Dalle Wunderkammern all’arte contemporanea / La danza controtempo delle immagini
Sul finire degli anni Sessanta, il curatore della Rhode Island School of Design’s Museum of Art, Daniel Robbins, e due importanti collezionisti, Jean e Dominique de Menil, frustrati dalla gran quantità di opere d’arte che giacevano inerti nei magazzini del museo, ebbero un’idea: invitare a Providence un artista contemporaneo per chiedergli di operare una sua personale selezione di pezzi dalle riserve nascoste per una mostra inusuale, coinvolgendo poi altre istituzioni perché facessero lo stesso con le loro collezioni. Nacque così Raid the Icebox I with Andy Warhol (1969-1970), che però fu, a onor del vero, il primo e l’ultimo tentativo di “saccheggiare il frigorifero” di un museo.
Senza curarsi dei suggerimenti di Robbins, che cercava di guidarlo tra le porcellane più squisite, gli abiti più sfarzosi, i tessuti più elaborati, epoca per epoca, l’anarchico curatore Warhol si mise infatti a seguire, compulsivamente, un criterio solo suo, facendo di fatto deragliare da subito la disciplinata idea di partenza e trasformandola in qualcosa di radicalmente nuovo che non teneva più conto né dei protocolli museali né della narrazione cronologica tra le opere in mostra. A leggere i resoconti di curatori e direttore risuonano ancora, tra i magazzini del RISD Museum, i furiosi clic della sua Polaroid e i suoi “I’ll take them” al vedere qualunque cosa che fosse capace di colpire la sua attenzione.
A finire in mostra, tra la perplessità dei curatori, furono interi settori dei sotterranei museali, e tra i più trascurati: tutta la collezione di scarpe, tutte le cappelliere, tutte le sedie, comprese quelle di poco valore conservate giusto come pezzi di ricambio, allestite negli stessi umili dispositivi usati per lo stoccaggio in magazzino (scaffalature in metallo, scatole, sacchi di sabbia). E poi pile di vecchi cataloghi d’asta, una quantità di tele incorniciate così com’erano ammassate lungo una parete, una catasta di ombrelli, ceramiche dei nativi americani, altri oggetti di incerta attribuzione, copie di capolavori e opere minori (con in mezzo un vero Cézanne, ma solo per creare ulteriore sconcerto).
Tutto quello che era accantonato come pezzo di risulta, difettato, o di secondo piano, finì insomma nel mirino camp di Warhol, e spesso senza alcuna selezione ulteriore – ma con l’espressa richiesta, all’indirizzo dei curatori del museo, di documentare scrupolosamente sul catalogo ogni singolo pezzo, anche il più umile. Raccontando l’esperienza di Raid the Icebox a un giornalista, l’artista disse che del museo gli era piaciuto proprio tutto, e in particolare “i quadri con i buchi e gli alberi” (che aveva fatto spostare dal giardino per collocarli in mostra).
Lo svaligiamento della riserva del RISD Museum da parte di Wahrol è stato, clamorosamente, un’operazione tanto di dubbio rilievo all’epoca (e c’è chi ne ha parlato come di un grande rimosso, per decenni, per l’istituzione stessa) quanto ricca di suggestioni per la pratica curatoriale del futuro. In effetti non si finisce mai di citarla (Wes Anderson, per esempio, come ispirazione per la sua patinata mostra-Wunderkammer alla Fondazione Prada nel 2019-2020) né di riproporla (Raid the Icebox Now, sempre al RISD Museum nel 2018-2020, cinquant’anni dopo Warhol) né di pensarla come la prima mostra anacronica, ovvero la prima che abbia messo in moto temporalità diverse, sfuggendo deliberatamente ogni classificazione storico-cronologica.
A pensarci bene, quello che allora allibiva i curatori del RISD Museum – la nonchalance con cui Warhol metteva insieme i manufatti amerindi con le tele strappate, i gingko biloba con i vecchi cataloghi – ora non ci stupisce. Abbiamo, e giustamente, l’impressione di esserci avventurati molte altre volte in percorsi simili. Senza accorgercene siamo già, e da qualche tempo, assidui frequentatori di musei e di mostre che si servono del montaggio di oggetti e opere di epoche diverse per farle dialogare tra loro, e anzi troviamo stimolante e fruttuoso il contrappunto di tempi diversi. Ecco perché è stimolante ragionare sul modo in cui questo dialogo si sviluppa, per capire meglio come le immagini possano mettere insieme passato, presente e futuro.
