Blonde. Come muore una stella

10 Novembre 2022

“La luce andava calando. Lei pareva dissolversi con essa, fondendosi col cielo e le nubi, svanendo ancora oltre.” (Truman Capote, “Una bellissima bambina”, da Musica per Camaleonti)

La storia dell’arte visiva rende possibile un’idea affascinante: che possano esistere nel mondo individui oggettivamente luminosi, ovvero dotati della facoltà di emanare dalla propria persona una sorta di luce e calore, un’energia fisica percettibile. Dato che questa forza sa imprimersi con vigore nell’immagine è facile che queste persone divengano icone culturali, rivelandosi una sorta di esperienza emotiva di massa. Se il Novecento, secolo stratificato di immagini, ha avuto infiniti volti simbolici, vi è però una figura che più delle altre è riuscita ad imporsi come la massima icona di luce: Marilyn Monroe. 

Come parlare della luce in sua assenza? Come riuscire ad esprimere l’emozione della retina dell’occhio che si colma offrendo un mondo alla mente? Affrontare MM significa oramai, a sessant’anni della sua morte, precipitare in un pozzo di storie infinite, interpretazioni contraddittorie, facili cadute nello stereotipo della vittima/dea del sesso. Nel 2000 Joyce Carol Oates, prolifica autrice americana, dà alle stampe Blonde, un romanzo visionario, oggetto esplicito di finzione, basato sulla vita della celebrità americana.

Quest’anno dal libro è stato tratto un film presentato al festival di Venezia per la regia di Andrew Dominik. Distribuito da Netflix, già a giugno il teaser aveva fatto assaporare, in un solo minuto, le possibilità di un’opera intensa, perfettamente ragionata. L’accoglienza finale è stata però al contrario deludente se non addirittura indignata da alcune specifiche scelte di regia; il che rivela come la chiave, nonché il problema stesso del film sia proprio il suo consapevole punto di vista narrativo su Marilyn, a partire dalle pagine di Joyce Carol Oates. O meglio, alcune sue pagine.

1. Il romanzo

Prigionieri come siamo delle nostre menti, costretti a intuire e interpretare le persone attraverso dettagli minimi – parole, gesti – possiamo avvicinarci alla lettura, come alla narrazione in generale, come unica verosimile simulazione di ciò che nella realtà l’altro non ci mostrerà mai nella sua pienezza: i suoi pensieri più nascosti, censurati, colpevoli. 

Al centro dell’opera di Joyce Carol Oates c’è l’intenzione di rendere più reali possibili i personaggi, talvolta con scelte stilistiche ben precise. Durante la lettura di Blonde si inizia a intravedere un pattern narrativo costante: i pensieri dei personaggi emergono, in prima o in terza persona, in un modo così spontaneo da dar l’idea di abitare, in quelle poche righe, dentro le loro menti. Sono frasi sempre che si differenziano per l’uso del corsivo, e in Blonde divengono la sottostruttura della storia entro il quale il lettore può avvicinarsi così tanto al personaggio da sentirlo pensare. Sono pensieri, o sono voci da molto lontano? Un coro di personaggi si avvicenda intorno a Norma Jeane futura star del cinema, e intelligentemente Oates sceglie di approcciarvisi nel modo più letterario possibile. Nell’introduzione afferma: “Blonde è una ‘vita’ radicalmente distillata in forma di romanzo e ricostruita con l’ausilio della sineddoche”.

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Famiglie adottive, amanti, problemi, film, tutto viene riassunto o reimmaginato in alcune sequenze, e se Norma Jeane/Marilyn mantiene il proprio nome – come la madre – altre figure chiave possiedono un nome simbolico: l’Ex Atleta (Joe di Maggio) o il Drammaturgo (Arthur Miller), mentre fotografi, amici e agenti spesso vengono contratti entro un unico personaggio simbolico. In questa storia divenuta dunque così esplicitamente di finzione la voce di Norma Jeane appare tuttavia verosimile perché affine alla donna originaria e alle mille storie che essa stessa ha raccolto intorno a sé nel tentativo di rimpossessarsi del proprio passato e di un’identità frammentata. Il libro appare un racconto che la stessa NJ avrebbe potuto fare su sé stessa, in un suggestivo flusso di coscienza: forse in una seduta d’analisi, mistificando e mitizzando i personaggi chiave della sua esistenza. Qualunque possa essere la verità, è certo che il romanzo di Oates rimane fedele alla sua protagonista perché ne mantiene in primo piano il bisogno più primitivo, potente e lacerante: il desiderio di esistere, e di essere una persona. 

