L'amnistia e la formica argentina

28 Ottobre 2013

“così fu un triste ritorno, ed era prevedibile. Ma a me spiaceva soprattutto aver visto come quelle donnette s’erano comportate. E mi venne un fastidio per chi va in giro a piagnucolare delle formiche che non l’avrei più fatto in vita mia, e mi veniva voglia di chiudermi in un orgoglio straziato come quello della signora Mauro, ma lei era ricca e noi poveri, e non trovavo la via, la maniera per continuare a vivere in questo paese, e mi pareva che nessuno di questi che conoscevo e che pure fino a poco prima mi erano parsi così superiori, l’avesse trovata o fosse sulla strada di trovarla”

Italo Calvino, La formica argentina



Il protagonista del romanzo di Calvino deve combattere, assieme agli altri abitanti del villaggio, l’invasione della formica argentina. C’è chi cerca di utilizzare insetticidi, chi le tortura, chi come il signor Baudino le nutre con una melassa leggermente avvelenata. “ Avevamo di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale”.

 

La cattiva gestione dell’emergenza della formica argentina, che affronta il protagonista del racconto di Calvino, ricorda molto l’incapacità italiana di trovare delle soluzioni efficaci e delle politiche di medio periodo sul problema del sovraffollamento carcerario e della gestione dell’esecuzione penale. Come nel racconto, anche stavolta la questione non è, di fatto, la risoluzione di un problema che non ha trovato esiti negli ultimi due secoli – nessuno si aspetta dalla classe politica la capacità di ovviare al carcere – ma la gestione raffazzonata che si accompagna al tema, la mancanza di intelligenza politica e di capacità di progettazione.

 

A distanza di sette anni dall’ultimo indulto, lo stato in cui versano le prigioni, parafrasando Dostoevskij, racconta la profonda inciviltà di quest’Italia, e la lenta e inesorabile erosione dei diritti dei suoi abitanti.

 

A gennaio 2013 la Corte Europea ha condannato l’Italia con una sentenza pilota, la “Torreggiani ed altri” nella quale, come le precedenti Sulejmanovic e Scoppola, si era accertata la violazione dell’art. 3, «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

 

 

In un paese in cui il reato di tortura non è previsto dal codice penale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna un’intera nazione per i trattamenti inumani e degradanti che le strutture detentive, fisicamente, impongono ai detenuti.

 

Sono le pareti fatiscenti, i muri delle docce ricoperti di muffe e muschi, la promiscuità perenne, le stanze da sei persone con una superficie di meno di 9m2 compresa la turca, sono i letti a castello a tre piani che bloccano le finestre e impongono le aperture e le chiusure stagionali delle finestre. Sono le 22 ore in cella, in quella medesima cella di meno di 9m2 in cui spesso si sta in attesa di giudizio. Giorno, notte. Finestra sempre aperta, finestra sempre chiusa. Nella prima fase della detenzione, molte volte non sono previste attività, quindi la quotidianità si svolge soprattutto in cella. Perché sono le case circondariali quelle che presentano i maggiori tassi di sovraffollamento. Detenuti in attesa di giudizio, pene brevi.

 

Paradossi della giustizia italiana, che impongono che le pene più lievi siano scontate in attesa della sentenza definitiva, un tempo giuridico che spesso coincide con il periodo stesso della detenzione e con quello delle misure cautelari, ingolfando, di fatto, il meccanismo d’ingresso in carcere. Anche perché le condanne più frequenti prevedono un periodo detentivo inferiore a 4 anni (e il reato più rappresentato è quello di spaccio), ossia i tempi di chiusura di un processo.

 

Sono state queste condizioni strutturali, tralasciando le vicende umane e le possibili vessazioni in cui si può incappare in un percorso detentivo, che hanno portato alla sentenza Torreggiani, al messaggio di Napolitano, alla richiesta di una serie di interventi significativi entro il maggio 2014. La vicenda Berlusconi e il cortocircuito sulla figura di un condannato ad hoc hanno reso farsa quella che, da più parti, e alla luce di sentenze della CEDU, è stata definita una vera e propria ‘emergenza umanitaria’. La personificazione della legislazione, come quella della giustizia, rischia di rendere vana un’occasione per il nostro paese: ripensare le proprie carceri, avvicinare maggiormente il termine giustizia al significato originario, riflettere sul senso e sulle funzioni della reclusione, soprattutto per pene brevi, soprattutto per reati bagatellari.

