Kyla Davis: To walk is easy

13 Marzo 2014

La incontro proprio a Nosadelladue, l'accogliente spazio che ospita artisti in residenza in un bell’appartamento all'angolo della suggestiva Piazza Malpighi, nel centro storico Bologna. Kyla Davis, performer e regista sudafricana, fondatrice della Well Worn Theatre Company, a quel punto è in Italia già da tre mesi, infatti ha ormai fatto sue le abitudini di baciare sulle guance per salutare e sorseggiare vino mentre si chiacchiera.

 

Per quel che riguarda il suo lavoro in residenza, invece, quando la incontro ha terminato una lunga serie di laboratori teatrali realizzati in diversi paesi della provincia felsinea, e non si è fatta mancare due incursioni nelle realtà occupate delle principali città italiane: il Teatro Valle a Roma e il Macao a Milano, in cui ha tenuto dei laboratori immergendosi completamente nelle dinamiche e nelle tematiche delle due autogestioni e dei rispettivi promotori.

 

Ph. Laura Molinaro

 

In maniera estremamente low-profile, tipica degli artisti formatisi nella cultura anglosassone, mi ha raccontato di cosa l'appassiona e di come cerchi di convogliare nei suoi lavori, i suoi interessi e ciò che la emoziona in prima persona. Ammettendo di non aver ancora deciso se si sente più regista o più performer mi ha parlato dell'esperienza italiana e di come le abbia permesso di affrancarsi dalle aspettative che hanno su di lei operatori e pubblico sudafricani, che la conoscono come una “teatrante-attivista” dedita alle cause dell'impatto ambientale e della sostenibilità.

Riporto qui una parte del lungo confronto avuto con Kyla Davis prima del suo debutto italiano, in occasione di Artefiera.

Eleonora Felisatti: Leggo che dichiari di aver sempre voluto essere performer. Come hai lavorato col corpo nei laboratori che hai tenuto in giro per la provincia di Bologna e che cosa vedremo in scena venerdì sera?

Kyla Davis: Vengo da una formazione di teatro fisico, da una scuola di Londra che non esiste più la 'School of Physical Theatre' fondata da Jaques Lecoque, il quale ha formato diversi pedagoghi che poi si sono spostati a praticare in giro per il mondo. Uno di questi era Ron East, il mio insegnante, quindi si può dire che io abbia una formazione lecoquiana di seconda generazione. Prima avevo avuto un training di teatro molto tradizionale basato sui testi, e dall'esperienza londinese ho deciso di specializzarmi in un teatro più fisico. In particolare il corso che avevo seguito si focalizzava sulla ricerca di una propria voce creativa attraverso il proprio corpo. East lo definiva un “apprendimento esperienziale”. Ora tutto quello che faccio in campo artistico, ma anche nella vita, deriva dai principi di quella pratica.

 

In genere nei miei laboratori, parto dai giochi perché sono le fondamenta, il principio di tutto, per me: ciò da cui partono le idee, quelle di esperienza e di apprendimento. Poi passo a lavorare su aspetti come il ritmo, la fiducia negli altri e in se stessi all'interno del gruppo. E ancora il gesto fisico in relazione alle emozioni, l'esperienza dello spazio e l'esperienza con un'altra persona, la memoria e il ricordo. L'idea è di portare il subconscio nel reale. Il mio insegnante diceva: rendere visibile l'invisibile, attraverso il proprio corpo. Poi si passa alle parole, per prima cosa verbalizzo la mia percezione degli spazi dove sono stata attraverso singoli concetti chiave, per poi chiedere ai partecipanti di rispondere fisicamente, emotivamente, intuitivamente a questi attraverso il gesto. Qui a Bologna, c'è stata una parte di raccolta delle loro storie sui posti. Ho chiesto loro di raccontarmi i luoghi e fissare alcune parole, per poi averne un racconto condiviso.