2. Essere vista per essere nel mondo

“Il fatto è che semplicemente la condizione emotiva del sentirsi reali è, per un motivo o per un altro, talmente superiore alla sensazione di un vuoto dentro di sé che può diventare per protagonisti come Marilyn una motivazione più potente dell’istinto sessuale, o del desiderio di far carriera o di far denaro”. (Norman Mailer, Marilyn)

La storia di Norma Jeane/Marilyn è talmente archetipica che Oates deve solo estrapolarne i simboli più ovvii: La Serva Stracciona e La Principessa Buona. Da questi due topoi narrativi la vita di NJ emerge naturalmente letteraria. C’è la bambina derelitta con la madre trascinata in manicomio, sballottata fra orfanotrofi e famiglie affidatarie ridotta a fare la sguattera di casa; eppure quest'anima di figlia di povera gente, come la definì Pier Paolo Pasolini ne La Rabbia (1963), proprio come nelle fiabe riceve un unico straordinario dono. Non ha dei genitori, non ha un’istruzione, non ha nulla: ma è bellissima. Che da questa piccola disgraziata emerga, come una sorta di vendetta della natura, l’Amica Magica venuta a salvarle la vita grazie a un corpo perfetto, è la stessa MM a raccontarlo a Ben Hecht:

“Ero avvolta in una strana sensazione, come se fossi due persone. Una di loro era la Norma Jeane dell’orfanotrofio che non apparteneva a nessuno. L’altra era qualcuno di cui ignoravo il nome. Ma sapevo a chi apparteneva, Apparteneva all’oceano e al cielo, al mondo intero”. (Marilyn Monroe, La mia storia)

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Non ci si stupirà che in questa fitta rete di metafore sia intervenuta la stessa psicanalisi a definire NJ: in Dea. Le Vite Segrete di Marilyn Monroe Anthony Summers riporta la diagnosi di disturbo di personalità borderline. Di certo, visti i precedenti ereditari di casi di follia in famiglia, e l’evoluzione traumatica della sua personalità fra abusi e abbandoni, l’esistenza di NJ è stata prima di tutto un atto di pura e semplice sopravvivenza psichica. Se non si è nessuno, cosa fare per diventare qualcuno? L’esigenza violenta di essere semplicemente vista e riconosciuta spinge fin da giovane la ragazza a sognare di esibire il proprio corpo – in chiesa – come onesta offerta allo sguardo, “mi prendeva l’impulso di togliermi tutti i vestiti di dosso. Volevo disperatamente stare nuda in piedi per Dio e che tutti gli altri vedessero. (…) Nuda ero come le altre ragazze e non qualcuno con una divisa da orfano addosso.” 

La stessa NJ, conscia della duplice natura della sua personalità, si ritrasse in due autoritratti, il primo in forma di bambina, spalle curve, un senso di gravità, schiacciata verso il basso dal peso dei vestiti che le coprono il corpo; e l’altra pura nudità di linee aperte, libere, come un atto gioioso di danza.

Il mito si innerva facilmente nella storia di MM: epica rivincita dell’ultimo che diviene primo ma soprattutto, del buio da cui scaturisce, come un secondo Big Bang, un’esplosione di luce. Ma andando oltre i rapidi simbolismi la sua biografia rivela come a un’iniziale strenua dedizione alla propria trasformazione in pura immagine sia seguita subito la rivelazione definitiva dell’atto che l’avrebbe salvata dagli abissi: recitare. 

E se fallisci? Se fallisci. Fallirai. E allora dovrai morire pensa NJ in Blonde, ed è in questa prospettiva che studia, si impegna, riempie liste di cose da fare. Se riuscirà a diventare un’attrice, una vera attrice, avrà a disposizione lo strumento perfetto per sostenere la sua identità frammentata, tornare a sé stessa pur divenendo un’altra persona. Il romanzo di Joyce Carol Oates reinventa i suoi ruoli cinematografici come processi di indagine dell’inconscio, laddove i ricordi intervengono a dare significato al personaggio. Oltre tutto ciò c’è MM stessa, la sua suprema creazione, l’Amica Magica divenuta la più celebre diva di tutti i tempi. Non poco, per una personalità dalla psiche invalidata e sofferente: al contrario di ciò che sceglierà di mostrare Andrew Dominik nel film, il libro rende omaggio alla forza d’animo di una donna fragile ma dalla volontà di ferro. 