 

I dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 30 settembre 2013 bastano per giustificare l’allarmismo e la necessità di una sollecitazione presidenziale: nei 205 istituti di pena italiani, che potrebbero ospitare come capienza regolamentare 47.615 ristretti (in via ipotetica, perché il numero non considera gli spazi inagibili) sono recluse 64.758 persone, 22.770 stranieri, 12.333 in attesa di giudizio.

 

Dal 91, quando post ultima amnistia i detenuti presenti erano 31.053, i numeri sono tendenzialmente cresciuti (solo nel 2006 si abbassa la cifra a 39005 con l’indulto), con il picco del giugno 2010 che ha registrato 68.258 presenze.

 

 

Amnistia non è solo il nome dell’intervento di natura eccezionale che prevede lo Stato italiano all’art. 79 della Costituzione, usato ciclicamente (in abbinata all’indulto) dai governi per la gestione straordinaria dei flussi detentivi, al fine, dichiarato, della pacificazione sociale, ma è anche il processo di dimenticanza con cui nel dibattito recente si è parlato, realmente, di carcere. Al contempo, l’arena pubblica è stata sempre più affollata da domanda di “giustizia” che si traduce, fondamentalmente, in domanda di penalità. Nel discorso pubblico e mediatico, le pene sono sempre troppo “brevi” e l’insicurezza crescente, la domanda emotiva e giustizialista in costante aumento.

 

Se l’ultimo indulto è del 2006, preceduto dal c.d. “indultino” del 2000, si deve tornare al 1990 per avere l’intervento clemente dello Stato. Ma dal 1990 al 1945, a ritroso, si contano 24 interventi di clemenza.

 

Negli ultimi 22 anni, nonostante alcune misure straordinarie la popolazione carceraria italiana ha sempre superato la soglia della capienza delle strutture detentive. Qualcuno risponderebbe: “Basterebbe costruire nuove carceri, e tutto sarebbe risolto”. Ma l’argomento è pernicioso, perché la questione non è semplicemente quante persone si trovano nelle carceri italiane, ma perché queste persone si trovano lì, in prima istanza e in seconda istanza, se il carcere è l’unica nonché la migliore soluzione possibile per risolvere il percorso giuridico.

 

I dati del ministero dell’Interno parlano, infatti, di una generale diminuzione dei reati, soprattutto dei reati violenti contro la persona e contro il patrimonio.

 

Perché, se i reati calano, i detenuti continuano ad aumentare? Le ragioni sono molteplici, ma una forte responsabilità va attribuita all’allungamento delle pene inflitte, in parte a causa dell’inasprimento del trattamento penale delle condotte (si possono richiamare una serie di interventi emergenziali come la legge Fini-Giovanardi sul consumo di sostanze psicotrope, il c.d. pacchetto Sicurezza, il ddl Carfagna, il recente ddl “Femminicidio”), in parte per il raddoppio di pena sulla recidiva previsto dalla c.d. legge ex Cirielli. A parità di azione, ora si va in carcere per più tempo, e se si ripete il reato, le pene aumentano in modo esponenziale.

 

Non solo: il tema del carcere è l’ultimo anello del lungo discorso securitario che inizia con le politiche di gestione degli spazi urbani nelle città e finisce nella domanda di penalizzazione di tutte le condotte “irregolari” rispetto alla moralità, al decoro, ma, in seconda battuta la modello di vita e di ricchezza che non dovrebbe essere mai messo in discussione da figure “visibili” e disturbanti. Come i migranti.
Il processo di criminalizzazione dei migranti è un fenomeno che ha contraddistinto la recente storia penitenziaria. La proporzione tra stranieri e italiani dentro e fuori le nostre carceri differisce parecchio.