 

Questo, in generale, il processo di lavoro, che veniva di volta in volta assestato per ogni gruppo, lavorando con gruppi misti di professionisti e non, che è una modalità che amo molto perché in questo modo i partecipanti si bilanciano gli uni con gli altri. Ogni gruppo era diverso, per capacità e competenze, ma anche il luogo e lo spazio variavano. Quindi nella performance finale credo emergerà una sorta di album vivente, che raccoglie immagini, esperienze, personalità.

EF: I cinquantotto partecipanti ai tuoi laboratori della provincia di Bologna, saranno in scena tutti contemporaneamente?

KD: Si. Lo spazio, il Senza Filtro è molto grande, e il pezzo è anche in buona parte ‘site-responsive’. Il luogo è stato scelto anche per quello, oltre che per il fatto che si lega al tema che abbiamo indagato: di ri-convertire lo spazio. Un ambiente vuoto a cui le energie e le potenzialità umane danno vita. Quindi sia pubblico che performers si muoveranno nello spazio.

EF: Fra i temi su cui lavori c'è il cambiamento paesaggistico, climatico e ambientale e come si ripercuote sulla vita degli esseri umani, anche la tua ricerca qui ha seguito questa pulsione?

KD: L'opportunità di stare qui a Bologna è stata una grande esperienza per me, perché lavorare a Johannesburg da questo punto di vista è un po' limitante: ormai la gente sa che io lavoro su certe tematiche, quindi mi vengono richiesti laboratori e spettacoli incentrati su temi come l'acqua, il cambiamento climatico, etc. Mentre qui ho lavorato sul tema più ampio degli esseri umani e il loro luogo. Se vivi in campagna il tuo luogo è la natura, mentre se vivi in un contesto urbano il tuo luogo è la città, che diventa il tuo ambiente “naturale”, e da li parte l'idea di come vivere la città in maniera più sostenibile.

 

Nel lavoro fatto qui a Bologna non ho definito nessun tema specifico all'inizio dei laboratori. Alcune persone, ad esempio quelle più anziane hanno un ricordo molto diverso del posto, rispetto a com'è ora. E se tu non li forzi all'interno di un tema prescritto queste visioni sbocciano spontaneamente, e vengono affrontate con naturalezza.

 

Ph. Laura Ravallese

 

Nei laboratori ci sono state anche persone che appartengono al Transition Town Movement, che è una rete di comunità urbane che cercano di rendere sostenibili le comunità in cui vivono. Le persone che sono venute al centro Labas erano di ‘Città di Transizione’ di Bologna e di Sala Bolognese e non sono, ovviamente, performers ma hanno detto che il workshop esplorava da un punto di vista fisico i principi del loro movimento. Questo mi lusinga perché è proprio come mi sento io, cioè che si può parlare degli argomenti che si vogliono affrontare senza mai entrare in un dibattito intellettuale, ma compiendo piuttosto un viaggio empatico.

EF: Come mai hai optato per un lavoro fisico per affrontare le tematiche che t'interessano? In quale modo ritieni che il corpo umano funzioni meglio di testi informativi, utilizzo di nuovi media e tecnologie, per metterle in scena?

KD: Non ho niente contro le parole o i mezzi multimediali, ho invece qualche resistenza rispetto ad un teatro che sia iper-intellettuale perché lascia fredda me, in prima persona, vedere un lavoro che mi vuole dire qualcosa, o mi vuole mostrare qualcosa che qualcuno crede dovrei sapere o cercando di dimostrare la sua tesi in qualche modo. Nei miei lavori voglio raggiungere la rimozione di quello spazio tra performers e pubblico, che impedisce di provare qualcosa di fronte ad una performance. M'interessa un teatro più “incarnato”, più autentico, anche se si tratta di un solo attore seduto sul palco che recita un monologo. Per me è questione di autenticità e di vera presenza in scena, quello che mi aiuta a connettermi con un tema, un personaggio, un'idea.

