La guerra non è finita

24 Aprile 2013

C’è un’opera di Alberto Garutti che funziona così: le lampadine, nell’installazione, si accendono ogni volta che nasce un bimbo o una bimba in un ospedale della città in cui l’opera è installata, collegati attraverso la rete, che rimbalza e avverte ogni buona novella. Non ricordo altri dettagli, né voglio verificarli, ma so che quell’opera dovrebbe chiamarsi Alarms and Surprises, perché dall’altro lato dell’esperienza, sulla faccia deserta del pianeta, bisognerebbe far saltare una lampadina ogni volta che una persona sana, potenziale, si toglie la vita. Lasciate perdere il forno in cui ha posato il capo Sylvia Plath. Lasciate perdere l’ambizione letteraria e la struttura mitologica. Lasciate perdere persino Le vergini suicide, il romanzo di Jeffrey Eugenides nel quale si racconta la storia terribile e neoclassica di cinque sorelle che in una cittadina americana si tolgono la vita una dopo l’altra – perché il suicidio, come le gravidanze (nel film Diciassette ragazze, tratto da una storia vera, un gruppo di liceali francesi rimangono incinte ‘per moda’, per emulazione, per ‘fare qualcosa tutte insieme’) è anche un atto stranamente imitativo, la ricerca di una comunità d’intenti quando tutti, nella comunità, ti sono sembrati disattenti. 

 

 

L’altro giorno, a Milano, si sono ammazzati due ragazzi di 33 anni, in casa, lasciando una nota d’addio che accennava a una vita ‘senza lavoro e senza affetti’. Più avanti i giornali hanno raccontato che uno dei due era assunto in una multinazionale, entrambi avevano figli da precedenti relazioni, e la situazione economica di entrambi sarebbe addirittura stata buona, lontana dalle drammatiche vicende di professionisti sul lastrico o impiegati che vivono in macchina.
Io non credo alla favola nera per la quale i suicidi di questi ultimi mesi sono diretta conseguenza della crisi economica, perché il legame causa-effetto è un dettaglio matematico, oppure non è: voglio i numeri dei suicidi del 2007, del 2008, del 2009, del 2010, del 2011, se qualcuno tiene questa contabilità, prima di definire un nesso. E non voglio dire nulla di queste persone, di questi cittadini italiani, quasi coetanei, persi in un insieme di barricate sulle quali io riesco ancora a camminare con forza (e questa forza è colpevole? Chi ‘ce la fa’ onestamente deve sentirsi responsabile dei fratelli e delle sorelle che non ce la fanno? Forse sì. Altrimenti non si spiegherebbe la mia espressione sospesa, impossibile aggiungere qualsiasi dettaglio, commento, impossibile giustificare il semplice fatto di sentirsi sorpreso e ferito, come scriveva il poeta). Il rispetto e la melanconia impongono una certa quantità di silenzio, e non c’è nulla da fare, se non darsi da fare per costruire una società così vitale ed eccitante, un mondo di cose interessanti in un contesto più equo di quello che sta stritolando la classe media, che lasciarsi andare sembrerebbe inopportuno se non altro perché ci sono così tanti nuovi concetti, così tante persone, così tante immagini da cacciare, così tanti suoni da inseguire, e oggetti da comprare e creature da amare, e pezzi di soluzioni così forti nuove urgenti che battono la stasi inaccettabile, l’assenza di desiderio, gli occhi serrati da palpebre gonfie di lacrime e una vita in cui troppe persone più o meno in gamba si sentono come pesci in una sala d’aspetto, o come la faccia di Thom Yorke nel video di No surprises.

 

