C'era una volta il Deposito Bulk

7 Ottobre 2013

Milano, Via Bramante angolo Cimitero Monumentale. Tra il 1999 e il 2005, in 8000 metri quadri di capannoni cadenti aveva trovato casa il Deposito Bulk. Il secondo nel nome, in effetti, dopo una prima occupazione a poche centinaia di metri di distanza durata due anni. Il primo Bulk è stato demolito ormai da tempo per far posto ad un parco giochi di tre panchine con affaccio su vialone a quattro corsie. Il secondo ha ricevuto le prime visite delle ruspe nell'aprile 2013 e mentre sto scrivendo stanno portando via le ultime camionate di macerie. Resta, per il momento, una spianata polverosa riarsa dal sole.

 

Ph. A. Belpoliti

Come molti della mia generazione ho frequentato il Bulk assiduamente. Per leggere divergenze di vedute non mi sono mai buttato direttamente nella vita politica del collettivo principale, ma è un luogo nel quale ho organizzato decine di iniziative, concerti, incontri. Ci ho visto, soprattutto, un numero sorprendente di concerti. Mi è capitato pure di farci l'amore, una domenica pomeriggio d'estate.
Del Bulk mi sono occupato anche come ricercatore, quando indagavo le relazioni tra l'economia culturale di Milano, i movimenti sociali e le scene underground.

 

Ph. A. Belpoliti

 

Assieme ad altri centri sociali nell'adiacente quartiere dell'Isola (Pergola e Garigliano), il Bulk è stato il motore di un momento molto particolare per la città nel quale gli spazi occupati hanno svolto il ruolo di acceleratore culturale (illegale) urbano. Ovviamente, luoghi di questo tipo svolgevano già da prima un ruolo culturale importante, e i pochi sopravvissuti continuano in alcuni casi a svolgerlo. Ma quegli anni erano diversi.

 

Ph. A. Belpoliti

Erano anni nei quali era ormai chiara e definita una profonda discontinuità con il movimento tradizionale dei centri sociali legato all'area dell'Autonomia. Quando il Bulk fu occupato, gli anni '70 erano ormai lontanissimi, il muro di Berlino era crollato da un pezzo e la Seconda Repubblica era  un dato di fatto da tempo. Internet era già nelle case di molti, così come i personal computer. L'Italia stava cambiando, e al Bulk si sono ritrovate almeno tre generazioni diverse che vivevano le contraddizioni di questo cambiamento: gli adolescenti delle scuole superiori, i ventenni delle università o alle prese con i primi passi nel mondo del lavoro e i trentenni in qualche modo già inseriti in percorsi lavorativi. In quel crogiulo si combinavano la Milano bene e i quartieri di periferia, i raver technoabbestia e i lavoratori della conoscenza, gli hacker e i ragazzi cresciuti nel mondo delle “plaze” e delle tag.

 

Ph. Marco Menghi

Al Bulk sono state elaborate pratiche e letture critiche divenute nel giro di pochi anni patrimonio comune. Quando i gruppi di attivisti dei lavoratori non garantiti di Chainworkers hanno iniziato a ragionare sul “precariato”, nessuno sapeva bene di cosa stessero parlando. Tramite il loro lavoro, e quello di San Precario e Serpica Naro, la riflessione critica sul precariato si è lentamente imposta anche nelle agende mainstream. Da questo network sono nate anche forme nuove di linguaggi, estetiche e metodologie politiche, basate proprio sulle conoscenze dei lavoratori (precari) delle industrie creative milanesi: la comunicazione politica ha iniziato a mutare quando montatori, fotografi e designer si sono ritrovati a ragionare sulle proprie condizioni di lavoro assieme a esperti di marketing, artisti e hacker.

 

Ph. Marco Menghi

Non è un caso che attorno al Bulk si sia costruita la EuroMayDay, la street parade del precariato globale che si pone in netta antitesi rispetto alle manifestazioni tradizionali dei sindacati e che oggi viene replicata in centinaia di città in tutto il mondo. Alla EuroMayDay non ti ritroverai solo le tasche piene di volantini che invocano l'unità proletaria, ma passerai il tempo a ballare tra i carri addobbati a festa, collezionando il fichissimo gioco di San Precario di turno. Come i Tarocchi dell'Almanacco di Precariomanzia o le figurine degli Imbattibili, con telefonisti, ricercatori e lavoratori del MacDonald trasformati in supereroi. E non è certo un caso.

 

Ph. Marco Menghi

All'interno del Bulk esistevano spazi molto diversi tra loro, in un micromondo a parte. C'erano sale  di teatro e uno spazio per writers, un'officina di meccanica e un'hackerspace, etc. Nella mia biografia personale, però, il luogo forse più importante è stato la Ciclofficina. Qui si è fatta le ossa una generazione di appassionati di biciclette che hanno avuto l'occasione per misurarsi con il lavoro su raggi e forcelle personalizzando mezzi sempre più improbabili (megabiciclette, tandem, veicoli a tre ruote con cassettoni giganti, etc) e riesumando dalle cantine velocipedi incrostati di ruggine per trasformarli in pregiati oggetti vintage.

