Didi-Huberman, tavole e taccuini
Chiudersi alle spalle la grande porta tagliafuoco e poi affacciarsi sulla lunga sala, detta la Navata, che ospita Tables de montage, la mostra di Didi-Huberman all’IMEC, l’Institut Mémoires de l’édition contemporaine, produce subito una piccola vertigine.
Incollati alle pareti, da terra fino al soffitto, ci sono più di 4000 documenti originali, tra note di lavoro e immagini, organizzati per categorie e diligentemente allineati e incolonnati.
Le schede nella parete di sinistra, ricoperte di scritte, ricordano i cartigli delle collezioni di entomologia, su cui spesso sono infilzati i piccoli esseri ormai ridotti, dall’estro classificatore dello studioso, a immagine della loro specie. L’esposizione è divisa in 15 capitoli, e i cartigli corrono paralleli alle figure, anch’esse disposte in serie.
Forse le immagini, esposte nella parete di destra, sono l’equivalente degli esemplari dell’entomologo? Nulla di più inesatto, a dire il vero. Il lepidista cattura, disseziona, analizza, compara, e se riesce a “scoprire” una “nuova” falena (uso le stesse virgolette che Nabokov applica nel suo Parla, ricordo, parlando della sua infanzia a caccia di farfalle) fissa per sempre la sua scoperta, con uno spillo e un cartoncino.
Quelle che invece fanno specie – producono meraviglia – sulle pareti dell’IMEC sono immagini vive, sono parole vive. Sono allo stesso tempo l’esibizione degli oggetti intorno ai quali ruota il pensiero di Georges Didi-Huberman, filosofo, storico e teorico dell’arte e del visibile (appunti, frammenti di testi, immagini, dettagli di figure), e una dichiarazione di metodo, presentata nel suo farsi: come per il maestro Warburg, il cui atlante Mnemosyne è presente in tante forme in questa mostra, pensare le immagini implica metterle in relazione e chiede di rintracciare le correnti sotterranee che attraversano le epoche, le culture, gli stili.
Piccola parte di una raccolta iniziata sin dai primi anni di università, nutrita sia da letture obbligatorie (classici come Descartes, Malebranche, Condillac), sia da altri autori letti “pour la joie du présent de l’époque”, come Derrida, Deleuze, Foucault, Lacan, le piccole schede bianche sono ricoperte da note accurate, ben leggibili, vergate con calma con un pennarello nero che appare sempre lo stesso.
Le note, attualmente oltre 150000 – e altrettante le immagini – sono per la maggior parte custodite dall’autore nella sua casa-studio, in piccole scatole nere ripartite in tre macrocategorie che avrebbero affascinato l’imperatore cinese di Borges: Matière, Lieux, Corps. Nella prima trova posto tutto quello che riguarda i marmi, i tessuti, le testure, ma anche ciò che ha a che fare con il cielo o la polvere; tra i luoghi ricadono tanto il concetto di quadro quanto quello di mappa, ma anche muri, porte, fessure; il corpo è declinato in Corps érotique, Corps en mouvement, Corps politique… Solo in piccolissima parte (un breve schedario degli autori) interviene una classificazione alfabetica.
È solo a partire da questo immenso precipitato di sensazioni, di impressioni, di interconnessioni che può sprigionarsi la scrittura – e il lettore di Didi-Huberman ritroverà, lasciando correre lo sguardo sulle pareti della Navata, suddivisa in serie tematiche, l’intima ragione di quella densità al massimo grado che caratterizza i suoi lavori.
Come in quelle illustrazioni di spaccato tipiche della prima civiltà industriale, in cui di una città si mostrano, non senza meraviglia, gli strati sempre più interni e nascosti, dai cunicoli della metropolitana alle fognature, dalla rete elettrica ai tombini, che tutto fanno funzionare così brillantemente (non mancano in superficie dame in crinolina o signori a passeggio), anche qui si ha l’impressione di poter intercettare le radici sotterranee del pensiero di Didi-Huberman. Così, per esempio, i marmi di Santa Sofia a Istanbul rimano con i marmi dipinti del convento di San Marco a Firenze e con la Fanciulla con cappello rosso di Vermeer, di defigurazione in defigurazione (“toute ressemblance est inquiète de ce qui lui manque”, si legge), ripercorrendo in un istante la via che dalla dissemblance del Beato Angelico porta all’informe in Bataille.