 

Ph. Laura Molinaro

 

E questo è quello che voglio ispirare nel mio lavoro, non semplicemente una lezione drammatizzata. Il motivo per cui mi sento così legata a questo modo di lavorare è che tutti gli argomenti che m'interessano, dai cambiamenti climatici alla sostenibilità, all'ottimizzazione energetica possono essere estremamente noiosi. Si tratta generalmente di idee molto intellettuali e spesso molto complesse, quindi secondo me non aiuta per niente sconfortare il pubblico, e si rischia di far sentire le persone come se non fosse un loro problema, ma come se fosse una questione prettamente governativa, o accademica, o scientifica, o di chiunque altro ma non loro, perché non lo capiscono. Non è necessario far capire tutto a tutti, per stimolare l'impressione che tutti possiamo prender parte alla soluzione.

EF: In realtà da quello che hai detto fino ad ora avevo l'impressione che ti muovessi principalmente nel territorio della 'performance'. Per quelle che, nella storia della performance, sono state le caratteristiche che hanno fatto sì che gli artisti performassero le loro espressioni, piuttosto di strutturarle in un teatro più tradizionale, che avrebbe avuto restrizioni e confini più definiti all'interno dei quali inserire i temi d'interesse. Invece la performance permette un'espressione più intima e spontanea del sé dell'artista. A questo punto, però, perché per il lavoro di Bologna ti ritrovi di più nell'etichetta di 'happening'?

KD: In questo caso è per forza un happening, perché la messa in scena di un lavoro teatrale con quasi sessanta persone richiederebbe un anno di preparazione, minimo, per creare qualcosa di curato nei dettagli e consolidato tramite le prove. Io sto indagando qualcosa di diverso con questo lavoro. In genere non opto per l'improvvisazione, mi piace la coreografia, mi piace che le cose siano provate, mi piace che le persone sappiano dove devono andare e cosa devono fare in modo da potersi rilassare e divertire. In questo caso ho avuto tre mesi per provare quest'idea enorme, con delle persone meravigliose che hanno voluto investirci il loro tempo ed energie, e ne è uscito un happening teatrale. Avviamo fatto esercizi e giochi, sono esperienze di pratiche teatrali, che adesso mettiamo insieme per mostrare il percorso condiviso.

EF: Poi la forma di happening suppongo dia la possibilità a qualcosa di non programmato di venir fuori nel momento stesso in cui sta avvenendo?! Qualcosa che possa stupire sia te, che i performers, che il pubblico.

KD: Esatto! E questa è il mia fortuna rispetto a questa esperienza, perché se avessi fatto il lavoro in Sud Africa, a Johannesburg, su commissione di qualcuno, forse avrei avuto delle richieste precise, e quindi delle “restrizioni”. In questo caso ho potuto esplorare in direzioni che ho sempre desiderato esplorare. Questo è stato una specie di regalo a me stessa. Sebbene lo abbia concepito in maniera molto strutturata: non sto dicendo che c'è completa libertà per i partecipanti, entro certi limiti c'è comunque spazio per qualcosa che nasca quel giorno, specialmente perché non abbiamo avuto molto tempo per essere tutti insieme. Quindi già questa cosa in se porterà qualcosa di magico. Di solito facevamo le prove in gruppi più ridotti.

EF: Diteci qualcosa del progetto di scambio tramite il quale hai potuto svolgere questa residenza in Italia.

Elisa Del Prete: Nosadelladue è stata scelta dall'Africa Center come partner italiano per il programma di A.I.R. (Artist In Residence)2012-14, i cui progetti sono volti alla circuitazione di artisti, in questo caso africani, in giro per il mondo. Nello specifico, all'artista veniva offerta la possibilità di trascorrere un periodo di ricerca all'estero.

