Cultura e conflitto generazionale

3 Marzo 2014

Ha senso distinguere tra “Cultura” , “cultura” e “culture”? A molti sembrerebbe la classica questione di lana caprina in grado di emozionare, al massimo, un consesso di intellettuali paludati che fumano trinciato forte in pipe di radica dall'aria costosa.

 

Ma forse non è così. Con “Cultura” possiamo riferirci alla cultura con la C maiuscola, definita all'interno di campi di potere istituzionali e istituzionalizzati; con “cultura”, invece, a quelle pratiche che emergono dal basso, in modo più o meno indipendente dalle grandi istituzioni; “culture”, infine, indicherebbe le culture degli “altri”, gli immigrati. Questo almeno il discorso del senso comune negli ultimi anni. Guardiamo però la cosa nel dettaglio.

La società italiana sconta in modo più pesante di molte altre il passaggio alle nuove forme di economia. Nell'ambito della produzione culturale questa situazione è particolarmente evidente: se, da un lato, i laureati nei settori culturali sono aumentati percentualmente in modo considerevole, dall'altro la struttura occupazionale di questi settori si è avviata verso il collasso a causa dell'incapacità strutturale degli attori tradizionali (pubblici e privati) di convertirsi alle nuove logiche del valore nate con la transizione alle economie basate sugli asset intangibili: brand, innovazione, flessibilità.

Nell'ambito dei mondi della Cultura tradizionale le conseguenze più evidenti di questa congiuntura sono la sclerotizzazione delle strutture e lo sbarramento delle finestre di opportunità per chi non è già all'interno delle élites. In un panorama nel quale le risorse economiche diventano sempre meno accessibili, la risposta standard è inevitabilmente una guerra di posizione per il mantenimento dello status quo. In un paese sempre più anziano, nel quale secondo il senso comune si rimane giovani fino ai 30, 35, 40 anni, la risposta prevalente è quella dell'autoesilio verso altri paesi. È un fenomeno del quale si parla e si scrive da anni, nonostante non vengano prese misure di sorta per contrastarlo.

La sclerotizzazione ha come principale conseguenza un meccanismo per il quale chi rimane all'interno delle istituzioni è sempre meno in grado di vedere e comprendere l'emergere di nuove istanze culturali e fa scelte sempre più distanti dalle necessità reali, aumentando l'autoreferenzialità della gestione delle risorse e portando un numero sempre maggiore di ricercatori, professionisti e tecnici qualificati all'esilio. In questo circolo vizioso, i tre assi sui quali si regge il mondo tradizionale della Cultura (editoria libraria, giornali e università) si stanno accartocciando su se stessi.

È questo rapporto tra mancanza di lenti adatte a comprendere la complessità e impossibilità di costruire strumenti decisionali e operativi che fa tornare attuale il discorso sulla definizione della cultura. Non più, come nella società tutto sommato definita ed ordinata del '900, una contrapposizione tra mainstream, underground e subculture ma piuttosto una complessità che non è riconducibile a sintesi facili. Intorno, attraverso e nonostante le istituzioni sclerotizzate, sta nascendo un modo nuovo di intendere e agire le pratiche culturali, fatto di innovazioni sociali diffuse, di condivisione, co-design e co-produzione, di un rapporto più maturo e consapevole con le tecnologie.

Per non soffocare queste trasformazioni è necessario mettere immediatamente in moto la permeabilizzazione delle strutture culturali, affinché divengano capaci di recepire istanze diverse da quelle che già conoscono. È necessario riorganizzare la distribuzione delle risorse reindirizzandole dalla conservazione del patrimonio all'open innovation, utilizzandole cioè per percorsi di interrogazione, mappatura, raccolta e messa a regime di pratiche culturali diffuse sui territori, lavorando sull'accessibilità e la trasparenza possibili grazie alle nuove tecnologie, definendo misure di impatto concreto sulle operazioni culturali che si possano verificare con scadenze precise. Soprattutto, è necessario imparare a lavorare con la divulgazione restituendo la complessità del contemporaneo senza banalizzarla e senza, allo stesso tempo, arroccarsi in torri che nessuno ha nemmeno più interesse ad assediare.

 

Questo pezzo è precedentemente è apparso su Vita

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