Inside Out: pianto, rimpianto, compianto
Il film di cui si parla nella rubrica Odeon di questa settimana ha già suscitato reazioni entusiaste, un grande interesse ma anche critiche e discussioni accese, in relazione ai temi trattati. Pertanto doppiozero ha pensato di fare seguire all’articolata recensione di Andrea Bellavita una serie di interventi di collaboratori.
Nel suo sorprendente e disturbante (e per questo necessario) L’infanzia non è un gioco. Paradossi e ipocrisie dei genitori di oggi, Stefano Benzoni scrive: “Che cosa desideriamo noi dai bambini? Come desideriamo che siano? Li vogliamo docili e appagati, meglio se appagati di spettacoli che piacciono anche a noi. In questo senso, l’onnipresenza del fantastico negli intrattenimenti per bambini è forse uno dei fenomeni più evidenti del modo in cui i genitori oggi tendono a confondere l’educazione al gioco con il proprio intrattenimento, il bimbo buono sa starsene buono e godere degli spettacoli fantastici che piacciono anche a mamma e papà”. A supporto della sua tesi mette insieme, non senza una certa pindarica forzatura, le saghe di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli, i Teletubbies e le “moltiplicazione di marchi di fabbrica Pixar”.
Quando Pixar, ovvero Disney, decide di proporre un film che mette a tema la definizione dell’identità del bambino (Riley, undici anni, pre-adolescente, un attimo prima che sul suo pannello di controllo cerebrale compaia il terribile tasto rosso di allarme nucleare “pubertà”) e la sua relazione all’interno del nucleo familiare, è inevitabile che si trasformi in un “film mondo”, in una presa di posizione ideologica e socio-culturale.
Tesi n. 1 (del film, e del coro unanime di consenso di pubblico, genitoriale soprattutto, critica e commentatori variamente assortiti): apparentemente la nostra identità e il nostro comportamento relazionale dovrebbe essere diretto dalla tensione alla gioia (lasciare a Joy il comando della consolle: leggi edonismo sfrenato e superficiale tensione alla felicità totale), ma è necessario conservare il giusto spazio per la tristezza, rispettarla, conviverci, negoziare un ruolo, accettarla. Perché la tristezza può anche essere buona, risolutrice: la vera eroina del film è Sadness, che quando “sporca” i ricordi di base con le sue manine blu in realtà non sta commettendo un errore, ma sta facendo la sua parte.
D’altronde non c’è da stupirsi che Pixar sposi la funzione salvifica di Sadness (non si può dire che WALL-E e Up fossero esattamente film allegri…), all’interno di un macro-sistema di costruzione dell’immaginario familiare e para-familiare (The Walt Disney Company) che di fatto funziona esattamente come il Quartier Generale della testolina di Riley. Pixar è Sadness: la tristezza come strumento di ri-costruzione della famiglia e del nucleo sociale. The Walt Disney Studios (per semplicità: animazione, original movies e original series) è Joy: che bello avere una famiglia! L’anima disneyana è quella che sembra animare la prima parte del film, fino alla scena madre di presentazione nella nuova scuola, e dello scatenamento della crisi: la mamma dice “grazie! Nonostante tutto questo caos sei riuscita a rimanere la nostra… la nostra ragazza felice!”, si preme il pulsante del sorriso e Anger conviene che “non si discute con la mamma: e felicità sia…”. Poi papà fa il verso della scimmia e si va a scuola tutti felici. A Marvel lasciamo il ruolo di Hungry e Fear, con tutte quelle storie di mostri e super-eroi arrabbiati, e ABC (Family) non può che essere Disgust, la mocciosa stilosa che definisce il concetto di coolness e di accettazione sociale sulla base del gusto e del disgusto (estetici prima di tutto).
In questa prospettiva Pixar, e Inside Out, appaiono come l’avanguardia illuminata e progressista di un sistema di costruzione dell’identità collettiva, prima ancora che individuale: è la visione che ha sancito l’approvazione collettiva del film. Insieme, diciamolo subito per fugare ogni dubbio, alla straordinaria qualità cinematografica, sotto tutti i punti di vista, che fanno di Inside Out uno dei più sorprendenti film di animazione di tutti i tempi.