 

La nostra scelta è caduta su Kyla, nonostante il nostro focus sulle arti visive, per la sua modalità di lavoro laboratoriale, quello che m'interessava era lo scopo che ha la sua ricerca teatrale, e non tanto una performance finale. La proposta è poi passata alla Provincia, proprio nel momento in cui era stato annunciato che le Province sarebbero state abolite e si poneva la questione di come mantenere tutte la differenze e i valori legati ai singoli territori. E lì ho trovato lungimiranza nell'appoggiare la ricerca di un'artista straniera che indaga la sostenibilità e le calamità naturali, che avevamo esperito di recente in forma di terremoto, poi ciclone... Poi era interessante anche portare a Bologna il suo sguardo come artista interessata al contesto urbano, visto come contesto naturale in cui viviamo, e proveniente da una città traumatica e difficile come Johannesburg.

 

Ph. Valeria Talamonti

 

Devo dire che in questo senso la collaborazione con l'Africa Center è stata davvero preziosa, perché si sono posti il problema di cosa stavamo facendo in termini di arte pubblica e processi partecipativi, e conoscendo il lavoro di Kyla hanno avuto la grande idea di facilitare l'incrocio dei nostri percorsi.

 

I laboratori al Valle, al Macao, e al Laban non erano programmati all'inizio. E se, nei laboratori che Kyla ha tenuto sul territorio bolognese lei in prima persona ha dato e ricevuto qualcosa, le altre tre occasioni hanno rappresentato un'esperienza prevalentemente di ricerca teatrale, immersa in un contesto culturalmente, socialmente e intellettualmente molto connotato.

KD: L'unico commento che vorrei aggiungere circa la “casualità” dell'essere finita in Italia, è un concetto che ribadisco sempre all'inizio delle mie pratiche laboratoriali, ovvero: che non ci possono essere “inconvenienti”, ma solo “opportunità”.

 

Un enorme elemento di sorpresa, per me, dell'essere stata in Italia in questo momento è stato ritrovare tante somiglianze tra il mio lavoro e gli obbiettivi che cerco di raggiungere in Sudafrica abbiano e quello che succede al Teatro Valle, o al Macao, e la generale disillusione dei giovani italiani; sono stata sorpresa di aver incontrato questo in un altro paese, molto lontano dal mio, e questo ti fa sentire come se fosse un sentimento globale, o forse non globale ma tra paesi “che lottano”.

 

Mi ha sorpreso la battaglia degli artisti in Italia, che si identifica molto con quella della comunità artistica a Johannesburg, che si tratti di compagnie, organizzazioni, o individui. Sono stata ispirata dal trovarmi qui, in questo momento, a Bologna, e in qualche modo mi ci sento molto a mio agio ora.

 

Ph. Laura Ravallese

 

Sono stata sorpresa anche dalla quantità di aspetti simili che ci sono nelle risposte ad un sistema che è marcio. In Sudafrica c'è un governo corrotto che contribuisce ad implementare un sistema malato, e per qualche motivo provo una certa solidarietà perché quello che sto cercando di realizzare nella mia città, con il mio gruppo è una sorta di reazione a quel sistema. Ho ritrovato le stesse cose in Italia, a Roma, Milano, Bologna. Ed è interessante condividere delle esperienze con qualcuno con cui non condividi nemmeno la stessa lingua. Siamo, però, associabili nella lotta per un miglioramento dell'arte, della sostenibilità, della politica.

EF: Come pensi d'inserire l'esperienza fatta qui nel tuo “archivio personale”? O come pensi di portarla avanti?