Certo, tutto ciò accade in un universo dominato dagli uomini: se Marilyn è costretta a giocare le impietose regole del gioco per farcela, allora vista la sua presenza fisica è conveniente che venga venduta al pubblico, dopo un’attenta serie di ritocchi al trucco, al viso e ai capelli, come bomba del sesso. Eppure lo studio della sua biografia rivela una partecipazione attiva alla produzione della sua icona, come la lettura assidua del libro di anatomia The Thinking Body di Mabel Elsworth Todd e l’allenamento quotidiano nelle attività fisiche più disparate. Il suo corpo è uno strumento, e MM ne fa l’alleato più fidato. 

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Se il gesto stesso di mostrarsi è per lei un bisogno primario, la capacità espressiva della sua carica sessuale è un fatto spontaneo, genuino che si mischia al potente desiderio di essere amata da un uomo, in virtù della perduta figura originaria. Il padre di NJ (in Blonde e nella realtà) è per lei solo il ricordo di una fotografia, una vaga somiglianza con Clark Gable, inevitabilmente idealizzato per compensare l’abbandono reale della madre. Ogni suo marito diviene pertanto Daddy, un padre temporaneamente ritrovato, e lo stesso pubblico è un amante immaginato. Ma l’uomo sognato da NJ non torna mai realmente da lei, e al suo posto i maschi che dovrebbero amarla esprimono il diritto di divorarla proprio in virtù del suo essere MM. 

La storia di MM è la graduale trasformazione di un ruolo di successo in una prigione deformante, una continua contrattazione fra l’industria cinematografica hollywoodiana e le proprie esigenze di vera attrice assorbita da un approccio non lineare, quasi sperimentale, alla recitazione. Ancora una volta, da un ostacolo la donna trae un’opportunità. Se la tecnica convenzionale le risulta difficile, allora non rimane altro che far conto su sé stessa, e ricominciare daccapo. Il suo stile attoriale istintivo e personale vince sempre sullo schermo, ma il dietro le quinte nasconde spesso una lotta continua con sé stessa e il set per diventare il personaggio: ricerca estenuante per trovare in esso il sollievo finale dall’angoscia. 

3. Dal libro al film: storia di un omicidio collettivo

In tutto ciò, gli uomini appaiono, incombono, reagiscono: il pensiero ricorrente di tutti è quello di essere affascinati dall’Attrice Bionda ma di non capirla, o di riuscire a farlo troppo tardi. Blonde è attraversato da una generale incomprensione sia della persona che dell’attrice, ed è in questa fatale incrinatura che il film di Andrew Dominik decide di innestare il proprio fulcro narrativo. L'aspetto disturbante di Blonde è il suo mostrare le ferite inferte a MM come atto di testimonianza morale: avevamo qualcosa di prezioso fra le dita e l’abbiamo perduto. Non siamo stati in grado di capirla. Si è uccisa. L’hanno uccisa. O l’abbiamo uccisa anche noi che guardiamo MM a distanza di sessant’anni dalla sua morte? 

L’adattamento cinematografico sceglie di rinunciare a gran parte delle sfumature del personaggio raccontato nel romanzo di Joyce Carol Oates per concentrarsi sul suo ruolo di vittima di Hollywood: I fotografi, il pubblico, i produttori sono una schiera di volti voraci, quasi cannibaleschi, e ogni volta che NJ ha l’occasione di fuggire da MM accade l’irreparabile. Nel film questo evento si concretizza nell’esperienza dell’aborto, che la costringe ogni volta a tornare, quasi implorando, Marilyn, unico sistema identitario rimastole, per quanto reso disfunzionale dalla cecità del mondo stesso. 

Le discusse sequenze dei feti parlanti in Blonde sono il risultato dell’azzardata resa cinematografica di una metafora umana: se per NJ diventare madre significa instaurare un legame amoroso definitivo, partorire permette finalmente accedere ad un’altra identità costante oltre MM, un’altra funzione del corpo.

Scegliere dunque chi essere – e NJ voleva essere madre – prendersene la responsabilità, intraprendere strade diverse dalle aspettative altrui. Gli aborti in Blonde – cui seguono Gli uomini preferiscono le donne e A qualcuno piace caldo – sono momenti chiave in cui NJ sembra avere la possibilità di diventare liberamente la sé stessa che più le assomiglia. Ma non riesce a partorirsi, muore ancora in stato embrionale. Come dice la voce – ma chi è a parlare? Il bambino? Sé stessa? – sono sempre io.

