Iván Thays. Un posto chiamato Oreja de Perro

24 Maggio 2012

La voce narrante non perde tempo. Scopre le carte fin dalle primissime pagine: la paternità mutilata del protagonista, l’abbandono da parte della moglie, l’incarico che il direttore del quotidiano gli assegna in una delle zone più desolate del paese, la musica caraibica del tutto inopportuna in mezzo alle Ande peruviane, le fosse comuni e il silenzio di mosche di Oreja de Perro. Orecchio di cane, in italiano. Forse per la particolare conformazione del territorio, di difficile accesso, i sassi che ricoprono il terreno brullo sembrano nei sulle estremità cartilaginose dei cani. In realtà sono stati i militari a dare questo nomignolo alla fascia meridionale del distretto di Chungui, nel dipartimento di Ayacucho, che visto su una qualsiasi carta geografica sembra la sagoma di un cane seduto. O forse c’è un’altra spiegazione plausibile, quasi una premonizione, considerata la storia recente del Perù, perché per vent’anni in quel luogo si sono ammazzate centinaia di persone con la stessa efferatezza riservata alle bestie nei mattatoi.

 

Mescolando la messa in scena della dimensione pubblica della scrittura attraverso la professione dell’io narrante – un anonimo giornalista dal passato televisivo – e il suo intimo soliloquio marcato da sporadiche note di taccuino all’interno del testo, lo scrittore peruviano Iván Thays compone la trama del romanzo Un posto chiamato Oreja de Perro (Fandango, febbraio 2012, trad. di Anna Mioni, 223 pp., 16 euro) muovendosi con grande agilità su tre assi narrativi. La storia, privata e taciuta, di una lettera che il protagonista non scriverà mai alla donna che lo ha lasciato, memento aperto di un lutto non elaborato; la tragedia collettiva della violenza politica e della sistematica violazione dei diritti umani durante il conflitto armato interno al paese; la circostanza del suo breve soggiorno in questa frazione sperduta e anonima della provincia di La Mar. Anonima fino a quando la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, istituita nel 2001 dopo il crollo del governo Fujimori, non la menziona come area in cui la lotta armata ha compiuto le peggiori atrocità sulla popolazione, costituita in prevalenza da comunità indigene.

 

                                                                                 

Tuttavia, il protagonista ha altro per la testa, il mal di montagna lo perseguita così come l’immagine di sua moglie, una specie di Mia Farrow all’epoca del matrimonio con Frank Sinatra, dai capelli cortissimi e l’aria disordinata. E non pare neppure molto interessato alle peculiarità delle dinamiche interne al conflitto, se non fosse per quella forma di voyeurismo sviluppata davanti alla tv via cavo che trasmette senza interruzioni le audizioni delle vittime. E se non fosse per Jazmín, saggia e laconica, almeno fino a quando non decide di raccontare, ancora nuda, in pieno buio, la storia di sua madre che è la storia di centinaia di donne indigene vittime di una violazione al quadrato, quella del disprezzo, metodico e premeditato, del corpo femminile durante il conflitto armato, così come ha sottolineato più volte Maria Rosaria Stabili, storica dell’America Latina.

 

L’autore affida proprio a lei, Jazmín, credibile personaggio-ponte tra i valori della comunità contadina quechua e una dimensione urbana più intellettualizzata incarnata dal protagonista, di Lima, il triplice compito di ascoltare l’inespresso, narrare l’indicibile ed essere il capro espiatorio per il culto di quella supermascolinità che sta alla base tanto dell’ideologia militaresca quanto del giornalismo d’assalto personificato da Scamarone.

Il punto di vista di quest’ultimo, cinico e sfacciato fotoreporter senza peli sulla lingua, salva la narrazione da perniciosi accenti pietistici, che l’autore scansa puntualmente dalle sue pagine inserendo con disinvoltura la vicenda dell’uomo che ha perso la memoria, cameo allegorico che offre al lettore la possibilità di un ulteriore livello di lettura dell’intero romanzo.

 

Nel 2007, durante la Fiera Internazionale del Libro di Bogotà, all’interno del Progetto Bogotà 39 sono stati selezionati i trentanove autori giovani più rappresentativi del recentissimo panorama letterario latinoamericano. Tra di essi spicca il peruviano Iván Thays, che sarà finalista l’anno successivo del prestigioso premio Herralde della casa editrice spagnola Anagrama, proprio con questo suo romanzo ambientato a Oreja de Perro.

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