Speciale

La città in comune

10 Gennaio 2012

In un’epoca neanche tanto lontana, tra anni quaranta e settanta del secolo passato, in Italia si è sviluppata una nuova visione della tutela, salvaguardia, recupero e riuso delle città, un approccio originale, poi studiato e recepito in molti altri paesi, cui contribuivano discipline e saperi diversi, uniti nella volontà di fare i conti con le novità del mondo moderno e di mettere le proprie conoscenze al servizio di un’idea di progresso culturale e sociale che oggi ci appare quasi inverosimile, tanto ampie e profonde erano le sue aspirazioni. Architetti, storici dell’arte, archeologi, restauratori, urbanisti, impegnati all’indomani della seconda guerra mondiale e negli anni del boom economico nell’immane compito di mettere in salvo la memoria storica delle città semidistrutte dai bombardamenti, di fronteggiare le massicce trasformazioni prodotte dall’industrializzazione e trasmettere alle generazioni future la straordinaria continuità della tradizione italiana, si erano ben presto resi conto che ciò che andava tutelato non poteva più essere solo il singolo “monumento” – la chiesa, il palazzo, la torre, le mura, le “rovine” eccellenti ecc. ­­–, ma l’intero contesto urbano, storico o naturalistico, dunque l’insieme delle memorie artistiche, materiali, sociali, politiche, che dei manufatti illustri del passato erano l’elemento vivo, ciò che ad essi garantiva rilevanza e capacità di rigenerazione collettiva: valore, in una parola.

 

Questa concezione si opponeva al culto idealistico del capolavoro, del monumento isolato nella sua metafisica grandezza che gli architetti del fascismo avevano brutalmente imposto a tanti centri storici del nostro paese, come pure alla tabula rasa modernista e alla sua volontà di potenza tutta vetro e acciaio. All’enfatico vuoto dechirichiano, costellato di poche presenze eccezionali, alla città verticale fitta di torri e imbevuta del culto della macchina, si contrapponeva così l’idea di una continuità densa di memorie e sopravvivenze, di sovrapposizioni, di strati discontinui, in cui gli episodi minori e vernacolari (si veda l’esempio del centro storico di Bologna rianimato dal piano di Pier Luigi Cervellati), potevano acquistare un senso diverso, entrare a far parte di un’idea allargata di patrimonio culturale, in breve essere vissuti come luoghi pieni di senso da parte di abitanti non più condannati a essere espulsi verso lontane periferie alienate ma chiamati a contribuire alla salvaguardia dell’identità comune delle città e al loro sviluppo civile, secondo le intuizioni sviluppate nel circolo di “Comunità” sostenuto da un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti.

 

Poco resta di tutto questo dopo trent’anni di attacco populista alla cultura della tutela e della pianificazione urbana, di invettive qualunquiste, di berlusconismo e neoliberismo trionfanti, di martellanti campagne mediatiche condotte in nome di una falsa “libertà” e sempre a favore dei corposi interessi speculativi all’opera nelle città e nei territori. L’inesausta opera di depotenziamento e limitazione delle norme di tutela, di delegittimazione e intimidazione dei pubblici funzionari chiamati ad applicarle, ad opera di governi indifferentemente di destra e di sinistra, hanno prodotto di fatto il collasso di qualsiasi azione pubblica a protezione dei contesti urbani e ambientali e hanno lasciato mano libera ai privati – fatto salvo ovviamente qualche palliativo o “compensazione”, come pudicamente vengono chiamate – in nome dell’imperativo del profitto e dello “sviluppo”. Libertà di abbattere e costruire anche nei centri storici e nei parchi, facoltà di aumentare ad libitum le cubature, sopraelevando, espandendo e snaturando le costruzioni esistenti, licenza di cementificare coste, colline e pianure, di barattare succose concessioni edilizie contro minime contropartite in “servizi”, per non parlare di ripetuti condoni e sanatorie, sono così diventate la norma, quasi che un bene comune per eccellenza come la città, la sua memoria collettiva, i suoi spazi, i suoi usi sedimentati, la sua vivibilità, la sua qualità, fossero diventati di colpo un’ingombrante eredità “comunista” da liquidare al più presto e non un essenziale elemento civile, un decisivo fattore di cittadinanza, di tolleranza e persino di crescita economica, come ben sanno i piccoli centri che sullo sviluppo sostenibile hanno costruito negli ultimi decenni solide fortune turistiche.