Tutto il film è il dipanarsi di una terapia psicanalitica zoppicante, ripetutamente abortita e ritentata, la vicenda di una personalità che non riesce a liberarsi dalla rete crudele che le è stata gettata addosso. Vorrebbe salvarsi ma il suo corpo viene drogato, fatto abortire contro la sua volontà, picchiato, ingurgitato famelicamente dagli occhi della folla. Il disagio dello sviluppo narrativo così come viene inteso nell’opera di Andrew Dominik è così apertamente consapevole da lasciar ipotizzare, fra le righe un sentimento inaspettato, quasi struggente: la nostalgia e il senso di colpa. 

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4. Sparì come un pulviscolo d’oro: ricercando la luce perduta

C’è un aspetto ossessivo evidente nel film: la tentata riproduzione esatta delle fotografie e delle sequenze cinematografiche entro un contesto narrativo, così che l'immagine prenda vita e con essa Marilyn stessa. Questo desiderio quasi disperato di riavere ancora una volta, se non lei in persona almeno la sua esistenza simulata ispira un senso di partecipazione – quasi compassione – per una regia così innamorata dell’immagine di MM da esserne travolta e schiacciata.

La luminosità irradiata da MM in Blonde – sia nelle sequenze a colori che b/n – è infatti quasi accecante da dar l’idea di essere lei stessa ad accendere con la propria presenza i lampi dei flash fotografici. Nel ricordo più iconico, l’idea più autentica e sincera di ciò che è stata per il mondo, Truman Capote la ricorda svanire nella luce, parte stessa di essa, e così Adrien Brody, che già aveva dato voce allo scrittore americano nel documentario di Liz Garbus Love Marilyn, I Diari Segreti è ora l’Arthur Miller innamorato che la insegue mentre si getta nel chiarore più bianco.

Nella scelta narrativa più sostanzialmente diversa rispetto al libro Andrew Dominik fa morire MM suicida, o meglio uccisa dalla solitudine e dall’incomprensione che la circondavano. Quasi colpevolmente costringe il corpo morente dell’attrice in un’ultima posa, la finale offerta della propria bellezza; dopo di che la luce cala, pian piano, segno di qualcosa che è andato via per sempre. Sembra quasi, ispirati dalla lettura del romanzo di Joyce Carol Oates, di sentire allora una voce, un pensiero inespresso ma evidente in tutta la pellicola, qualcosa che riecheggia dallo stesso Capote: Marilyn, perché tutto doveva andare come è andato? Perché la vita deve essere un tale schifo? 

Eppure basta proprio questa profondissima nostalgia, capace di far fallire un film potenzialmente perfetto, a dirci che in fondo MM, forse senza saperlo, come altri geni della storia dell’arte, è stata amata esattamente per quello che era. Rimaniamo ancora magnetizzati dalla figura di Marilyn e dal suo talento, ma nei suoi occhi riconosciamo la Norma Jeane orfana trascurata, ma anche volenterosa ragazza pronta a tentare non solo di sopravvivere, ma perfino di esistere nel mondo. Non sapremo mai se questa donna sia mai riuscita a sentirlo veramente, ma noi sappiamo che meritava di essere amata. Se non altro, ci è rimasto questo. 

Bibliografia

Truman Capote, Musica per camaleonti, traduzione di Maria Paola Dèttore, Garzanti 2013.

Norman Mailer, Marilyn, traduzione di Andrea D’Anna, Baldini Castoldi Dalai Editore 2012.

Arthur Miller, Svolte. La mia vita, traduzione di Maria Teresa Marenco e Marco e Dida Paggi, Arnoldo Mondadori Editore 1988.

Marilyn Monroe, Fragments. Poesie, Appunti, Lettere, traduzione di Grazia Gatti, Feltrinelli Editore 2010.

Marilyn Monroe, La mia vita, traduzione di Andrea Mecacci, Donzelli Editore 2010.

Joyce Carol Oates, Blonde, traduzione di Sergio Claudio Perroni, La Nave di Teseo 2021.

Michel Schneider, Marilyn, ultimi giorni ultima notte, traduzione di Fabrizio Ascari, Bompiani 2007.

Anthony Summers, Dea. Le vite segrete di Marilyn Monroe, traduzione di Bruno Amato e Laura Battaglia, La Nave di Teseo 2022.

Donald H. Wolfe, Marilyn Monroe, Storia di un omicidio, traduzione di Francesco Saba Sardi, Sperling & Kupfer Editori 1999.

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