Ph. Davide Bonando

La Ciclofficina del Bulk – prima ciclofficina popolare in Italia – è stato un elemento cruciale nello sviluppo della nuova cultura della mobilità sostenibile: un movimento diffuso che nel giro di pochi anni ha portato alla fioritura di innumerevoli spazi di autocostruzione e autoproduzione in giro per l'Italia, tra centri sociali, case del quartiere, università e associazioni. Oggi che un certo tipo di ciclismo è divenuto un imperativo cool fatto di gare vintage internazionali e negozi-gioielleria, in molti si sono dimenticati che proprio al Bulk si è formata una generazione decisiva (e una nuova classe di professionisti) di appassionati di meccanica D.I.Y.

Ph. Davide BonandoEd è sempre dal Bulk, non per caso, che ha preso il via il movimento italiano delle Critical Mass: un fenomeno nato a S.Francisco che qui ha trovato un terreno di ibridazione tutto particolare, tra cultura di strada e riferimenti anarco-situazionisti. Prima di divenire l'appuntamento settimanale in qualche modo normalizzato e disciplinato (seppur sempre importantissimo) che ancora oggi attraversa la metropoli ogni giovedì sera, le prime Critical Mass sono partite nel 2002 proprio dai cancelli del Bulk in una versione decisamente meno addomesticata.

 

Ph. Davide Bonando

Un teatro urbano dell'assurdo che coinvolgeva centinaia di ciclisti per giocare con spazio e movimento in modo sperimentale, infilandosi nelle sale di attesa di Linate tra i passeggeri addormentati, sui gradini della Stazione Centrale, nel buio dei parchi pubblici.

 

Ph. Ugo Dalla Porta

La Ciclofficina per me è stata fondamentale anche perché ogni venerdì sera si trasformava in uno spazio per concerti a parte rispetto alla programmazione del Bulk. Lì, tra telai appesi al soffitto e camere d'aria in riparazione, si davano appuntamento gli appassionati di musica sperimentale per vedere e ascoltare un mix sorprendente di stili e generazioni tra jazz, elettronica, noise, industrial, ambient e altre cose molto poco definibili, con alcune figure già affermate o che lo sarebbero state di lì a poco: Vincenzo Vasi, Cristiano Calcagnile, OvO e così via.

 

Ph. Ugo Dalla Porta

Il tutto in spazi a volte semi-pericolanti, con alcune stanze rischiarate solo dalla luce delle candele. E anche, ovviamente, senza cachet. La precaria economia dei concerti riusciva a malapena a pagare i rimborsi spese dei musicisti con il ricavo della vendita del bar. Ci si trovava lì perché era bello, era diverso, e perché non si poteva resistere alla dolcezza di Mimmo, che organizzava il tutto.

 

Ph. Ugo Dalla Porta

Anche otolab, il collettivo di arte elettronica che è un pezzo della mia famiglia da 12 anni, ha attraversato il Bulk in una molteplicità di direzioni. Alcuni di noi erano attivi anche nel collettivo, ma il nostro coinvolgimento era soprattutto di tipo artistico e organizzativo. Abbiamo suonato al Bulk e in Ciclofficina decine di volte, sia nei grandi rave che portavano carovane di furgoni ad occupare il parcheggio del Cimitero Monumentale che nelle sperimentazioni più raccolte. Alla festa della Critical Mass abbiamo mixato techno, campionamenti di campanelli, video di crash test di automobili e riprese di biciclette in fiamme mentre una folla a tasso alcolico sempre più elevato cercava di fare acrobazie con grazielle trasformate in chopper sulla gigantesca rampa costruita per l'occasione nel cortile.

Ph. Giovanna Silva

Con i ricordi si potrebbe andare avanti all'infinito, perché la natura quintessenziale di questi luoghi è stata quella di essere un gigantesco parco giochi dove adolescenti e giovani adulti si sentivano liberi di provare a trasformare in realtà tutto quello che gli passava per la testa. Per chi fosse interessato ad approfondire ci sono diversi documenti reperibili sul Web, partendo da alcuni tentativi di storia orale scritti a ridosso dell'abbandono dello stabile fino ad arrivare a testimonianze più o meno recenti di ex frequentatori o occupanti (come questa, questa o questa).

Ph. Giovanna Silva

Una domanda continua ad affiorare, guardando le macerie. Perché Milano non è stata in grado di cogliere le opportunità che questo straordinario acceleratore culturale le offriva? Perché le competenze culturali, creative, professionali che si sono costruite qui non hanno trovato nessuna sponda se non quella del precariato sottopagato? Perché Milano non ha saputo trasformare questo straordinario capitale sociale e culturale, lasciando che molto si dissolvesse con il passare degli anni e con le migrazioni dei protagonisti verso altre città, paesi e continenti? Troppo facile dare la colpa alle amministrazioni precedenti. Per cercare le risposte è necessario guardare a una struttura socio-economica sempre più piramidale, sempre più rigida e sempre più diseguale. Della quale tutte le parti sociali, in misura diversa, devono assumersi alcune responsabilità.


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