Goethe Institut Turin / La fotografia, o della «pietà oggettiva»

29 Marzo 2017

Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo?

Un testo di Marco Maggi per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Nel dicembre 2014 il fotogiornalista turco Osman Sagirli è nel campo profughi di Atmeh, in Siria. Aggirandosi tra le tende e i ripari di fortuna, punta l’ingombrante teleobiettivo in direzione di una bambina, che d’istinto alza le mani in segno di resa. Lo scatto, oggetto di circolazione virale in rete prima di essere rilanciato dai media istituzionali, ripropone una questione centrale nei rapporti tra etica e fotografia, ovvero l’interrogativo sulla presunta violenza intrinseca al mezzo fotografico.

Un vivace dibattito sul tema si era svolto tra gli anni Sessanta e Settanta grazie a penetranti interventi di Metz, Baudrillard, Barthes e soprattutto Sontag; nell’età della rete e del digitale, la questione è stata rilanciata da un piccolo libro denso di spunti curato da Raffaella Perna e Ilaria Schiaffini (Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, DeriveApprodi).

 

Rispetto alle trattazioni di impianto semiologico dei maestri citati, i nove saggi raccolti nel volume si differenziano per l’attenzione all’oggetto fotografico come sintomo (inintenzionale) oltre che come testo (risultato di un intenzionale progetto di senso); con il risultato di mitigare la forse troppo rigida equazione fotografia = violenza, quasi un postulato per le speculazioni strutturaliste sul tema.

Seguendo una linea di riflessione che innerva diffusamente i saggi raccolti nel volume, si segnala una lettura di Flashes from the Slums, l’inchiesta fotografica condotta da Jacob Riis a colpi di lampi al magnesio nei sobborghi della New York di fine Ottocento, dalla quale Antonello Frongia vede emergere «la violenza della luce come contraddittorio strumento di un dialogo civile». Di «funzione dialogica», in rapporto agli usi della fotografia in etnografia, parla a sua volta Antonello Ricci, con originali osservazioni sul particolare «sentire comune» tra ricercatore e soggetto della ricerca generato nel contemporaneo dalla diffusa cultura delle immagini.

 

 


Federica Muzzarelli (passando “a contropelo” la storia di immaginarî devianti ricostruita da Lucia Miodini in Immaginario bellico e costruzione dell’identità di genere) segue il «parallelo percorso di autoaffermazione della fotografia e delle donne»; Adolfo Mignemi ricostruisce, insieme a quelli manipolatori, gli usi emancipatori delle fotografie di profughi e prigionieri delle guerre del Novecento; Raffaella Perna studia la «fotografia anticelebrativa» del movimento del ’77, alternativa a quella “ufficiale”, tanto delle istituzioni quanto della contestazione. Altri spiragli offre un elegante saggio di Andrea Cortellessa, che individua al cuore del progetto foto-narrativo di Giorgio Falco – scrittura mimetica rispetto al procedimento fotografico; esperienze di produzione di iconotesti (Cortellessa preferisce «testi insubordinati») in collaborazione con la fotografa Sabrina Ragucci – un atteggiamento definito, con richiamo a Elio Pagliarani, di «pietà oggettiva». Insomma, mentre sul piano semiologico dei testi lo sguardo fotografico pare unicamente seminare violenza, tutt’altro volto esso mostra sul piano, semeiotico, dei sintomi.

 

Ma la vicenda della fotografia della bambina di Atmeh sembra fornire ulteriori suggerimenti in tema di etica e fotografia, con particolare riferimento all’assetto attuale dei sistemi di diffusione e fruizione delle immagini. Qui la tematica non riguarda unicamente l’eventuale violenza intrinseca al mezzo, ma – come nell’archetipica fotografia del bambino del ghetto di Varsavia, già oggetto di un libro di Frédéric Rousseau – la rappresentazione in fotografia della violenza tout court; inoltre essa travalica tanto l’aspetto intenzionale quanto quello sintomale dei testi, per toccare quello dei loro usi.

Prima di essere rilanciata dai mezzi mainstream, la fotografia della bambina di Atmeh (Hudea è il suo nome) entrò in circuito con un twit da Gaza della reporter Nadia AbuSahan, che in pochi giorni venne ritwittato 11.000 volte.

 

Emerge in questa vicenda la natura istantanea, massificata e non mediata del web 2.0, sulla quale attira l’attenzione Ilaria Schiaffini nel saggio che apre il libro. Si tratta, come sottolinea la stessa autrice, di una dinamica dalle «conseguenze politiche dirompenti», ma in relazione alle quali Etica e fotografia, dopo quest’abbrivio, non fornisce ulteriori elementi di analisi (non fa eccezione il brillante saggio di Michele Smargiassi, che, ispirato da un recente episodio di manipolazione di immagini digitali, si risolve in una pur magistrale lezione di estetica perennis su stile e temporalità – non immemore, forse, del Mario Praz di Mnemosine). Nel complesso e ambivalente intreccio di visione e condivisione, meditazione sull’immagine e coazione al commento, esperienza mediata e personale, l’esigenza di una riflessione etica sugli usi della fotografia nell’epoca della comunicazione peer-to-peer rimane ancora inevasa.

 

Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, a cura di Raffaella Perna e Ilaria Schiaffini, Roma, DeriveApprodi, 2015.

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