 

In gioco oggi nelle città italiane – il caso dell’area ex Enel di Milano è in questo senso esemplare – non c’è la conservazione dello statu quo, la riproposizione di quell’immobilismo così spesso rimproverato all’opinione pubblica “di sinistra” come un peccato mortale. Non si tratta di “imbalsamare” o “mummificare” i centri urbani, secondo la ben studiata retorica di quanti hanno contribuito a trasformare in bestemmia l’idea di una necessaria assunzione di responsabilità collettiva riguardo alle decisioni determinanti sulla forma e gli usi degli ambienti cittadini. E neppure si tratta di difendere il sentimentalismo delle “origini”, il genius loci, il piccolo-è-bello, il dialettale, come antidoti alla disumanizzazione indotta dai processi economici e sociali contemporanei. La caricaturale contrapposizione tra il vitalismo animale del capitale e la vittimistica paralisi dei “conservatori di sinistra”, snob e ovviamente lontani dal “popolo”, è solo un furbo espediente della propaganda al servizio delle forze incessantemente al lavoro per asservire il bene pubblico a privatissimi interessi. Conservare sul serio non vuol dire affatto rinunciare a progettare il nuovo, a interrogarsi su ciò che siamo oggi, su cosa possiamo realizzare per far vivere le nostre città e arricchire le nostre vite, come ben sapevano architetti così diversi tra loro come Carlo Scarpa o Aldo Rossi. E tutelare la città vuol dire oggi esattamente cercare di superare l’atroce contrapposizione tra centri storici svuotati dei loro abitanti e trasformati in shopping mall all’aria aperta o in malinconici parchi a tema (il “medioevo”, l’evergreen “Rinascimento”, ecc.) e informi periferie dove la stragrande maggioranza della popolazione vive una impoverita quotidianità.

 

 

In gioco ci sono ovviamente processi che toccano tutti i paesi a economia postindustriale e quelli di più recente sviluppo. Ovunque sembrano oggi inammissibili vincoli anche minimi di fronte a trasformazioni urbane compiute tipicamente in coincidenza di grandi eventi “eccezionali”, sportivi o mediatici ad esempio (i casi di Barcellona e di Londra sono da manuale), di massicce trasformazioni della struttura produttiva o di pressanti esigenze di investimento: ovunque la spinta allo sviluppo edilizio coincide con un’ulteriore accumulazione finanziaria in un ciclo apparentemente senza uscita, a meno che la catastrofica crisi economica in atto non risulti fatale a tutto il sistema. E senza poter nemmeno citare qui il dibattito intorno ai differenti modelli di città, alla possibilità della pianificazione urbanistica nel contesto contemporaneo, all’affermazione negli ultimi decenni della “città generica” e delle megalopoli, sta di fatto che nello specifico contesto italiano, con la sua vicenda peculiare, il ruolo ancor oggi determinante della storia locale nella percezione e costruzione dell’identità collettiva, l’unanimità delle forze politiche di “destra” e “sinistra” nel ridurre le problematiche urbanistiche a mere questioni economiche o di convenienza risulta stupefacente e avvilente al tempo stesso. Una sostanziale insensibilità culturale sembra accomunare il personale politico dei due schieramenti: costruire, costruire, costruire sempre e comunque, per lucrare nel più breve tempo possibile tutti i possibili vantaggi senza riguardo alcuno per le questioni “di lunga durata” che intellettuali irriducibili e studiosi fuori dal mondo continuano a sollevare.

