L’artista elettronico e il grande pubblico

25 Giugno 2013

Artisti elettronici. Computer artists. Artisti digitali. New media artists. Nel corso del tempo sono stati chiamati in molti modi. Ma la base del loro lavoro è sempre la stessa: coniugare la ricerca artistica con quella tecnologica, sperimentando nuove forme d'interazione tra uomo e macchina, nei territori meno esplorati dall'arte e dalla cultura ufficiali. Al crocevia tra robotica, architettura, cinema, musica, sound art, design, pittura, programmazione, teatro, danza. La storia dell'arte elettronica arriva da lontano. È la storia dell'uomo che si interroga sui propri limiti, su come piegare la tecnologia alla volontà e trovare il meraviglioso nelle macchine.

 

Ogni nuovo media ha sempre attirato l'attenzione di artisti e creativi. Se la musica elettronica aveva trovato in Stockhausen un padrino d'eccezione già nei primi anni '50, e la video-arte si era diffusa nei '60, è solo negli anni '80 che si inizia a distinguere un vero circuito dell'arte elettronica tout-court. Con alcune notevoli eccezioni, si tratta ancora di un sotto-mondo dell'arte, come quelli della pittura degli schizofrenici, dei bambini o delle scimmie; un campo minore, con pochi critici e curatori che faticano a trovare spazi per organizzare mostre. E guardando le opere dell'epoca è facile capire il perché: di fronte alle primitive piramidi ruotanti dai colori elementari, realizzate in notti insonni con i primi personal computer, si fatica a riconoscere la stessa disciplina della computer graphics che produrrà i capolavori della Pixar degli anni a venire.

 

 

Poi, a cavallo tra gli anni '80 e i '90, tutto cambia. È il boom della realtà virtuale, fatto di occhialoni di visualizzazione, guanti sensoriali e figure carismatiche che eccitano la fantasia dei media come Jaron Lanier. Con le sue treccine rasta, imbragato in tute futuribili, Lanier inizia a fissare il futuro con sguardo intento dalle copertine dei settimanali. E improvvisamente i VIP sgomitano per farsi immortalare con caschi pieni di cavi, mentre afferrano teiere virtuali su tavoli altrettanto virtuali. Ma un poligono che ruota rimane un'esperienza deludente anche in realtà virtuale, non importa se lo si può toccare. Gli artisti di questa generazione rimarranno ancorati a mondi digitali rudimentali,   sottovalutando la portata delle nuove rivoluzioni: l'avvento del Web e della tecnologia domestica a basso costo.

 

Negli anni '90 sempre più persone iniziano ad incontrarsi sui forum e nelle mailing list, coltivando la propria curiosità e capendo di poter osare. Soprattutto, iniziano a vedere i computer come qualcosa di diverso da una versione evoluta di una macchina da scrivere. L'elettronica di consumo invade i mercati, divenendo sempre più economica: non solo computer, ma anche stampanti, mixer audio e video, lettori CD, videocamere, tastiere, campionatori e sintetizzatori. Improvvisamente, con qualche milione di lire è possibile costruirsi un vero laboratorio.

 

Sull'onda dell'innovazione tecnologica si sviluppano intere nuove sottoculture, e l'underground dei rave e degli squat inizia a produrre strani ibridi che portano avanti ricerche fatte di astrazioni colte, musica techno ed eco delle avanguardie: le performance di techno industriale dei finlandesi Pansonic, nelle quali la musica veniva visualizzata dalla proiezione di un quadrato nero oscillante – memoria del Suprematismo di Malevich – o il cinema astratto mixato dal vivo nei club occupati di Berlino dai Rechenzentum.