Antitesi n.1 (generata dall’attività frenetica di Anger, Fear e Disgust nella testa di chi scrive): forse la Weltanschauung è un po’ meno illuminata e progressista di come sembra. Come funziona, davvero, la testa di Riley? Intanto non esiste alcuna possibilità di libero arbitrio: ogni azione deve essere necessariamente funzionale al raggiungimento del bene assoluto, che coincide con il mantenimento (e quindi il ristabilimento dopo la crisi) dell’ordine statico, dell’equilibrio come principio fondante della serenità e della felicità. In fondo, le cinque emozioni non sono autonome, ma sempre pronte a sostenere le scelte di Joy; cooperative, forse un po’ intemperanti, ma consapevoli del fatto di essere una squadra che deve proteggere Riley, più che rispecchiarne una molteplicità: la paura serve a mantenerci in vita, la rabbia serve a scaricarci un po’ i nervi, il disgusto a non mangiare la pizza con i broccoli e a vestirci bene.
E la tristezza, naturalmente serve a farci ritornare felici. L’elemento più critico di Inside Out risiede forse proprio nella dimensione puramente strumentale di Sadness: la tristezza ha un’esclusiva funzione catartica o, peggio ancora, liberatoria. Non si tratta davvero di accettare che la tristezza possa essere un elemento di definizione dell’identità, ma piuttosto di dimostrare come un bel pianto liberatorio possa farci stare meglio, dopo, e ritornare a essere felici tra le braccia di mamma e papà. Riley (e l’amico immaginario Bing Bong in una scena pre-fondativa), grazie al contatto con Sadness, piangono e poi si sentono meglio. Dal pianto al compianto, alla partecipazione emotiva dell’Altro scatenata e motivata da una dimostrazione di debolezza e vulnerabilità. In mezzo: il rimpianto.
Sadness, con le sue manine blu e grassocce, “sporca” i ricordi, li rende meno felici, e quindi consente l’azione catartica. Ma soltanto momentaneamente. È nell’ultima (geniale in verità) ellissi prima del finale nel nuovo Quartier Generale, che si consuma l’ambiguità di Inside Out e la sua anima inesorabilmente reazionaria: non è, davvero, consentito avere ricordi tristi, e men che meno “ricordi di base”, fondativi, ma soltanto rimpiangere, cioè colorare di tristezza, i ricordi felici, per poi piangerne, e ricostruirne di nuovi, ancora una volta felici.
È questa funzione meccanicista, e del tutto utilitarista, della tristezza a lasciare perplessi. Insieme a un’altra questione, in realtà anche più profonda: che l’identità sia costruita esclusivamente dai ricordi. Più precisamente l’identità si forma attraverso due forme di rappresentazione finzionale-narrativa: i ricordi (storie del passato) e le prefigurazioni, cioè possibili storie del futuro, spesso costruite illuminando un ricordo, facendo sgorgare un nuovo racconto di sé da uno del passato. Può funzionare come affascinante teoria del cinema, un po’ meno come formalizzazione psicologica: quando Joy è al comando, più che a una pre-adolescente alle prese con le proprie emozioni, Riley assomiglia a un’invasata, un cyborg, dominato da un immaginario finzionale (personale, ma anche collettivo: un Disney original meta-movie) a cui reagisce con espressione ebete, diretta, letteralmente, dai “film” che qualcuno le fa nella testa, grazie al riciclo di plot eternamente maneggiati e manipolati.
Sintesi n. 1 (motivata dal fatto che “il” Joy nella testa di chi scrive probabilmente riesce a prendere il sopravvento e a schiacciare il tasto giusto): in fondo Inside Out è solo un film, anche se un “film mondo”, e come sempre i geniacci della Pixar sono invasati dal sacro demone dell’ironia.