Intorno al mio ventiduesimo anno, cioè dieci anni più giovane dell’età dei due ragazzi milanesi, per molto tempo ho ascoltato solo una canzone, ripetutamente, giorni e giorni, nei picchi di difficoltà e nelle improvvise parentesi in cui non sentivo nulla – cioè stavo bene. No surprises è stupenda. Non conosco nessuno che non ami No Surprises: è una specie di inno intimo generazionale. E’ una cantilena incantata sulla depressione, con uno splendido testo che non sfigurerebbe nella raccolta completa dei versi di Philip Larkin. A job that slowly kills you, intona la voce del cantante – ed era vero, per chi aveva vent’anni e stava in Europa alla fine degli anni novanta, immaginare un mondo in cui l’ennui da eccesso di benessere avrebbe reso l’esistenza privata e pubblica così piatta da togliere ogni voglia di vivere. L’Europa poteva essere definita come una fortezza finanziaria in cui la Storia era sostanzialmente volata via. Ti potevi suicidare perché il lavoro ti somministrava distacco in dosi omeopatiche. Nel giro di poco più di dieci anni, tutto è cambiato, e la società europea – e in particolare quella italiana, eccezione eccezionale – sembra piombata in un’anticamera storica alla quale gli economisti hanno dato un nome, stagnazione, in cui le cose si tengono insieme per inerzia e per la buona volontà di qualcuno, di molti, ma senza alcuna prospettiva di rimbalzo. E in mezzo a tutto questo pacifico stillicidio, diversi cittadini, disoccupati e tartassati, si tolgono la vita. Non è un dato statistico -  è soltanto un simbolo, ma nessun simbolo è soltanto un simbolo. 

 

 

Un importante mensile appartenente a un grande gruppo editoriale, nel 2008, raccoglieva 1.300.000 euro di pubblicità al mese. 15 milioni all’anno. Lo stesso mensile, nel 2012, ha raccolto meno di quattro milioni di euro. Nessun dato, come questo, a mio parere illustra bene il salto all’ingiù che stiamo vivendo. Mezzo secolo di crescita ininterrotta ha sfibrato la capacità di pensarsi interi anche quando il proprio potere d’acquisto si dimezza. Persino gli italiani economicamente fortunati, ammesso e non concesso che i due lo fossero, sentono indebolirsi le maglie delle proprie racchette da neve – e tutt’intorno non vedono altro che neve. Le persone deboli, in un contesto storico imprevisto e sobillate da un’aria mefitica depressiva, si ammazzano – non c’è soluzione, e non è giusto trasformarli in eroi o vittime eroiche, perché sennò si toglierebbe quel poco di orgoglio e di energia a tutte le persone sfiancate dalle difficoltà umilianti che questo tempo ci ha consegnato: chi si ammazza va rispettato, così tanto che non dovrebbe fare notizia – ma chi non si ammazza fa la cosa giusta, e l’amore per la vita contemporanea non si misura certo nell’ottimismo esasperato di certi soloni, pure la disperazione è una bella forma di attaccamento all’essere titolari di un qui, ora, domani.

 

Ma oggi – immersi nell’Informazione, come recitava il titolo profetico di un romanzo di Martin Amis del ’92 – noi che produciamo conoscenza e, a diverso titolo e responsabilità distribuiamo frammenti di umore attraverso i media, abbiamo un ruolo cruciale – la rigenerazione della vita psichica sociale è un problema mio, è un problema di tante persone che conosco e che dirigono piccole imprese editoriali o grandi riviste, o scrivono programmi televisivi, oppure operano a tutti i livelli di questo sistema. Non è un problema della politica – è un problema nostro, e se sapremo rendere conto di questo problema e di modi corretti, etici e visionari, per affrontarlo, la politica non sarà più un problema, perché la politica respira l’aria che generiamo con le nostre abitudini verbali, le nostre idee, i nostri umori, e perciò ogni volta che tocca premere il tasto ‘invio’ o il tasto ‘publish’ andrebbe ricordato con tutto il cuore di cui siamo ancora capaci, che ‘publish or perish’, pubblica o muori, andava bene in altri tempi, e questi sono tempi di guerra, una guerra in tempi di pace, e ogni cosa che toglie voglia di vivere per stupidità o per ripetizione o coazione a non-pensare, a non-immaginare, a non-godere, a non-provare-piacere-per-essere-vivi (anche se tutto crolla), ecco, ognuno di questi publish contribuisce alla voglia di perish di qualcuno, là fuori. E con la sobrietà di cui non sono capace, ora, smetto di scrivere e dichiaro che va offerta una preghiera (o qualcosa di simile) alla memoria dei due suicidi milanesi. Ma a preoccuparmi di più, adesso, in questo silenzio che accade al termine delle parole, sono tutte le trentenni e le venticinquenni e i ventisettenni e le quarantenni che non si agitano più, in città o nei paesini attaccati ai boschi e alle montagne, che a causa nostra, anche, penseranno di farla finita, nel 2013, il più crudele degli anni. La guerra non è finita.

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