KD: A Johannesburg, la nostra compagnia si è trasferita all'interno di uno spazio teatrale da circa un anno, come compagnia stabile. Non è di nostra proprietà, fa parte di una scuola, che non la usava, e abbiamo un accordo di scambio con loro. Io ho sempre sognato che fosse uno spazio veramente partecipativo, ma per ora non è stato così: io e poche altre persone lo portiamo avanti. Quando tornerò lì sento che vorrò aprire qualche conversazione su come dovrebbe essere la partecipazione pubblica, cosa intendiamo quando diciamo vieni e fai qualcosa. Cosa intendiamo veramente? Sicuramente vorrei avere dei momenti di condivisione della mia esperienza qui, mostrando anche le immagini. E poi ho in mente un grosso progetto teatrale per Johannesburg, che effettivamente elaboro da un po' di tempo ma cui non mi sono mai buttata, preoccupata della mancanza di fondi, di attori professionisti, di questo e di quello, ma questa esperienza mi ha insegnato che non serve molto altro che persone volenterose.

EF: Il tuo teatro, o performances, o happenings si può definire politicamente impegnato o in qualche modo politico? Se si come? Se no perché?

KD: Il mio intento è di rendere personale ciò che è politico. In quel senso si, la natura personale di questa performance, e il modo in cui quelle storie personali si collegano tra loro lo rende politico. E anche il contesto in cui si svolge qualcosa, se penso a posti come il Valle o il Macao, sono estremamente politici. E a Johannesburg anche la mia compagnia non può agire senza impegnarsi con la politica. Ma non si può certo dire che appoggiamo una qualche idea politica.

EF: E questo si ricollega al fatto che tu preferisci avere i corpi, e le loro storie, e le loro prospettive sulla storia o sull'ambiente o qualsiasi altro tema, piuttosto di altri mezzi. 
A parte il tuo insegnante di Londra e la scuola lecoquiana, quali altri artisti consideri riferimenti? Da seguire o eventualmente anche da evitare.

KD: Nel mio lavoro vorrei davvero raggiungere l'obiettivo di creare un ensemble teatrale forte, un gruppo di persone che lavori regolarmente insieme, condividendo ideali e metodologia.


Sono molto ispirata da una compagnia polacca di matrice grotowskiana chiamata Gardzenice, dal nome della città in cui vivono, che è diventata una sorta di città-teatro. Il motivo per qui mi sento ispirata da loro è che quando si riuniscono per lavorare ad una produzione vivono, mangiano, respirano, dormono, lavorano insieme teatro. E ammiro quel tipo di immersione in un'esperienza. Io stessa ho avuto modo di lavorare così in Malawi, a Bath, in Grecia, e mi piace molto quel tipo di “teatro intensivo”, in cui per un po' di tempo sei completamente perso in quella dimensione. Non ho mai amato quel tipo di teatro che implica andare di audizione in audizione, e poi avere poche settimane intensive di prove. Ed è anche per questo che preferisco fare lavori miei, perché mi piace perdermi in un'idea.

 

A Gardzenice sono completamente isolati, in mezzo al nulla, e completamente persi nelle loro idee e nel loro luogo. C'è un'esperienza simile anche qui, poco fuori Bologna, il Teatro delle Ariette. Anche loro vivono in campagna, hanno il loro spazio teatrale, coltivano il loro orto, e creano lavori che sono abbastanza biografici, su come hanno vissuto la loro terra. Sono come un teatro-famiglia.
Un altro gruppo che mi ha ispirata è di origine russa, basato in Germania, Derevo. Fanno un incredibile teatro d'immagini, piuttosto grottesco, molto bello, quasi come quadri.

 

Poi c'è una compagnia teatrale a Bath, chiamata Kilter, (il significato della parola è simile a 'equilibrio'). Anche loro fanno teatro sulla sostenibilità, in maniera sostenibile, quindi anche loro usano il teatro per parlare di sostenibilità, e in questo sono una grossa influenza per me.

 

In Sudafrica, fammi pensare (esita) … è sempre difficile trovare ispirazione vicino casa propria. La compagnia con cui abbiamo lavorato al progetto Planet B, i Fresco Theatre, anche loro provengono dalla scuola di Lecoq, e lavorano con immagini e maschere, in un modo che ha molto influenzato il mio lavoro.
Jacko Bouwer è un altro artista abbastanza all'avanguardia che lavora in Sudafrica al momento, dopo aver lavorato a lungo ad Amsterdam.
A chi non voglio assomigliare? Come ho già detto, a qualsiasi compagnia che lavora da un punto di vista puramente intellettuale.