È vero che le cinque emozioni non sono in reale contrasto tra loro, ma in fondo assomigliano (attraverso la soluzione antropomorfa, visivamente e narrativamente straordinaria) a sub-identità soggettive indirizzate e monopolizzate dalle reciproche anime dominanti: Joy è un’inguaribile ottimista a cottimo, che percepisce però la fatica di sorridere a tutti i costi e, più che a un mefistofelico manager della Disney, fa pensare ai vostri peggiori colleghi di ufficio, che portano il caffè a tutti e hanno la spilletta con lo smile, ma se li incontrate in corridoio, probabilmente sbattono la testa contro il muro. E anche Sadness non ha nessuna voglia di essere sempre così triste: è l’amica sovrappeso emo-dark che guarda i film con i cagnolini che muoiono, ma dentro di sé vorrebbe disperatamente indossare il tremendo vestitino corto e giallognolo della sua compagna di scrivania. Così come non vale la pena di prendere sul serio gli altri tre.
Anche perché, se pure Joy e Sadness hanno le battute migliori (“Piangere mi aiuta ad affrontare i problemi della vita in maniera meno emotiva” è una di quelle uscite da segnarsi e riproporre in tutte le conversazioni intelligenti…), non c’è dubbio che i personaggi più simpatici siano i comprimari: se fossimo alla Dreamworks o alla Illumination Entertainment, sarebbero già pronti per un sequel-spin off tutto per loro, come I pinguini di Madagascar e i Minions. E in fondo a un film per bambini non si deve chiedere una consapevolezza e una prospettiva psicoanalitica: è il motivo per cui (pur morendo dalla voglia di farlo…) si eviterà in ogni modo di usare categorie lacaniane per interpretare un film così esplicitamente e spudoratamente cognitivista da mettere due poliziotti cretini a guardia del Subconscio, peraltro popolato dall’aspirapolvere della zia e da un clown alla It (che i titoli di coda ci riveleranno essere un povero aspirante attore frustrato dalle feste con i bambini terribili).
Anche la teoria dell’identità basata sui ricordi ha una ragione molto più semplice, dettata da pura esigenza filmica: i ricordi consci sono incredibilmente più spettacolari e lineari, da raccontare e animare, delle manifestazioni dell’inconscio. Tant’è che anche la sua più semplice espressione, il sogno, viene rimodulato in chiave causale, come un set cinematografico che prende i ricordi della giornata e li rielabora sotto forma di “film di genere”, grazie a un “filtro per la distorsione della realtà” che trasforma il vissuto in cinema. Aberrante dal punto di vista analitico, nemmeno così originale da quello meta-cinematografico, ma irresistibile nel generare il più strepitoso degli inside joke: la feroce parodia della DreamWorks che si trasforma in Dream Productions, casa di produzione dei film per bambini che dormono, vagamente cialtrona e approssimativa, con pochi mezzi (sempre gli stessi attori), effetti speciali scadenti (i denti che cadono davanti alla macchina da presa), e che annoia a morte Fear per la prevedibilità e la ripetizione delle situazioni. Come sempre, gli inside joke, le strizzate d’occhio al pubblico degli adulti, sono una delle componenti più godibili della produzione Pixar, ma questa volta la (solita) domanda (implicita) diventa ancora più sensata: Inside Out è davvero un film per bambini? O piuttosto è un film per adulti, da vedere accompagnati dai genitori?
