La rivolta del corpo

30 Agosto 2024

Parlare di liberazione del corpo, al giorno d’oggi, appare fumoso quanto parlare di Dio o dell’Amore. Libertà, in questo senso, è un dispositivo di significato atto più a contenere contemporaneamente plurime possibilità che a individuarne una specifica. Nel momento in cui poi questo discorso viene collocato all’interno di un contesto artistico, il corpo stesso si esprime soprattutto come rappresentazione. È innanzitutto un’immagine. Accettati questi presupposti, si riemerge quasi inebriati dalla lunga, ricchissima variegata sequenza di nomi, eventi, situazioni presenti nel libro di Angela Vettese La rivolta del corpo: gli artisti che lo hanno usato, spinto al limite, liberato edito da Laterza. Una lettura che assomiglia allo scorrere infinito di figure nella mente; un caleidoscopio di gesti, pose, fattezze diversamente agite che narrano un secolo di dibattito incessante sulla pelle che abitiamo; nonché gli infiniti modi in cui la carne si fa portavoce dell’ideologia culturale dominante o, al contrario, di una fiera resistenza ad essa. 

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Il filo narrativo di Angela Vettese non è rigidamente definito da un inizio o una fine cronologici. L’autrice salta con grazia dai primi anni del secolo scorso ad oggi e poi ancora indietro e avanti, individuando una serie di macro-idee di corpo artistico, sociale e culturale legate a peculiari istanze espressive. Una volta pacificato il dilemma fra avanguardia artistica e cultura massmediatica, il libro procede per corpi di volta in volta dolenti, esposti, autolesionisti, ibridi – ogni capitolo un aggettivo diverso – di pari passo con le esperienze artistiche più sperimentali e gli immaginari collettivi più diffusi.

C’è il corpo esperito come carne che si estende oltre i propri limiti, si ferisce e accoglie i propri fluidi, dai reportage fotografici bellici alle sfide audaci della body art; il corpo giovanile della cultura beat e di quella pop che avanza verso le diverse possibilità di una rivoluzione sessuale espressa anche da una originaria pornografia dissidente; si descrive un immaginario ritorno alla natura attraverso corpi fusi con l’ambiente circostante o ibridizzati entro un genere sessuale espanso. Ci sono i corpi delle celebrità, perfetti e bidimensionali, vuoti di materia concreta ma ricchissimi di senso, dallo stile androgino di Marlene Dietrich a quello ambiguamente erotico di David Bowie. Ma laddove trionfa il potere sotterraneo e onnipresente del sistema capitalistico si de-formano corpi schiavizzati: macchine di carne ridotte alla gestualità esasperata della produzione industriale, oppure corpi ossessionati da sé stessi come oggetti di consumo da proporre sul mercato. 

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Questo poliedrico excursus nelle multiformi rappresentazioni dell’essere carne e ossa sottintende però un minimo comun denominatore che è quello stesso dell’immagine. C’è sempre, alla radice, una scelta ben precisa su ciò che noi, l’artista, o la cultura vogliamo esporre del corpo, ed è una scelta che agisce su una molteplicità di ipotesi individuandone di volta in volta una e una soltanto che mette a tacere tutte le altre potenzialmente presenti. Un corpo ibrido non può esprimersi come un corpo convenzionale; un corpo modificato non è dato come un corpo naturale. Nella scelta c’è dunque una rinuncia, un sacrificio di significati ipotetici che rende il concetto di corpo liberato alquanto capzioso perché inevitabilmente sempre restrittivo. Il corpo artistico, culturale, sociale si riduce nell’immagine sia in termini di forma che di sotterranei significati ideologici: pertanto l’orizzonte offerto dalla digitalizzazione dell’immagine non presenta nuovi scenari quanto esaspera quelli già esistenti. 

A questo punto il nocciolo fondante della questione diviene legare queste immagini all’esperienza reale e irripetibile dell’avere un corpo. Alla fine del libro Angela Vettese si interroga con una certa preoccupazione intorno al futuro di una società mista composta da corpi umani, cyborg e robot: una collettività, dunque, dove possedere un corpo avrà dei significati assai più complessi di quelli odierni. Che identità, diritti e doveri riconoscere a futuristici cloni, corporeità e cervelli modificati in laboratorio, per non parlare di intelligenze artificiali create ex novo da zero?

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Per quanto il corpo oggi venga esperito perlopiù come un’immagine – talvolta talmente modificata da produrre un’identità inedita altra rispetto a ciò che dovrebbe rappresentare – esso è difatti pur sempre agito da una coscienza che lo abita. I milioni di immagini con cui veniamo bombardati ogni giorno non devono farci dimenticare questo dato fondamentale: il corpo è qualcosa che innanzitutto è vissuto. Nel libro di Francesca Marzia Esposito, Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione (Minimum Fax 2024) l’ossessione per un’immagine corporea perfetta è subordinata a una coscienza della carne talvolta sofferta, altre testarda e orgogliosa. La perfezione stessa qui si rivela un concetto ambiguo che si esprime in manipolazioni materiali assai differenti. In particolare, prendendo spunto anche dalla sua esperienza personale, l’autrice si sofferma su due modelli fisici straordinariamente diversi benché soggetti al medesimo meccanismo di alterità fisica esasperata: quelli cioè del mondo della danza classica e del bodybuilding. La dieta, lo spossante lavoro di controllo atto a intervenire sull’alimentazione, la costruzione minuziosa di una forma fisica ben precisa sono le medesime, come eguale è il senso del concetto di perfezione citato dal titolo del libro. La perfezione non è comune, né banale. Corpi perfetti sono corpi altri, differenti, estranei, alieni. Questa alterità può essere letta come meravigliosa – la purezza del gesto di ballare – o mostruosa – vedi i commenti impietosi ai corpi gonfiati dei bodybuilders – ma rimane comunque necessaria per realizzare l’utopia fisica. Del libro di Francesca Maria Esposito si vogliono qui rimarcare le storie delle molteplici vite che vi si possono trovare all’interno: atleti sopraffatti dall’ideale fisico – talora a costo della vita – oppure audacemente impegnati a proporre al mondo il proprio personale modello di corpo a costo di critiche, rifiuti, faticose lotte per emergere. Da Misty Copeland – prima artista nera a diventare prima ballerina dell’American Ballet Theatre, fisicità muscolosa in aperto contrasto con l’archetipo della ballerina classica – a Irene Andersen, bodybuilder danese che rivendica il diritto di esibire un corpo egualmente pompato come quello maschile, oltre ogni paradigma stereotipato su ciò che deve rappresentare la femminilità; sono queste tutte storie di solitudine, infelicità, ma anche coraggio e ribellione al sistema.

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Se la liberazione del corpo rimane tuttora un atto culturale ambiguo probabilmente impossibile da realizzare pienamente, l’unico dato che può cambiare davvero le cose è mettere in primo piano l’umanità che vi si cela. Dietro un corpo vi è sempre una persona, ed è nella misura in cui gli individui non scompaiono dentro l’immagine, ma riescono anzi a fare di questa una consapevole espressione di sé, che possiamo sognare corpi veramente autodeterminati. 

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