EF: Inclusa anche la drammaturgia classica?

KD: Dei classici è raro vedere delle produzioni che siano completamente “vive”. La maggior parte delle volte vado a vedere questi lavori e penso: non mi dice niente di nuovo, non mi fa provare nulla e me ne vado pensando: ma perché? Perché continuare ad investire in quest'idea così mainstream di teatro tradizionale, che non sta andando da nessuna parte. Non so se sia diverso qui, ma a Johannesburg nessuno va a teatro comunque. L'industria cinematografica e televisiva sono predominanti, ma per quanto riguarda il teatro è molto difficile vedere delle produzioni. Per questo mi fa molto arrabbiare quando vedo delle produzioni fatte male, perché penso che scoraggi la gente.

EF: E per chi fa il tipo di teatro che fai tu? C'è pubblico?

KD: No. Se la gente non vuole correre il rischio con un teatro commerciale, allo stesso modo non si avventurano a conoscere il teatro indipendente.
A Johannesburg ci sono grossi teatri mainstream che hanno una programmazione rivolta principalmente ai turisti, in stile Broadway, che offrono spettacoli tipo musical, fai conto Il Re Leone, oppure sulla loro versioni di “africanità”, tipo danze africane.

 

Poi abbiamo una forte rete di teatro comunitario, che però non è di buona qualità perché fatto da chi non ha le competenze per creare dei lavori di livello alto. Nella fascia in mezzo a questi due tipi c'è veramente poco, poco teatro indipendente di qualità. Per la maggiora parte il teatro prodotto si riduce a quello da fruire in una formula tipo cena-più-teatro, e non è il mio tipo di lavoro, non corrisponde al mio stile. E un'altro aspetto che mi rattrista è che il Sudafrica avrebbe una storia forte di teatro di protesta. Il teatro e l'arte sono discipline che hanno cambiato il nostro paese.

 

Ci sono stati momenti in cui era qualcosa di molto potente inserire una persona di colore in un lavoro di teatro, chiaramente politico, penso che adesso si sia perso quel piglio. E mi rattrista vedere che si ripieghi solo su un teatro commerciale o puramente intellettuale, che sia mero intrattenimento. Non che io abbia nulla contro il puro intrattenimento, ma credo dovrebbe esserci un bilanciamento: se si va a vedere un musical bisognerebbe anche andare a vedere del teatro indipendente, perché non si può aver visto Il re Leone e affermare di “essere stati a teatro”. Questo è distruttivo, per il nostro settore.

EF: In più il tuo paese ha una storia forte di mescolanza di culture, e credo che il teatro di cui parli sia il modo migliore per appiattire tutte le possibili sfumature culturali. Ma il fatto è che, come dici tu, si tratta di un'industria, e quindi ha scopi diversi, segue altre logiche di mercato, diffusione e comunicazione.

KD: Esatto. E questo è uno dei motivi per cui ci tenevo ad assicurarmi uno spazio teatrale, perché ero stanca di continuare a bussare a porte di grossi teatri dicendo che avevamo un lavoro e le uniche possibilità di metterlo in scena erano: o affittare lo spazio, opzione che per una piccola compagnia come la nostra è impensabile, oppure rientrando in una coproduzione, ma in questo caso i produttori hanno voce in capitolo su come dovrebbe essere il risultato finale. E io sono stanca di quel tipo di rapporto. Questo è stato un fattore determinante nella volontà di avere un nostro spazio, non solo per la nostra compagnia, ma che possa ospitare anche altre compagnie offrendo la possibilità di sperimentare idee, anche se non si hanno finanziamenti! Il teatro, a differenza delle arti visive, richiede un approccio molto più orientato verso un'interazione comunitaria. Avere uno “spazio” è determinante.