 

La percentuale inframuraria aumenta significativamente. E questo non perché, come direbbero i detrattori, gli stranieri delinquono di più. Senza addentrarsi in analisi strutturali sull’accesso al mercato del lavoro formale, e al controllo e all’alimentazione costante del mercato dell’informale attraverso politiche amministrative di regolarizzazione più severa, sono le norme vetuste e modellate su ristretti italiani e residenti che rendono il carcere e i percorsi di uscita da esso più ostici per i migranti, sia prima, sia durante, sia nella fase di reinserimento nella società. Il domicilio ufficiale, ad esempio, è prerequisito necessario per la detenzione domiciliare (sia in fase cautelare sia nel fine pena), la presenza di una rete familiare come garanzia, il possesso di un permesso di soggiorno per l’uscita come lavorante ex art. 21, la possibilità di pagare un legale di fiducia soprattutto nei moltissimi processi di direttissima per spaccio che vengono effettuati spesso anche in assenza di un traduttore legale.

 

 

Quest’insieme di fattori fanno sì che a parità di crimine (lieve) i percorsi penitenziari si differenzino sulla base di criteri economici, familiari, sociali. E’ questo che ha significativamente trasformato le nostre patrie galere: una sottile discriminazione procedurale che rende le persone più diseguali davanti alle sbarre che davanti alla barra del giudice. Non ci sono responsabilità dolose, ma un meccanismo colposo che ha incancrenito e rallentato i passaggi tra amministrazione penitenziaria, tribunali di sorveglianza ed esterno, rendendo sempre più lettera morta la funzione rieducativa della pena, tanto cara a Beccaria e ai Costituenti, e tramutando le carceri in stanze di contenzione delle marginalità. Gli indigenti, i migranti, i pazzi.

 

Per questo gli interventi di clemenza dell’amnistia e dell’indulto sono auspicabili, ma non risolutivi. Sono solamente una prima misura per dare respiro alle persone ristrette e poter iniziare a ripensare come cambiare il carcere, come dare dignità alla funzione punitiva.

 

Qualcosa si sta muovendo, a partire dal ddl Severino del 2010 e grazie ad alcune sentenze coraggiose della magistratura di sorveglianza (come il differimento di pena per inumanità del carcere stabilito con ordinanza il 18 febbraio 2013 dal Tribunale di Venezia) e al lavoro della commissione sul Sovraffollamento (presieduta da Mauro Palma) i primi risultati si vedono, anche se questi interventi mantengono la natura emergenziale e non risolvono la questione primaria: perché le carceri si riempiono a dismisura? Perché le marginalità subiscono maggiormente la pressione penale? Perché la funzione punitiva ha assunto le forme di un distorto stato sociale?

 

Non basta cambiare le statistiche penitenziarie per combattere la metaforica formica argentina del sovraffollamento e dell’inumanità delle galere. E’ sicuramente un inizio, ma non è che il primo passo di un percorso che si snoda in molte tappe, dalla riforma del codice penale, con un’armonizzazione delle pene rispetto ai crimini e la depenalizzazione dei reati lievi che possono essere trattati attraverso i percorsi di misure alternative (e.s. le comunità per i reati connessi alle sostanze psicotrope); passando per il ripensamento della funzione rieducativa (che è stata oramai svuotata di significato), per l’implementazione il lavoro dei detenuti (non come forma di sfruttamento ma come forma di riabilitazione – sociale – e di presa in carico della marginalità) sino ad un cambiamento strutturale della cultura giuridica.

 

Il giustizialismo alimenta il meccanismo del boom penitenziario come la melassa del signor Baudino fa con la formica argentina, riempie le parole e i discorsi di una domanda violenta di coercizione, affolla le celle ed erode a poco a poco quel che resta dello stato di diritto. Solo il garantismo può salvare dalle leggi ad personam, dalle storture normative frutto di emotività come il reato di clandestinità. Solo il garantismo può offrire la bussola per orientarsi nel ginepraio del sistema penitenziario, rendere il paese un po’ più civile, e le nostre carceri meno inumane.

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