Speciale
Le belle e le bestie: Max Mara e Unicredit
Al giorno d’oggi l’architettura è diventata oggetto dell’interesse di molte persone. Non che negli ultimi tempi sia considerevolmente aumentato il numero degli appassionati o degli esperti. Piuttosto è cresciuta la nostra attenzione nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. E con sempre maggiore frequenza il nostro habitat “naturale” è l’ambiente urbano, costituito essenzialmente di edifici.
Gli edifici che ci circondano nella maggior parte dei casi ci lasciano indifferenti; in qualche occasione riescono a entusiasmarci; in molte altre hanno la capacità di ferire la nostra sensibilità. Con una forza che solo l’architettura – in quanto “arte” sociale e spaziale – possiede, essa è in grado di comunicarci un senso di esaltazione e di pienezza, ma anche di disturbarci, se non addirittura di urtarci letteralmente, di rovinarci la vita. Se alla prima categoria di edifici appartengono rari ma preziosi splendori, la seconda è invece pullulante di insopportabili orrori.
Al di là di ciò ch’è immediatamente intuibile, gli uni sono quegli edifici che, alla bellezza formale, sanno unire l’appropriatezza, la pertinenza, la capacità di non assolvere semplicemente alle proprie funzioni ma anche di “arricchire” i luoghi in cui sorgono, e di conseguenza anche noi; gli altri si distinguono invece per l’invadenza dimensionale, la mancanza di grazia, la volgarità, la banalità, l’erroneità, la stupidità, in una sola parola per la profonda inutilità, che ai nostri occhi costituisce uno sfregio del buon senso e uno spreco di risorse.
Dopo la comune battaglia condotta contro il pessimo progetto sull’area ex Enel a Milano, doppiozero e gizmoweb (autore collettivo del volume MMX Architettura zona critica, Zandonai 2010) propongono ora la rubrica “Le belle e le bestie”. Suo intento è quello di segnalare gli splendori e gli orrori presenti nelle nostre città e nei nostri paesi. Edifici meravigliosi ed edifici mostruosi; edifici amabili ed edifici detestabili; edifici provvidenziali ed edifici malefici. Edifici che non si cesserebbe mai di guardare ed edifici che si vorrebbe soltanto veder scomparire.
L’affermazione di una solitudine possibile
Il paesaggio storico e morfologico del territorio emiliano entra con dichiarata intensità nel progetto della sede principale di Max Mara a Reggio Emilia, completata nel 2004 dallo studio John McAslan&partners e con il progetto paesaggistico dello studio di Peter Walker.
La grande estensione degli spazi verdi - 45.000 metri quadri - che circonda e protegge l’edificio, è un naturale legame con l’intorno e determina un habitat interno del tutto rarefatto, estraniato dall’inquinamento acustico e visivo e dai ritmi frenetici che il fiancheggiamento dell’autostrada A1 e del tracciato dell’alta velocità potrebbero determinare.
Le esigenze funzionali della tipologia classica - palazzine per uffici e magazzini di stoccaggio, oltre allo showroom per le sfilate e ad una grande mensa aziendale – vengono smontate, asciugate e ricomposte alla luce di alcuni principi generali, in particolare la logica dei percorsi, reali e visivi, che incide i tre volumi a corte degli uffici, attraversandoli. Questa modella il piano di calpestio, realizzando successioni di patii alberati e di ampie logge, luoghi contemporaneamente coperti e scoperti, interni ma anche di connessione esterna. Sorprende l’accuratezza delle scelte visuali che caratterizzano gli spazi – lunghi filari di pioppi che si connettono ortogonalmente con solitari passaggi d’acqua - e che sono determinate da una conoscenza specifica dei caratteri geografici, materiali, architettonici dell’area.
La costruzione dei fronti fa ricorso a un disegno omogeneo quanto discreto di pannelli prefabbricati rivestiti in mattone faccia a vista, alternato a grandi vetrate che anche in inverno consentono la percezione diretta della natura intorno e dentro l’edificio, assecondando una lettura del costruito quale tessuto scenografico ma non spettacolare. Allo stesso modo la pavimentazione dei percorsi esterni entra negli spazi comuni degli interni, nella duplice azione di filtro tra paesaggio e costruito, e aiutando a separare le funzioni accessorie dagli spazi serviti. Ciò permette agli spazi interni di avere una caratterizzazione più intima in cui la domesticità a piccola scala diventa preziosa nel rituale quotidiano del lavoro.