EF: A proposito di questo: come funziona la questione di assegnazione di spazi da parte del governo? Magari anche spazi condivisi tra più compagnie.

KD: Al momento c'è una tendenza a finanziare certe compagnie e certi spazi. Il governo sa chi vuole finanziare, e sono in parte compagnie affermate e in parte spazi al di fuori delle aree urbane più centrali, che è un bene perché cercano di creare un equilibrio fra centro e periferie. Ma allo stesso tempo, come lato negativo, e mi ricollego a quel discorso che facevo sul teatro comunitario, capita spesso che vengano finanziate compagnie che non sanno cosa fare, e fanno un teatro di bassissima qualità, che peraltro non va a vedere nessuno. Quindi ci si trova tra due poli: compagnie senza esperienza che ricevono cospicui finanziamenti e dall'altra parte teatri già consolidati che ricevono grossi finanziamenti e l'area in mezzo, di veri artisti, di professionisti non vengono sostenuti.

EF: E per quanto riguarda l'ospitalità di compagnie straniere? Chiaramente avere possibilità di scambi, un po' come hai fatto tu qui, è molto arricchente sia per il pubblico che per gli artisti. E, d'altra parte il Sudafrica è geograficamente piuttosto isolato, quindi difficilmente rientra nelle circuitazioni abituali, giusto?

KD: Si in parte si. Ma ci sono le iniziative universitarie che attraverso l'ospitalità ad artisti, studiosi, ricercatori o critici, favoriscono noi artisti, che accediamo a questi incontri. Da questo punto di vista Città del Capo è molto più attiva, la scena teatrale lì è molto più vivace che a Johannesburg.

 




Questo è parte del lungo confronto che abbiamo avuto, poi c'è stato l'happening teatrale. Replicato due volte nella stessa serata, per accontentare il nutrito pubblico che si trova in giro per la città per Artefiera, ed è decisamente più affamato di arte del solito.

 

La sera del debutto di To walk is easy. Just Go! Lo spazio del Senza Filtro era pieno. O per lo meno c'erano così tante persone che non si sarebbe detto che si trattasse di un luogo recentemente dismesso. L'atmosfera del capannone industriale effettivamente evoca le tematiche di sostenibilità e riciclo care a Kyla Davis, la struttura dell'edificio aiuta, anche fisicamente, ad introdurre il pubblico gradualmente sempre più all'interno la dimensione performativa.

 

Una prima visione, quasi totale dell'immenso spazio coperto si ha dal corridoio che si percorre appena entrati, da un lato alcune stanze allestite per ristorare gli avventori nella gelida notte bolognese, dall'altra una vetrata che toglie lo sguardo del pubblico dalla curiosità d'immaginare dove si svolgerà l'azione. Nell'immensa sala principale si trovano tanti oggetti e alcune persone, ma resta comunque tanto vuoto.

 

Tanto spazio libero illuminato da diversi neon e qualche sagomatore impotente rispetto alle dimensioni della stanza, che però i performers si affrettano a riempire con una camminata alienata, decisa e determinata ma individuale, schivandosi per abitudine, per nulla interattivi. La nostra visione, che sovrasta tutto ed è insonorizzata da un vetro, ci fa sentire quasi ispettori all'interno di una fabbrica, ma la scena che vediamo ricorda più il viavai del centro di una metropoli. A noi è concesso avere una visione d'insieme, gli “abitanti” invece hanno le loro singole prospettive limitate e itineranti. Una volta assorbito il movimento e individuata la ripetitività dell'azione, il pubblico ha accesso al livello dell'azione, ma anche questa volta siamo separati dai performers da una banda rossa e bianca di quelle che delimitano le 'zone non accessibili'.

