Malick e l'inafferrabile leggerezza dell'esistente / "Knight of Cups"
22 maggio 2011: nella serata conclusiva del 64° Festival Internazionale del Cinema di Cannes, la giuria del Concorso internazionale lungometraggi, presieduta da Robert De Niro, assegna la Palma d'oro per il miglior film a The Tree of Life, quinto lungometraggio di Terrence Malick in 38 anni di carriera. Quella data e quell'evento rappresentano uno spartiacque nella vita artistica del regista di Ottawa, Illinois. Da un lato, infatti, segnano una nuova fase della sua carriera, caratterizzata da un'inedita iperattività che fa da perfetto contrappunto ai lunghi silenzi creativi del passato: cinque anni tra La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978), venti fra questo e La sottile linea rossa (1998), altri sette prima di arrivare a The New World (2005), sei per il succitato The Tree of Life. Dall'altro, pongono fine a quell'inviolabilità critica che ha da sempre contraddistinto la carriera del cineasta, sin dagli esordi. Da allora, sono fioccate le espressioni contrariate, gli sguardi in tralice, le bonarie paternali, gli inviti a volare basso e a non atteggiarsi a filosofo, e infine le aperte invettive. E se il successivo To the Wonder (2012), giunto a distanza di appena sedici mesi dal giubilo della Palma d'Oro, era riuscito a mantenersi sulla linea di galleggiamento del consenso grazie soprattutto ad alcuni abbacinanti squarci di cinema malickiano d'antan, con l'ultimo Voyage of Time (2016) – complice, forse, l'abbandono dell'antropocentrismo della messa in scena, sul quale torneremo a tempo debito – la percezione del cinema di Malick è scivolata irrimediabilmente verso l'aperto dileggio.
In mezzo ai due titoli di cui sopra c'è Knight of Cups, presentato alla Berlinale 2015, forse l'opera del regista che ha maggiormente polarizzato il giudizio critico. Su un fronte, l'esercito degli irredentisti, convinti che Malick continui a fare film che non siano niente di meno del capolavoro, come ebbe a dire il decano dei critici statunitensi Leonard Maltin; tra questi vale la pena citare Richard Brody del New Yorker, che in un lungo ed entusiasta articolo esordisce affermando che "nessun film nella storia del cinema segue i movimenti della memoria così fedelmente, appassionatamente e profondamente come Knight of Cups", per poi chiosare: "[...] la produzione di bellezza in un mondo di sofferenze, e a partire dalle tue stesse sofferenze, è la cosa più vicina a una chiamata divina che un artista possa avere, e la cosa più vicina all'esperienza religiosa che l'arte possa offrire". Sull'altro versante, il non meno nutrito battaglione dei revisionisti, al quale ormai sembrano essere venute a noia anche le proverbiali bizzarrie del regista sul set: nel caso specifico, attori lasciati senza sceneggiatura ed edotti a colpi di "pizzini" consegnati nell'imminenza delle riprese di ciascuna scena, contenenti indicazioni men che generiche sulla stessa; oppure interpreti fatti irrompere nel mezzo di una scena in cui la loro presenza non era prevista, e all'insaputa dei colleghi.
Il coro, da questo lato della contesa, è unanime: a Malick viene rimproverato il ripiegamento ombelicale su ossessioni che appartengono solo a lui, con l'aggravante di ammantarle di un ecumenismo perlopiù velleitario, capace di convocare i massimi sistemi al solo fine di strumentalizzarne gli elementi più superficiali con il pretesto di produrre un sedicente "cinema di poesia". Anche in questo caso, avremmo gioco facile nel pescare nell'ampio serbatoio dei detrattori d'oltreoceano, ma proprio al momento di scrivere queste righe ci passa sotto gli occhi il severo pamphlet pubblicato sul Venerdì di Repubblica, a firma di Cristiano Governa. Il quale, oltre a rinfacciare a Malick la laurea in filosofia a Harvard e l'interesse per Heidegger e l'ontologia, sancisce l'ontologica (appunto...) inutilità del confronto tra sostenitori e denigratori, i quali "lo adorano e lo odiano per lo stesso motivo: non capiscono niente di cosa stia dicendo".
Questo è il terreno, invero assai accidentato, sul quale si gioca la "partita" di una lettura senza pregiudizi di Knight of Cups. Che a onor del vero, non fa nulla per rendere il nostro lavoro più agevole. Tutt'altro; in quest'opera tanto ambiziosa quanto contraddittoria, Malick riversa tutta la radicalità del suo sguardo, ormai completamente svincolato – lo ammette persino l'apologetico Brody, in un altro passaggio del suo encomio solenne – dal bisogno di ancorare l'immagine al sonoro secondo un rapporto di stretta interdipendenza. Neanche Robert Bresson o gli avanguardisti più radicali si erano spinti così oltre: in Knight of Cups, semplicemente, suono e immagine raccontano due storie diverse, seguendo traiettorie del tutto indipendenti l'una dall'altra. Eppure, per paradosso, è solo attraverso la costante tensione dialettica tra questi due circuiti che è possibile distillare un senso autentico dal film. Senso che è grossomodo quello dei film precedenti: cercare di afferrare l'inafferrabile materia prima dell'esistente per mezzo di una sua inesauribile interrogazione. Con piccole varianti rispetto al passato: infatti, se The Tree of Life e To the Wonder (concentriamoci solo su questi due, giacché Knight of Cups appartiene alla medesima famiglia) sembravano, ciascuno a suo modo, vagheggiare un altrove in cui la triviale materialità della vita, il suo peso e la sua limitata finitezza, venissero destituite di ogni centralità, in Knight of Cups è proprio il triviale, il volgare, persino lo scatologico, a dominare la ricerca del protagonista. Sotto questo aspetto, l'opera numero otto di Terrence Malick è quasi una riscrittura in maschera dell'ormai lontano La sottile linea rossa.
