La cultura delle Start Up

31 Ottobre 2013

Negli anni Novanta Manuel Castells, l’autore della Nascita della società in rete, osservò come Joseph Schumpeter e Max Weber stavano iniziando a collidere nello pazio dei network di imprese: “la cultura della distruzione creativa accelerata alla velocità dei circuiti optoelettronici che processano i suoi segnali”. All'epoca si trattava di un  fenomeno tipicamente statunitense, che nel corso di quasi due decenni ha dato vita ad un contesto economico, tecnologico e culturale nuovo la cui influenza si è estesa a molti aspetti della nostra vita quotidiana, digitale e non.

 

I punti di riferimento della cultura delle start up si distribuiscono lungo un arco ampio, che include ad un estremo i grandi capitalisti tecnologici Steve Jobs, Jeff Bezos di Amazon e Mark Zuckerberg di Facebook e dall'altro i nuovi paladini delle libertà digitali, come Julian Assange di Wikileaks, Chelsea Manning (il soldato statunitense condannato per aver passato 750.000 documenti riservati a Wikileaks), Edward Snowden (protagonista dello scandalo Prism) e Aaron Swartz (programmatore e imprenditore, morto suicida a 27 anni sotto la pressione di un processo per legato al suo attivismo per la cultura libera).


 

Fred Turner, nel suo libro From counterculture to cyberculture (2006), ha raccontato magistralmente la relazione tra questi due estremi: c'è un filo diretto che collega i movimenti libertari statunitensi degli anni Sessanta all'esplosione delle start up nella Sylicon Valley degli anni Novanta, in un mix eterodosso di McLhuan e Norbert Wiener, tra testi dei Grateful Dead e di Timothy Leary. Il mondo delle controculture che flirta costantemente con il turbo-capitalismo e, allo stesso tempo, con le pratiche cooperative.

 

Questa combinazione inquieta molti. Eppure nel panorama stagnante dell'economia  italiana fa una certa impressione vedere con quanta effervescenza si moltiplicano anche da noi gli spazi per le aziende start up, tra incontri per mettere in relazione aziende e potenziali investitori e spazi digitali nei quali ci si scambiano consigli tecnici, fiscali, strategici.

 

Ma cosa c’è dietro a tutto questo? Gli strumenti finanziari che stanno dietro a questa trasformazione sono complessi ed in alcuni casi non particolarmente limpidi, ma il meccanismo di base ha una forma relativamente semplice. Dei fondi di investimento raccolgono capitali da privati, promettendogli un ritorno elevato. Dopodiché, iniziano ad indagare il panorama delle nuove aziende tecnologiche (in fase, appunto, di “start up”) alla ricerca di imprese promettenti da finanziare con una serie di turni di investimento. Idealmente, una start up di successo riceve un primo turno (o “round”) di finanziamento per mettere a punto un prototipo e testarlo, un secondo per aggredire un mercato specifico, un terzo per internazionalizzarsi, etc. In realtà, sono in pochi ad andare avanti perché sono in pochi a saper ideare un prodotto o servizio che si riveli utile o con una domanda potenziale significativamente grande.

 

In cambio dei finanziamenti, il fondo di investimento riceve delle azioni delle aziende appena costituite. La logica che sottende questo percorso è che, sui grandi numeri, un numero molto limitato di aziende crescerà facendo il “boom”, ripagando gli investitori anche per gli investimenti in tutte le altre startup che sono fallite in questo processo. I margini di profitto dovrebbero in ogni caso essere elevati, perché ad andare avanti ed ottenere i round di finanziamento più ingenti sarebbero solo quelle poche aziende che riescono a rispondere a bisogni diffusi.

 

Il meccanismo è, in realtà, molto più complesso e si presta a numerose variazioni e gradi di trasparenza. Negli anni, inoltre, si sono sviluppati molti attori intermedi che accompagnano fondi, imprenditori e finanziatori nei rispettivi percorsi, indirizzandoli verso determinate strategie o facilitando alcuni passaggi.

 

 

Raramente una startup si basa su una sola, geniale idea inedita: molto più spesso lo stesso prodotto/servizio viene messo contemporaneamente sul mercato da decine di nuove aziende con leggere variazioni, in un processo evolutivo accelerato che permette di trovare soluzioni nuove in tempi brevissimi rispetto al normale percorso di ricerca e sviluppo industriale.

 

È un fenomeno che ha una serie di implicazioni forti in molti campi di produzione sociale e culturale. Oggi è possibile parlare di una vera e propria “cultura delle start up” popolata da un panorama variegato di professionisti dell’economia, dell’impresa, della tecnologia e del design che aderiscono a valori condivisi, nei quali si mescolano tratti tradizionali della cultura d’impresa - come il successo economico e l'iniziativa individuale - ed elementi distintivi come la fascinazione per l’innovazione e un tipo di fiducia nella tecnologia assolutamente contemporaneo.

 

Per molti versi, in questa dinamica ritroviamo una fedeltà all’idealtipo dell’imprenditore come innovatore elaborato da Schumpeter nel 1942 in Capitalismo, Socialismo e Democrazia di gran lunga maggiore rispetto a quella rintracciabile negli imprenditori delle generazioni precedenti; questo perché l’obiettivo è spesso quello di sovvertire in modo radicale le regole del gioco, con un impatto potenzialmente enorme nelle sfere dei rapporti sociali e della produzione culturale. E mentre si moltiplicano le critiche ai meccanismi speculativi del sistema dei fondi, ci si chiede con sempre più insistenza quanto possa essere equo un meccansimo che premia pochi e lascia affondare molti.

 

Appare chiaro che la mutazione, accelerazione e innovazione portata dalle start up sta incidendo in modo determinante nel mondo in cui viviamo. Ed è in questa linea che si stanno moltiplicando strani connubbi tra start up, cooperative, imprese sociali ed a “basso profitto”. Tentativi evolutivi, sempre meno standardizzati, per cercare di rispondere in modo più sostenibile alle sfide degli anni a venire. Anni sempre più strani, e, come avevano previsto Castells e gli altri teorici della rete, anni sempre più ibridi.

 

Twitter: @bertramniessen

 

 

 

Questo articolo è apparso in vesione ridotta sulla Domenica del Sole 24 Ore
 

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