 

Abbiamo fatto il primo passo verso l'azione, ma non ci siamo ancora dentro. Ancora siamo tenuti relegati, obbligati all'osservazione da fuori, a sentirci pubblico. Stesso livello, ma prospettive definite ben diverse.
Il coercitivo passeggiare è scandito da suoni che di tanto in tanto interrompono drasticamente il movimento per creare stasi totale. Nella poca luce percepiamo una miriade d'individui. I loro fiati in controluce sono l'unico elemento che li rende umani, e vivi. Altrimenti potrebbero essere automi, quando in movimento, o statue, da fermi. La gradualità con cui alcuni di loro iniziano ad elaborare piccoli gesti, quasi rituali dopo i ripetuti gong, sfocia nell'eruzione del cumulo di copertoni che si trova in una pozione centrale rispetto al transennamento.

 

Ph. Laura Molinaro

 

Dalla cima di quell'ammasso tipico delle rimesse degli sfasciacarrozze emerge con fatica una ragazza, che poi è Kyla Davis. Viene aiutata ad uscire e rimessa in piedi da un gruppo di danzatrici, che seguono i suoi primi passi, fino all'abbassamento della fascia di costrizione che segue di qualche secondo l'impressione delle sue impronte sul pavimento. D'ora in poi siamo liberi di muoversi nello spazio come meglio riteniamo, il nostro sguardo può finalmente indugiare su un'azione, piuttosto che su un dettaglio, piuttosto che su una zona d'ombra dell'inaspettato Senza Filtro.

 

E cosi passiamo sotto danzatrici di tessuto aereo che compiono acrobazie e giravolte qualche metro sopra le nostre teste, restiamo ad applaudire, come spettatori di numeri circensi, i ragazzi di un gruppo di parkour, e ascoltiamo danze e balli rituali, brevi monologhi e brevi azioni altamente simboliche nella loro semplicità. E lo facciamo sgattaiolando e spingendosi in mezzo al resto del pubblico, senza poter avere una visione completa, ma quasi sempre accontentandoci di scorci tra le teste. Un po' come nella vita.

 

Nella disarmonia tra gli interventi che costituiscono la performance si percepisce la necessità di dare un apporto, ognuno coi suoi mezzi, le sue competenze, le sue passioni al percorso che stiamo facendo tutti insieme. Il cammino a tappe che ci porterà fino alla zona più buia e fredda dell'edificio, dove i riflettori non illuminano più la condensa che esce dalle labbra dei performers, ma creano fasci di nebbia nella polvere.

 

Quel velo che nei momenti di disuso glassa i pochi oggetti che abbiamo intorno, e che nell'utilizzo si alza e rimane ad avvolgerci come foschia finché non siamo completamente immobili. Ma questo non avviene: anche dopo che la scena sarà rimasta vuota, lo stereo lasciato a coprire il silenzio stimola un battito di mani che unisce, e muove.

 

Mi allontano ripensando a quello che mi diceva Kyla circa la sua volontà di non creare dei lavori che lascino il pubblico freddo e distaccato, ma che muovano e coinvolgano. E, se per un'estetica europea, possiamo distinguere: una ricerca vocale e corporea vagamente grotowskiana, l'inserzione di discipline spettacolari da nouveau cirque, la scelta di materiali, utensili e location che richiamano l'agit-prop dello scorso secolo, globalmente l'impressione è di passare dal teatro, alla performance all'happening con sotto-testo attivista ma, al contempo, si nota un lavoro registico ben consapevole. L'andare e venire tra questi generi spettacolari è continuo e accuratamente calibrato. E allo spettatore è lasciata la massima libertà di scegliere dove collocarsi, non solo fisicamente, ma anche in quale grado di coinvolgimento immergersi.

 

A Bologna Kyla Davis è decisamente riuscita nel suo intento di far sentire parte dell'azione anche senza avere tutti gli elementi per capire a fondo la situazione.

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