La realtà fatta idea / Robert Mapplethorpe
Look at the pictures! Guardate le immagini! urla ai suoi colleghi il senatore Jesse Helms a Washingthon D.C. all'inizio del documentario Mapplethorpe. Look at the pictures, edito da Feltrinelli. Tra le mani tiene una stampa che sventola rapidamente davanti alle telecamere perché se ne colga un fugace scorcio e nulla più: si tratta del celebre The Man in Polyester Suit (1980), dove un poderoso membro nero fuoriesce dall'abito impeccabile di un uomo senza testa. Dovrebbe essere un'immagine oscena, ma in realtà è una composizione molto raffinata. L'estrema eleganza estetica della fotografia, con il lungo pene nero perfettamente integrato nella costruzione della figura vestita, potrebbe riassumere in un solo sguardo l'apparente dualismo che è facile ritrovare nell'opera di Robert Mapplethorpe.
Il fotografo era consapevole di presentare nel suo lavoro elementi a prima vista eterogenei e opposti, quali la grande finezza visiva unita a soggetti intesi come “bassi” nella misura in cui accedevano alle pulsioni sessuali più viscerali. Nel film di Fenton Bailey e Randy Barbato viene mostrato l'invito per la sua prima mostra Polaroids (1973), costituito da una delicata busta di Tiffany & Co. con al suo interno l'immagine di due mani che stringono la macchina fotografica sopra un pube maschile, il pene coperto da un piccolo tondo adesivo rimovibile; nel 1977 le due differenti Pictures/SelfPortrait, una mano sobriamente vestita e l'altra adorna di guanto nero di pelle e bracciale con borchie, aprivano le due mostre Portraits e Erotic Pictures allestite in contemporanea a New York nelle gallerie Holly Solomon Gallery e The Kitchen. Pornografia versus ritratti di fiori, una dicotomia che Mapplethorpe superava affermando "nel fotografare un fiore mi pongo più o meno nello stesso modo di quando fotografo un cazzo. In sostanza è la stessa cosa. È un problema di luce e composizione (…) la visione è la stessa”.
Ma lo shock provocato dalle sue immagini, lo stesso che avrebbe acceso le proteste contro la sua ultima mostra The Perfect Moment (1988) e aperto un furioso dibattito sociale e politico sullo status artistico del suo lavoro, serve a descrivere più il contesto culturale in cui ha operato il fotografo che il valore della sua concezione estetica. In Robert Mapplethorpe. Fotografia a mano armata (Johan & Levi Editore), Jack Fritscher, scrittore, amante di Robert e direttore della prima rivista che ne pubblicò le immagini, elabora un lungo e complesso racconto della New York in cui si Mapplethorpe si mosse tra gli anni '70 e gli anni '80: un caleidoscopio di facce, dialoghi su uno sfondo fatto di riviste underground, liberazione sessuale, le notti al controverso locale gay Mineshaft, luogo di pratiche tra le più scandalose “dai tempi dell'antica Roma”, e la conseguente passione per il latex, il sesso sadomaso e il bondage, in una crescente esasperazione espressiva alla ricerca del riconoscimento economico e artistico da parte delle gallerie d'arte e delle classi sociali agiate. Sono quelli, avverte Jack Fritscher, anni che non è possibile comprendere se non li si è vissuti in prima persona, tempi ora equivocati nella memoria e nelle ricostruzioni storiche. Il suo libro su Mapplethorpe è il romanzo di un mito, gli anni '70, la cui reale potenza è andata perdendosi man mano questi si sono tramutati in passato; ma è soprattutto il racconto parziale ma intensissimo che Fritscher fa del suo amante, privo di ogni scrupolo nel buttarsi nella sperimentazione sessuale e artistica, nonché nella seduzione e manipolazione delle persone adatte a promuovere la sua carriera, dagli amici ai compagni come Sam Wagstaff, il curatore d'arte che prese sotto la propria ala il giovane artista acquistando per lui un'Hasselblad medio formato e il suo primo studio fotografico.