Ruota intorno a questi temi Anacronie. Leggibilità tra passato e presente nel display delle arti (Bononia University Press), un volume a più voci – a cura di Lucia Corrain, a partire dall’omonima giornata di studi tenutasi a Bologna nel 2020 – che intreccia le riflessioni di curatori e direttori di museo di tutta Europa a quelle di storici dell’arte, semiologi e teorici delle immagini.
Il volume, agile ma denso, si concentra sull’anacronia sia come tema di ricerca (come già il numero di «Carte Semiotiche» del 2013, curato da Angela Mengoni) che come chiave di lettura per buona parte dei display espositivi contemporanei. Perché anacronia, innanzitutto, e non il più familiare anacronismo? Perché questo -ismo, come ha sottolineato Paolo Fabbri, si porta dietro un sentore di “cattiva cronia”, come se solo la storia lineare avesse a dire la sua. Nel mondo delle immagini, in realtà, sono tanti i modi in cui esse si intrecciano tra loro anche controtempo, facendo segno dal loro tempo a noi che le guardiamo.
“Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione”, ha scritto Walter Benjamin in un famoso brano dei Passagen Werk: ed è proprio intorno a questa idea di costellazione, come incessante e luminosa unione di passato e presente, che si muovono i saggi di questo libro.
Guillermo Solana, direttore artistico del museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, cita appunto Raid the icebox come archetipo, ricollegando l’exploit di Warhol a precedenti come le Wunderkammern e ad alcune esposizioni delle avanguardie nel Novecento oltre che alla tendenza, poi emersa nel corso degli anni Novanta, alla mostra astorica, nella quale, come dice Corrain nella sua prefazione, “l’ordine cronologico scompare per lasciare il campo a corrispondenze tra opere che appartengono a periodi e culture distanti tra loro”. Molti sono gli esempi di mostre di artisti-curatori, proprio come Warhol, o di teorici-curatori, capaci di tracciare percorsi attraverso varie epoche a partire dal loro presente: da Damien Hirst con una mostra sulla vanitas per il Rijksmuseum (2008) fino a Jacques Derrida, Hubert Damisch, Julia Kristeva per la serie Parti pris al Louvre, negli anni Novanta, dove è il contesto critico ed espositivo stesso ad attivare in modo nuovo le opere in mostra.
Anacronie di altra natura, ma non meno affascinanti per il visitatore, sono quelle che mobilitano artisti contemporanei sullo stesso terreno delle opere del passato, chiedendo loro di sovrapporsi a esse, reinterpretandole dalla loro prospettiva. È il caso degli artisti chiamati dal museo Hendrik Christian Andersen ad agire sulle opere esposte con un loro atto artistico: Luigi Ontani, che si è appropriato delle statue anderseniane per ricoprirle, surrealisticamente, con maschere apotropaiche e simboli tribali, e Liu Bolin, i cui camouflages, come racconta la direttrice Maria Giuseppina Di Monte, “hanno avuto il merito di disarticolare e riarticolare lo spazio museale”.
Attraverso il linguaggio della performance, poi, i tempi multipli possono comporsi tra loro in modo da inglobare anche lo spettatore e coinvolgerlo nel dialogo tra passato e presente. È stato così in Tunguska Event. History Marches on a Table di Vadim Zakharov, che nel 2018 ha messo in scena per l’Art Week bolognese, come ricorda Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo, la Rivoluzione russa su una tavola imbandita per i suoi commensali, gli spettatori chiamati a prender posto e a partecipare agli eventi in scena.
Interessanti sono anche i percorsi espositivi a più voci, tra passato e presente, che non scompongono e ricompongono opere preesistenti in chiave contemporanea ma riuniscono opere e autori di epoche diverse sotto l’egida di un unico tema di fondo: è il caso dell’esposizione Eco e Narciso alle Gallerie Nazionali Barberini Corsini (2018), con Le ore di Luigi Ontani esposta nel salone di Pietro da Cortona e soprattutto l’installazione di Eco nel vuoto di Giulio Paolini di fronte al Narciso alla fonte di Caravaggio, che agglomera “due storie avvenute in tempi diversi, ma che condividono il tema del riflesso”, come scrive Lucia Corrain nel suo saggio con Mirco Vannoni.
Un doppio fuoco, quello della sala ovale con Paolini e Caravaggio, che a chi si occupa della vita delle immagini non può che evocare la sala ellittica progettata da Aby Warburg per la sua biblioteca, pensata per “riproporre la ‘forma simbolica’ dell’orbita cosmologica di Keplero” (Claudia Cieri Via, nel suo saggio) e il suo dinamismo continuo e mobile.