Ma Tables de montage, nella cornice dell’Abbaye d’Ardenne (a Saint-Germain-la-Blanche-Herbe, dal 5 maggio al 22 ottobre 2023) e sotto la direzione attenta di Nathalie Léger, direttrice dell’IMEC, che già aveva esposto i carnets di Barthes al Centre Pompidou alcuni anni fa, è anche una dichiarazione di metodo e l’esposizione (nel senso proprio di ex-positio, di proiezione verso l’esterno) di un saper fare con le immagini. Anche per questo una grande parte della mostra è dedicata alla costruzione, alla fabbricazione, di questo sapere di prima mano.
Ecco che il video di apertura, collocato su un tavolo, trasporta lo sguardo dei visitatori sulla scrivania di Didi-Huberman: su un vero e proprio piano da lavoro di legno grezzo, il filosofo e teorico dell’arte è colto mentre fabbrica da solo le sue fiches, tagliando in due e poi ancora in due semplici fogli A4 – di bassa grammatura, specifica: le schede non devono diventare cartoline, oggetti da esibire. Sono oggetti di pensiero, devono essere volatili e mutevoli, leggeri, pronti a sovrapporsi ad altri (e in effetti spesso, sulle pareti, si notano dei piccoli pacchetti di carta, a cascata, dai quali sbuca fuori solo il titolo, come in quel gioco in cui da tanti testi diversi si fa in modo di ricomporne uno solo).
Sul tavolo, che è un tavolo da artigiano, proprio come lo era il padre, e sull’importanza di fabbricare cose con le proprie mani, qualunque cosa succeda, per esorcizzare il presente, Didi-Huberman torna più volte, nelle conversazioni con Henri Herré (i video della serie Tables des matières) che costituiscono il contrappunto audiovisivo della mostra.
Non è un caso che nella prima sezione del percorso espositivo, Sous la table, la peur, insieme alle incisioni di Goya e alle fotografie dei bombardamenti tedeschi del 1914-18 conservate da Warburg, figurino anche i versi che Marcel Didi scriveva, poco prima di partire per il fronte, intorno al 1940, e i quaderni su cui una giovane Estelle Huberman ricopiava le poesie che amava, sognando su lingue, come il tedesco, che il figlio non sospettava nemmeno conoscesse.
Prendere nota è fabbricarsi un appiglio del presente a cui aggrapparsi in futuro, e allo stesso tempo è negoziare una buona distanza da quello che si ha di fronte, per guardarlo meglio.
In un’altra conversazione con Herré ritorna un motivo importante, quello di “contourner le coup”: è Kafka che nota come un cane, di fronte a un colpo, disegni come un cerchio intorno alla mano o al bastone che lo aggredisce, per evitare uno scontro frontale da cui non avrebbe la meglio.
Con le cose del mondo – eventi, affetti, immagini – è lo stesso: occorre arrivarci lateralmente, accerchiarle, quasi in una danza, per evitare di esserne sopraffatti, e di ogni tratto cercare di cogliere un frammento, decomporre per poi ricomporre – e disporre, proprio come i pezzi di un mosaico. Tornano in mente le prime pagine sull’esplorazione di Birkenau, in Scorze, con quei “piccoli brandelli di scorza come le tre lettere di una scrittura che precede ogni alfabeto” che sono anche esposti, quasi sottovoce, in una piccola teca al centro della sala.