Il fotografo George Dureau disse che “Robert gestiva se stesso come un grande magazzino”; l'ambizione e il talento manipolatorio di Mapplethorpe sono elementi che ritornano spesso nei racconti di chi l'ha conosciuto, come anche la volontà di essere conosciuto e discusso negli anni a venire. Come Jack Fritscher anche Patti Smith, la sua prima musa, compagna e modella, ha raccolto qualche anno fa la richiesta dell'amico raccontando in Just Kids il primo incontro e la convivenza al Chelsea Hotel –
leggendario alloggio bohémien di alcuni tra i più grandi artisti, rockstar e scrittori del secolo scorso – e il successivo distacco dovuto anche alla progressiva immersione di Robert in una dimensione artistica dai contenuti oscuri e lascivi.
Sarebbe facile liquidare il contenuto erotico dell'opera di Mapplethorpe come una geniale trovata commerciale pensata a tavolino per vendere arte pornografica a un pubblico ricco ed elegante, ma la visione dell'artista, astutamente proposta al mondo dell'avanguardia come qualcosa da accettare proprio per il suo inedito ma identico essere così “avanti”, è frutto della sua stessa personalità. La scoperta delle riviste gay, con le loro immagini scadenti ma laide, l'esperienza del Mineshaft e una promiscuità sessuale sempre più esasperata suscitarono nel fotografo una sensazione che immaginò potesse dar vita a un'espressione artistica superiore; la vita come un'opera d'arte fu in effetti il modello che Robert inseguì nella sua carriera, costruendo la sua identità sulla figura dell'artista e ricercando sempre un riconoscimento collettivo dalla comunità. Non stupisce allora che la sua malattia, e il rapido decadimento fisico che ne seguì, abbiano prodotto come reazione il boom delle vendite e delle commissioni, con la preparazione di un'ultima grande mostra e il sontuoso party d'addio immortalato in un servizio di Vanity Fair (Febbraio 1989), col fotografo seduto in poltrona a ricevere i tributi di amici, amanti e acquirenti facoltosi.
Il modo in cui Mapplethorpe affronta il proibito rivela tutto il suo approccio all'immagine: la materia resa così perfetta da perdere ogni concretezza. Le sue fotografie possono dare un pugno allo stomaco – una mano infilata in un ano, un dito dentro un pene – ma non sono davvero carnali. In questo senso la scelta del mezzo fotografico, per quanto in realtà casuale, poiché Mapplethorpe non aveva alcuna conoscenza teorica al riguardo, appare perfettamente coerente col suo approccio bidimensionale. Robert era affascinato dalla scultura, ma la fotografia, appiattendo la carne, gli permise di catturare le immagini dei corpi da lui scolpiti puramente nella luce. Questa sofisticata, costruita bidimensionalità si eleva oltre lo sguardo pornografico, contraddistinguendo tutto il suo lavoro dai ritratti su commissione alle nature morte. Anche le figure dei suoi modelli – le muse Patti Smith e Lisa Lyon, diversamente androgine, e i fisici statuari che fotografò per tutti gli anni Ottanta – possiedono una sorta di patina visiva che potrebbe quasi ricordare l'attività di lucidatura compiuta da Antonio Canova sulle sue statue.
Il suo è un lavoro che si svolge unicamente in uno studio, col fotografo intento a provare ossessivamente ogni tipo di posa, spostando di centimetro in centimetro ogni parte del corpo fino a costruire, come una scalpellata d'occhi, la figura perfetta. Una sorta di rituale della composizione, dove l'inquadratura controlla, raffredda, solidifica le linee e le masse. Nelle dinamiche sessuali, nelle corde e nelle pratiche sadomaso riecheggia la giovanile educazione cattolica dell'artista, con il suo immaginario di martiri, crocifissioni e supplizi a esprimere in un formato edificante quella pura emozione della carne altrimenti ripudiata dalla religione, al pari della figura di Satana, da cui il fotografo era fortemente attratto: immaginario che raccoglie in sé quegli istinti potenti e incontrollabili che possono essere espressi solo se tradotti nel peccato e nella punizione. Robert Mapplethorpe celebra nella funzione fotografica la pulsione sessuale e la carnalità elevandole ad altari artistici, vergini icone immateriali. La perfezione estetica ricercata dall'artista diviene un'attestazione di fede: col rito della fotografia la realtà diviene immagine e si cristallizza come idea.