Se l’esperimento di Warhol è l’archetipo dell’anacronia in quanto dispositivo espositivo, Warburg, con la sua teoria della sopravvivenza dell’antico e la pratica del “buon vicinato” tra le immagini più diverse, nel suo Atlas Mnemosyne, è tra i riferimenti di chi riflette sul tema da un punto di vista teorico, insieme al già citato Benjamin.
Altrettanto fondamentale, a segnare la via sullo studio delle temporalità multiple, è anche il lavoro di Louis Marin, soprattutto nel suo ripensare il rapporto tra l’arte del presente e l’arte del passato. Spesso, infatti, ha evidenziato il teorico e semiologo dell’arte, il presente opera sul passato una sorta di “paradossale influenza a posteriori”, nel momento in cui l’opera del presente diviene un “prisma” che mostra ciò che è “costitutivamente all’opera nella rappresentazione stessa”: così Angela Mengoni, che nel suo saggio ci accompagna, proprio rileggendo Marin, attraverso due opere come Woman in the Water (1972) di De Kooning e Lo sbarco a Marsiglia di Maria de’ Medici di Rubens (1622) per scoprire quello che De Kooning ha colto di nuovo, paradossalmente, in Rubens. In altri termini, è proprio guardando a Rubens attraverso De Kooning che diventa evidente quanto il primo avesse già iniziato a lavorare dentro e oltre la figurazione classica, scavando a piene mani nella materia pittorica.
È insomma il montaggio anacronico tra immagini differenti ma capaci di interagire tra loro che può sprigionare, sulla scorta di Benjamin, una scintilla che unisca il passato al presente.
Così è anche nel saggio di Giovanni Careri, che compone insieme una lunetta nel ciclo degli Antenati di Cristo nella Cappella Sistina, quella che reca il nome di “Aminadab”, e una fotografia di scena tratta da una rappresentazione di Aspettando Godot di Samuel Beckett, rintracciando nel fondo di entrambe un’immagine della carnalità e dell’inerzia umana – aperta verso un possibile orizzonte, nel Giudizio, disperata invece in Beckett, con già la Shoah sullo sfondo.
Michelangelo Buonarroti, Antenati di Cristo, affresco, lunetta 6 sud, recante il nome di “Aminadab”, Città del Vaticano, Cappella Sistina / Foto di scena di En attendant Godot, spettacolo diretto da Lorraine Côté, Québec, gennaio 2005
Tarcisio Lancioni, invece, si concentra sul Polittico di Isenheim e sulle sue influenze in epoche e opere anche di molto successive, dapprima interrogandosi sulle dinamiche che collocando un’opera d’arte in orizzonti culturali differenti ne producono letture diverse, e poi su alcuni casi di “ripresa” o di “citazione” più o meno diretta dell’opera di Grünewald.
Spicca, tra tutti, il potente lavoro di Jasper Johns, che “incorpora” il Polittico – in un modo che è visibile solo a un lettore esperto – nel suo Perilous Night (1982) costruendo una nuova opera sulla trasfigurazione di elementi della prima e finendo per proporne, indirettamente, una lettura obliqua, dando il via a “un gioco ironico con il suo osservatore, a cui finge di proporre soluzioni che vengono poi immediatamente trasformate in ‘dubbi’”.
Siamo molto lontani, seguendo il filo di questi saggi che intrecciano Warhol e Benjamin, Johns e Warburg, Ontani e Caravaggio, dal vecchio paradigma, serpeggiante nel linguaggio comune, che oppone l’anacronistico all’attuale, il nuovo fiammante che ogni volta si propone come la versione più aggiornata del presente. Anacronia, invece, come ricorda Paolo Fabbri (che è il nume tutelare di questo libro, per il modo in cui ha sempre saputo prendersi cura delle immagini), può essere più proficuamente pensato come un termine neutro – neutro in senso semiotico, ovvero capace di schivare le prescrizioni e aprire a nuove possibilità di senso (e il pensiero corre alle lezioni di Barthes al Collège de France, sul tema).
Ecco che i cortocircuiti anacronici, come quelli ripercorsi qui, si mostrano come animati da una tensione continua, interna alle opere stesse o al display espositivo: una tensione capace di attivare simultaneamente, tenendoli insieme, presente e passato.
“Se sono influenzato dalla pittura di un altro tempo, è come il sorriso del gatto del Cheshire in Alice. Il sorriso restava quando il gatto era scomparso”, ha detto De Kooning, con parole centrali anche per la riflessione di Marin.
Come il sorriso del gatto di Alice, si tratta di veder riaffiorare, nel presente, l’impronta di un altrove con cui fare i conti (o viceversa, come abbiamo visto). Un orizzonte multiplo che abbiamo imparato a scrutare, senza accigliarci come i curatori del passato, lasciandoci affascinare dalla danza controtempo delle immagini.