Lontano dalla dimensione tassonomica, lineare, che mira a produrre un codice chiuso e perfetto, a ricacciare a forza la bellezza della falena che muove le sue ali ora, proprio ora, nelle maglie strette di una entità astratta, la classe di lepidotteri (la parola tipo, si sa, deriva dal greco týpos che significa “impronta” ma anche “stampo”), a Didi-Huberman interessa piuttosto tracciare dei movimenti circolari intorno alle cose, lasciandole intatte nella loro singolarità.
Si tratta di accerchiare la preda, l’oggetto di indagine, di studiarne le mosse senza aggredire, accontentandosi di cogliere ora un aspetto ora l’altro. Ecco che innumerevoli sono le note sugli stessi autori e sugli stessi libri, a volte quasi sugli stessi passi, e che alla citazione si accompagna sempre una riformulazione, un nuovo avvio per il pensiero.
“Mnemosyne: solving the impasse by using illustration”, titola una scheda, citando un passo dell’Aby Warburg di Gombrich. E poco sotto, tra quadre: “≠ solution, = ouverture de mille chemins !”
Più che ad afferrare un testo, o a racchiudere un’immagine, le note o i dettagli visivi servono a farlo esplodere in mille direzioni, dalle quali ripartire infinite volte. Sono il precipitato su carta di una folgorazione, una tra le infinite possibili – ed è quel déclic dell’interesse che si accende all’improvviso che a Didi-Huberman interessa preservare. Solo una volta terminato questo lavoro di avvicinamento al suo oggetto, a distanza di sicurezza, può iniziare la scrittura.
Chi avrà la pazienza di soffermarsi sui video che chiudono la mostra, in chiasmo con il video iniziale, vedrà che il Didi-Huberman bricoleur, che si fabbricava il suo proprio materiale con le sue proprie mani, si trasforma poi nel Didi-Huberman giocatore.
Realizzate le schede (fiches ma anche cartouches le chiama, giocando sul filo del linguaggio, perché sono sì cartigli ma anche le necessarie munizioni di cui armarsi) la ricerca può davvero partire. Ma come? Ancora una volta, mettendo in circolo gli elementi minimi da cui tutto parte, parole e immagini: le mani di Didi-Huberman, che Herré segue con pazienza, tirano fuori i piccoli rettangoli bianchi istoriati di scritte ed ecco che diventano come carte da gioco, pronte per essere disposte sul tavolo, allineate, sovrapposte quando temi simili possono coagularsi in nuovi temi, o come tarocchi, figure che sollecitano narrazioni.
Montaggio, gioco e divinazione si confondono, mentre dalla danza delle schede nascono associazioni e combinazioni nuove che danno vita a un germe di idea su cui lavorare. Non a caso l’ultima sezione della mostra si intitola proprio Sur la table, le jeu. Terminata la raccolta, il viaggio che porta i materiali alla luce, e dunque sul tavolo di montaggio, è completo: “l’archiviste redevient l’enfant, mais libéré de sa peur”.
Giocando a questo stesso gioco, torna in mente Benjamin bambino, anche lui appassionato di farfalle. Amava catturarle: eppure, a gioco finito, non poteva che osservare come “sopra tanta devastazione, rozzezza e violenza la spaventata farfalla se ne stava, tremante e tuttavia piena di grazia, annidata in una piega della reticella”. Didi-Huberman commenta a lungo proprio questo passaggio di Benjamin nel suo Phalènes. Essais sur l’apparition, 2, ragionando della fugacità delle immagini, del loro essere in fin dei conti imprendibili – e del loro doverlo essere fino in fondo.
Leggendo ancora oltre, ecco come continua Benjamin, riandando con la memoria a quel momento d’infanzia berlinese: “lo spirito della vittima migrava nel carnefice”. Chi guarda e chi è guardato, l’immagine e chi le dà la caccia, finiscono insomma per risolversi l’una nell’altro. A loro insaputa, loro malgrado. La ricerca potrebbe ripartire da qui, e da qui ricominciare il suo giro.
In copertina, Vista finale di Tables de montage di Georges Didi-Huberman, all’Imec (Abbaye d’Ardenne) dal 5 maggio 2023 al 22 ottobre 2023.