulare le tendenze del sistema moda, originate non nel mondo della produzione, ma in quello dei consumi. Il creativo degli anni Venti del Duemila compone “tutti gli stimoli e li rimette in gioco”, perché, spiega Frisa, la moda “è terreno di traduzione e interpretazione”, tanto che “il confine tra vestito indossato e raccontato risulta sempre più sfumato”.
E allora la moda si fonde con la musica, con l’entertainment tout court, perché per essere spiegata e esperita prima dell’acquisto ha bisogno di un mondo che possa darle corpo e atmosfera. La semplice emulazione è riduttiva, si aderisce a un modo di vivere, di essere, che va nella direzione di una rivendicazione identitaria in una società dove si contano follower e visualizzazioni anche per superare un colloquio di lavoro. La visibilità diventa una raison d'être, fondata su capi e accessori quali strutture di un’intenzionalità strategica, modellata su comportamenti e sistemi di valori.
La complessità della moda contemporanea non è imputabile al pluralismo postmoderno degli stili, bensì alla saturazione del mercato dovuta alla proliferazione di brand e collaborazioni. In un periodo storico caratterizzato dalla gestione oculata delle risorse, risulta anacronistico assistere, quotidianamente, ad annunci di nuove linee e nuovi lanci. La “scroll culture” mutuata dai social media ha contaminato i tempi della moda, i cui oggetti vengono commercializzati con la stessa velocità con cui scorriamo il dito sul display per passare da un post all’altro. Addio alle tendenze di stagione, benvenute tendenze giornaliere. La moda si sta cannibalizzando: se “gutta cavat lapidem”, i continui “drop” perforeranno irrimediabilmente il sistema.
Basta pensare che, in tutto il mondo, praticamente ogni persona con un certo seguito sui social ha all’attivo capi, accessori e make-up che portano la sua firma (specialmente costumi da bagno). La competenza esperta deriva dallo studio o dalla visibilità? Non è dato stabilirlo a priori, però è quasi certo che il sistema della moda contemporanea premia l’estensione dell’immagine personale agli oggetti. Come definire la celebrity-influencer che insieme a canzoni, reality, cibarie, brandizza pure vestiti, scarpe e borse? Eclettica? Imprenditrice di sé stessa? Direttrice cre-attiva per sottolinearne la proattività? Probabilmente lo statuto della creatività di moda si giocherà su questo terreno per qualche tempo e avremo bisogno di nuove etichette. Di certo, oggi, il creativo di moda è multiforme, spazia da hamburger e biscotti a scarpe e gioielli con la stessa velocità di un cambio di outfit del giorno.
Il fattore game-changer sta nelle passioni dei potenziali consumatori, che, così come un secolo fa, comprano un insieme di valori e significati, mossi e commossi dalle affinità elettive con i loro beniamini.
La moda, come suggerisce Frisa, resta l’illusione di appropriarsi di un’atmosfera, pur senza possederla mai.
Riferimenti bibliografici
Calabrese, Omar (1991). “Lo stile degli stilisti”. In Patrizia Calefato (a cura). Moda e mondanità. Bari: Palomar, 195-204.