Brunella Angeli
Disattese promesse di urbanità
Nel documento d’inquadramento delle politiche urbanistiche enfaticamente titolato Ricostruire la Grande Milano si legge: “la finalità urbanistica di ricostruire la Grande Milano è perseguibile a condizione che: 1) si ampli il mercato urbano; 2) si realizzi un nuovo modello di organizzazione spaziale; 3) si realizzi un miglioramento della qualità ambientale e urbana.”
A lavori quasi ultimati, sembra oggi possibile mettere in relazione questa dichiarazione d’intenti con la nuova sede del gruppo Unicredit firmata César Pelli.
Lo sforzo compiuto dall’amministrazione milanese per incoraggiare l’iniziativa imprenditoriale in campo immobiliare è testimoniato dall’ingente numero di cantieri che hanno rivoluzionato lo skyline cittadino.
Il nuovo “modello di organizzazione spaziale” adottato è stato definito “T rovesciata”: sviluppato da sud-est a nord-ovest esso deve “garantire un’efficiente relazione tra la città e il sistema aeroportuale e mettere in gioco nuove aree di maggior dimensione, di miglior accessibilità e di prezzi più competitivi di quelli delle aree centrali.”
Il nuovo headquarter di Unicredit si trova proprio all’intersezione degli assi strategici individuati dal piano, a fianco della stazione Garibaldi, oggi sede della linea dell’alta velocità.È evidente che radunare le varie sedi amministrative nel nuovo complesso di edifici costituisce per Unicredit, oltre che una scelta di carattere rappresentativo, uno strategico risparmio in termini di affitto, manutenzione, spostamento dei dipendenti etc.
La disposizione planimetrica degli edifici tenta di interpretare architettonicamente la posizione di fulcro che il progetto viene ad assumere all’interno del masterplan dell’intera area di Garibaldi, Isola e Varesine: i tre edifici di altezza crescente concludono l’asse determinato dai nuovi interventi su Viale della Liberazione avvolgendosi attorno a una piazza centrale rialzata 6 metri rispetto alla quota stradale; l’inviluppo culmina nell’inutile antenna spiraliforme che rende la torre maggiore del complesso la più alta d’Italia.
Solo concedendo all’iniziativa imprenditoriale ampio raggio d’azione (e di profitto!) l’amministrazione comunale può costruire la tronfia immagine della nuova “Grande Milano”, attraverso architetture dal generico sapore internazionale, “specchio fedele della sfarzosa spersonalizzazione con cui il capitalismo mondiale richiede di essere rappresentato” (Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea II, Einaudi, Torino 2008). Resta da chiedersi cosa ottenga la cittadinanza in termini di “qualità ambientale e urbana”.
Del complesso di Pelli impressiona proprio la carenza qualitativa che investe tanto la progettazione delle torri quanto l’organizzazione dello spazio pubblico centrale.
Il tema della sostenibilità ambientale, su cui tanto insistono le brochure pubblicitarie, si concretizza nel mero raggiungimento del punteggio sufficiente all’ottenimento della certificazione LEED; a tal fine il riutilizzo dell’acqua di falda per gli impianti di climatizzazione e il posizionamento di pannelli solari in copertura del portico centrale sono misure più che sufficienti.
Il progetto del podio rialzato, invece, mette in atto pratiche coercitive che evidenziano una tendenziosa interpretazione di cosa debba essere una piazza: lo spazio centrale ospiterà un’enorme vasca d’acqua e i pedoni saranno convogliati ai margini di essa, all’ombra del ring porticato dove saranno presenti gli esercizi commerciali.Lo specchio d’acqua è interrotto solo da due passaggi pedonali radiali e da tre fori che permetteranno l’uscita delle esalazioni dei parcheggi sottostanti, presenti ai piani inferiori. Al piano 0 troveranno spazio negozi e bar e, al piano -1, il supermarket.
L’aspetto meno convincente della nuova Grande Milano è proprio la scarsa qualità urbana degli spazi a uso pubblico. È difficile immaginare che possano svolgersi le più comuni pratiche sociali in uno spazio circolare così introverso e carente persino dell’elemento che più caratterizza una piazza: il suolo calpestabile.
Anna De Rose