 

 

La trionfale avanzata dei boriosi grattacieli corporate della zona Garibaldi a Milano, l’espansione a macchia d’olio delle periferie intorno a Roma e alle maggiori città italiane condotta attraverso le ossessive e complementari tipologie della villetta e del centro commerciale (ingredienti di base dell’infernale circolo vizioso alienazione-consumo-alienazione), l'affermazione della “città continua”, ovvero della non-città, nelle zone economicamente più sviluppate dell’Italia centro-settentrionale, la rinuncia quasi scandalizzata a qualsiasi politica sociale per l’abitazione, il dissennato sfruttamento turistico dei luoghi più pregiati, sono fatti apparentemente sottratti alla discussione pubblica, eventi “naturali”, come le “inevitabili” alluvioni o l’ingiustificabile obliterazione di un’intera città, L’Aquila, cancellata per decreto dopo il terremoto senza tenere in minima considerazione l’opinione dei suoi cittadini e le proteste della parte più sensibile della società italiana.

 

Sono tutti esempi che ci dicono quanto ormai sia urgente tornare a discutere pubblicamente, fuori dai circoli specializzati, sull’avvenire delle nostre città. E a farlo non in termini astratti, ma mettendo in concreto al centro dell’attenzione le specifiche scelte urbanistiche e i modelli culturali e sociali che queste presuppongono, allargando la visuale dal mero ritorno economico o dall’utilità vera o presunta dei diversi interventi a questioni più sottili ma decisive come la qualità della vita e la relazione col contesto esistente. Se confermata, la scelta di stravolgere un’area frammentaria ma comunque dotata di una propria precisa identità storica e urbana come quella prospiciente il Cimitero Monumentale di Milano con l’inserimento di manufatti edilizi banali e manifestamente progettati senza alcuna preoccupazione estetica, come ha ben mostrato Marco Biraghi qui su doppiozero, rappresenterebbe un pessimo segnale da parte di una giunta comunale che si vuole contrapposta culturalmente e politicamente a quelle che l’hanno preceduta. È più che mai necessario, anche in presenza di tutte le garanzie elencate nella sua burocratica risposta dall’assessore competente e delle cautele dello stesso sindaco Pisapia, che l’amministrazione milanese non si limiti a ratificare le scelte degli imprenditori privati. Dopo decenni in cui l’unico messaggio davvero “politico” è stato l’imperativo pubblicitario dell’arricchimento e dell’egoismo più volgari, l’immagine della città, la qualità dei suoi luoghi, come ha ricordato Luca Molinari su il Post, devono tornare a essere considerati beni collettivi meritevoli di considerazione politica quanto le superfici, le cubature e le convenienze urbanistiche.

 

Come ben sapevano gli architetti che pure tra mille difficoltà e compromessi ricostruirono l’Italia dopo le distruzioni della guerra, risanare le città non poteva significare solo riempirne i buchi ma rompere con la concezione magniloquente del fascismo, con la sua falsa monumentalità, in una parola con il suo stile, e allo stesso tempo reinterpretare in forme innovative il tessuto cittadino senza pensare a una sua impossibile restaurazione. La loro lezione e quella degli urbanisti che cercarono di ripensare, spesso, è vero, con scarso successo, la forma della città, ha rappresentato uno dei lasciti più importanti della cultura italiana del secondo Novecento. La crisi del modello economico neoliberista e della sua concezione meramente strumentale della città apre la possibilità di ripensare su basi diverse il problema dei compiti, delle possibilità e dei limiti dell’architettura. Milano può oggi tornare a rappresentare anche in questo campo il laboratorio di rinnovamento che è stata a lungo nella vicenda dell’Italia moderna. Si può essere moderni senza perdere la memoria, si può guidare la trasformazione e non solo subirla.

 

 

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