Lì la tragica matericità della guerra a fare da sfondo alle riflessioni di un manipolo di personaggi ciascuno alle prese con il suo personale Dasein (eccolo Heidegger...), qui un solo personaggio alle prese con il tentativo di ricomporre il puzzle di un'esistenza destrutturata nel luogo meno materico e al tempo stesso più greve e tronfio della Terra: Hollywood.
Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi sulla frequenza sempre più sostenuta con cui cinema e televisione mettono il naso nelle pieghe più oscure della più potente industria dell'entertainment globale, con il solo scopo di tirarne fuori lacerti di umanità dissennata, prigionieri di quell'edonismo apparentemente indispensabile per sopravvivere alle lusinghe di un luogo così traboccante di tentazioni. Autori di intelligenza adamantina come David Lynch (ma Mulholland Drive, ormai, è quasi un progenitore) e David Cronenberg (Map to the Stars), sapidi commedianti come Ben Stiller (Tropic Thunder) e qualche serie televisiva di indubbia arguzia come Entourage o Californication hanno corteggiato a più riprese la parte deteriore della Mecca del Cinema, distillandone materiale narrativo con un manualistico mélange di attrazione e repulsione. D'altronde, non è la stessa operazione messa in atto dai fratelli Coen in Ave, Cesare!, malgrado l'ambientazione negli anni Cinquanta?
Non sembra pretestuoso né casuale, allora, il fatto che il Rick interpretato da Christian Bale in Knight of Cups somigli a una versione esistenzialista dell'Hank Moody incarnato da David Duchovny proprio in Californication. Entrambi sceneggiatori disillusi, entrambi schifati dalla vita e da loro stessi, entrambi circondati da donne bellissime eppure inquieti ed errabondi. Rick è il cavaliere di coppe del titolo, la sua identità appare incardinata nella carta dei tarocchi che lo rappresenta: e con lui gli uomini e le donne della sua vita, presentati in una successione di capitoli che mutuano il titolo dalle carte loro associate. Poco a poco, veniamo a conoscenza dei traumi del passato di Rick – un fratello morto, un matrimonio fallito – e dei suoi tentativi, perlopiù velleitari, di riscatto personale. I quali passano tutti per delle conoscenze femminili. Muovendosi fra Los Angeles e Las Vegas come una zattera alla deriva, senza sottrarsi mai ai vizi e all'abiezione, solo in occasione dell'ultimo incontro Rick riuscirà a intravedere la luce in fondo al tunnel.
Stipato all'inverosimile di immagini di una bellezza tale da lasciare senza fiato –
la fotografia è del messicano Emmanuel Lubetzki, specialista dell'uso della luce naturale, abituale collaboratore di Alfonso Cuarón e Alejandro González Iñárritu, al fianco di Malick dai tempi di The New World –, cullato da movimenti di macchina (spesso a mano, per quanto possa apparire incredibile) tanto morbidi quanto non incasellabili in un codice preciso, saldato alla curiosità spettatoriale dalla presenza della consueta vendemmia di divi (oltre al già citato Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Antonio Banderas, Freida Pinto, Wes Bentley, Brian Dennehy, più la voce narrante di Ben Kingsley), Knight of Cups è un film volutamente enigmatico, che non fa nulla per nascondere la propria afasia, evidente malgrado gli estenuanti monologhi "joyciani" (in molti hanno parlato di stream of consciousness) in voce over che accompagnano l'erranza di Rick. Dice molto, ma non riesce a dire tutto, e per questo, al pari del suo protagonista, si macera nel dubbio e nell'incertezza. La macchina da presa guarda a destra, poi a sinistra, cerca un personaggio, lo trova, poi cambia idea e lo abbandona, rapito da una nuova suggestione, da un pensiero che si sovrappone al precedente e lo soffoca. In questo, Malick è un maestro: riesce a trasformare uno stato d'animo non decodificabile in stile, dotandolo di una cifra, e dunque di una sostanza. Basterebbe questo a fare dei suoi lavori una delle poche esperienze imprescindibili del cinema contemporaneo, senza scomodare paragoni letterari inopportuni. Per chi invece cerca un'esperienza visiva e uditiva più tradizionale, si prega di ripassare.