 

 

Negli anni 2000 la popolarità dell'arte elettronica subisce una rapida accelerazione. Il festival Sonar di Barcellona è il simbolo di questa trasformazione: iniziato come mega rave sulla spiaggia e trasferitosi nel Centro di Arte Contemporanea, diviene uno dei più importanti eventi turistici spagnoli, durante il quale centinaia di migliaia di persone si riversano sulla città per assistere a tre giorni non stop di eventi nei quali musica colta, popolar music ed arte elettronica si succedono ininterrottamente. Sugli stessi palchi si esibiscono personaggi di culto delle avanguardie degli anni '60 come il Fluxus Yasunao Tone e il compositore Terry Riley, stelle disco come i Pet Shop Boys, icone del pop “colto” come Björk e ricercatori multimediali dell'MIT come Golan Levin. La formula dei festival di arte e musica elettronica inizia a propagarsi; oltre agli eventi ormai storici come l'Ars Electronica di Linz e il Transmediale di Berlino, iniziano a comparire realtà più giovani in molte città che declinano il format secondo contesti specifici. In Italia, il Netmage di Bologna trova un punto d'incontro tra l'avanguardia della sperimentazione video e il mondo dei centri sociali, portando alla ribalta internazionale artisti come Ogino:Knaus, Claudio Sinatti e Otolab.

 



È a questo punto, con l'enorme indotto economico mobilitato dai festival, che cambia lo status degli artisti elettronici: tutto a un tratto si trovano ad essere tra gli attori del processo di city branding – la competizione tra città per attrarre turisti ed investitori. In un'Europa resa improvvisamente piccola dai voli low cost, sempre più città vogliono essere come Berlino, Amsterdam e Londra. Vogliono avere i loro festival, ed i relativi sciami di weekenders che hanno bisogno di dormire, mangiare e bere, e che sono disposti a spendere cifre considerevoli in libri, musica ed “esperienze”. Di più. Le città europee – e quelle nordamericane e asiatiche subito dopo – scoprono che alcune forme di arte elettronica sono un ottimo biglietto da visita per gli investimenti immobiliari delle operazioni di riqualificazione urbana. Ed allora si aprono le porte per allestimenti sempre più mastodontici, come il mapping architetturale degli AntiVj: proiettando sulle facciate di palazzi storici e di icone architettoniche più recenti, le facciate divengono il nuovo media di eccellenza, con il quale si re-immaginano gli spazi urbani in sbalorditive fantasmagorie audiovisive.

 

Ed è così che si arriva ai giorni nostri, nei quali l'arte elettronica sembra ormai avviata all'istituzionalizzazione, tra critici affermati, artisti entrati nelle accademie, riviste di settore e gallerie dedicate. Nonostante la crisi, i festival si moltiplicano e le piattaforme online di dibattito ed informazione godono di ottima salute, come dimostrano le decine di migliaia di utenti di Rhizome e il costante aggiornamento di Digicult.

 

Nonostante tutto, quella dell'artista elettronico continua ad essere una professione dalla collocazione incerta. Innanzitutto perché le sue opere rimangono un problema per i mercati dell'arte tradizionali: il codice del software non ha lo stesso appeal di un quadro; una performance audiovisiva ha senso solo nel “qui” ed “ora”, e non può essere distribuita come un film; un'installazione interattiva non “risolve il salotto” come una scultura in marmo. E poi perché si deve confrontare con il mondo parallelo dell'interaction design, la disciplina che realizza applicazioni creative delle tecnologie per tutti i nuovi ambienti della convergenza: Web, smartphone, vetrine interattive, dispositivi multimediali per mostre e molto altro. Si tratta ovviamente di uno dei settori più in espansione, anche grazie all'esplosione di dispositivi per l'interazione a basso costo.

 

Oggi un Kinect, il sensore della consolle per videogiochi Windows Xbox 360, costa 150 dollari: permette di far interagire un software con i movimenti delle persone in un ambiente, legge gli infrarossi ed effettua rudimentali scansioni tridimensionali. Con il micro-controller Arduino, per 20 euro si possono controllare da qualsiasi computer braccia robotiche e sensori di ogni tipo. Tutte tecnologie inaccessibili fino a pochissimi anni fa. Eppure, arte e design non sono la stessa cosa: la prima vive negli spazi incerti tra significati e significanti, mentre il secondo ottimizza il rapporto tra forma e funzione. È il momento che anche il grande pubblico impari a riconoscere questa differenza, e a relazionarsi con un campo artistico che ci accompagna ormai da molto, molto tempo.

 

Twitter @bertramniessen

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