Tesi n. 2 (naturalmente supportata da tutti i genitori che hanno accompagnato i figli al cinema): è il total entertainment bellezza, il perfetto co-viewing, il cinema transgenerazionale, il divertimento intelligente per tutta la famiglia. Di roba godibile, per mamma e papà, ce n’è davvero tantissima, a partire dalle citazioni cinematografiche: la locandina di Vertigo all’entrata della Dream Productions, la citazione di Chinatown di Polanski con il poliziotto che dice “Forget it, Jake. It’s Cloudtown”, il clown di It, il conducente di bus che nella sua testa pensa “dobbiamo solo rifugiarci nel nostro posto felice” come il taxista di Collateral, Anger come il Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia (e che va in sollucchero per il traffico di San Francisco, pregustando di esplodere in un ingorgo…), il carretto di Bing Bong che assomiglia alla bicicletta di E.T., e almeno un “tornante” da Shining nel viaggio in macchina della famiglia, insieme al topo morto che, nell’incubo di Riley, le dice “vieni a vivere con me”, seguito da due fette gemelle di pizza ai broccoli…
Con una punta di perversione enciclopedia estrema, l’intera fase dell’arrivo nella nuova casa di San Francisco assomiglia in modo affascinante all’analoga situazione nel pilot di American Horror Story: anche gli Harmon arrivavano con un’adolescente poco convinta in una città della East Coast (là da Boston a Los Angeles), si trovavano di fronte a una casa da incubo gotico (in cui i gemelli fantasma, anni prima, avevano scoperto un topo morto…), ma poi venivano convinti dalla figlia “conquistata” (e posseduta, non molto diversamente da quanto accade a Riley per merito di Joy) da una stanza… Certo, nella versione di Ryan Murphy, la madre di Riley non si sarebbe limitata a sognare ad occhi aperti il pilota brasiliano che la chiamava gatinha, il papà non avrebbe parlato davvero al telefono con il suo capo, il clown diabolico sarebbe comparso e Bing Bong avrebbe divorato Riley nel suo ritorno dal rimosso…
Sono i genitori, gli zii, e i fratelli maggiori, e non i bambini, a ridere del castello delle fate demolito che assomiglia a logo della Disney (ironia, e auto-ironia), del peluche decapitato come le statue di Lenin, del jingle terribile della Triple Dent e dei “fatti e opinioni sempre uguali”, così come dello stereotipo del ragazzo modello e del pulsante “pubertà”, della declinazione dei cinque personaggi sui titoli di coda, e di tutte le “cose intelligenti” di cui il film è costellato.
Antitesi n. 2 (ispirata dal padre scrivente, che il film lo ha visto prima da solo): davvero è così facile? Davvero le isole identitarie possono, e devono, essere sempre così semplici e reazionarie: famiglia, amicizia, onestà, hockey, gioco? E davvero poi devono, e possono, così facilmente essere affiancate da Amore Tragico Vampiresco, Moda e Boy Band alla soglia dei dodici anni? Non avrebbe diritto di cittadinanza anche un’Isola del Dolore?
Inside Out, per ritornare a Benzoni, rischia di risolversi in un film per adulti nella forma di un manuale delle istruzioni consolatorio, generatore di un’idea di figli docili e appagati, meglio se appagati di spettacoli che piacciono anche a loro. Con i quali, almeno fino ai dodici anni, basti mimare il verso della scimmietta perché, dentro la loro testa, una solerte Joy schiacci il pulsante del sorriso, ai quali basti fare un complimento ricattatorio (“Tesoro, stiamo vivendo una situazione di merda, ma per fortuna tu sei la nostra bambina felice… Puoi fare un sorriso per il papà che è al telefono con non so chi, probabilmente con la mamma di quella bambina che viene a scuola con te e ti prende in giro davanti a tutti?”), perché ci facciano passare qualsiasi mancanza di attenzione. E dei quali si possa compiangere qualsiasi pianto liberatorio, sicuri che si tratti soltanto di un rimpianto, e non dell’impianto di qualcosa di nuovo, diverso, difficile, pericoloso.
Un’idea di figli che funzionano secondo nessi di causa ed effetto, come una consolle, che con il tempo ha soltanto bisogno di aggiungere nuovi pulsanti, e per i quali mamma e papà rimarranno sempre pretty cool (intollerabile aggiornamento linguistico para-adolescenziale di una venerazione infantile senza possibilità di scarto: sei la/il mamma/papà migliore del mondo).
Sintesi n. 2 (generata dopo che il padre ha rivisto il film con le figlie): d’ora in avanti potrò usare Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto per giocare con loro, per fare domande cretine su quello che sta succedendo nella loro testa, per disinnescare una rispostaccia con l’omino rosso, l’indecisione di come vestirsi alla mattina con la donnina verde, uno spavento con il tizio con il nasone. E per spiegare, forse anche in modo semplice, affascinante, divertente, che: no, Gioia e Tristezza sono simpatiche, ma non funziona così, ed è tutto molto, molto più difficile.
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