"Meschino attaccabrighe" / Le parole e parolacce che dicono i bambini
Dubito che possa passare come definizione scientifica ma, a grandi linee, le parole che scegliamo di usare nei momenti d'ira vengono da quella pozzanghera grigia che nel cranio diventa mare, inonda tutto il resto e fa restare a galla cinque parole in maiuscolo. Una manciata di parolacce facili, facili. È un discorso che vale per gli adulti così come per i bambini, tipo mia figlia. Lei ha quattro anni e c'è una cosa che più delle altre in questi giorni mi sta rendendo orgoglioso. Quando la sgrido e la costringo a fare qualcosa che assolutamente non vuole fare, e strepita per qualche minuto, poi, al culmine della disperazione, sfoga tutta la rabbia nei miei confronti con una pernacchia bagnata di saliva e lacrime. Non lo dico per apparire sadico ma per l'esatto contrario. Avrebbe potuto, ne avesse avuto conoscenza, sostituire quella pernacchia arrabbiata con parole tipo “babbo sei una merda”.
Certo, anche con “padre, siete stato meschino e irrispettoso dei miei giovani anni”, ma questa seconda frase sarebbe stata palesemente finta. Perché noi in casa non parliamo come nel caso appena citato anche se, d'altro lato, tra adulti non ci rincorriamo in cucina insultandoci ferocemente ma è probabile che il linguaggio di tutti i giorni sia tendente a “pezzo di merda”, o ad altro che non sto a dire perché ci siamo intesi, piuttosto che a “meschino attaccabrighe”. Quella sua pernacchia era a tutti gli effetti un insulto urlatomi in faccia, il più violento, e dopo tutti i “no” che aveva in gola era, tra le armi a sua disposizione, la più potente e definitiva. Per questo ho sorriso.
Perché mi fa felice come ancora oggi il mio autocontrollo, dove magari non è arrivata la mia buona educazione, lo concedo, mi abbia permesso un freno ulteriore in presenza di mia figlia. Quando accadrà sarò curioso di capire quali parole sceglierà per insultarmi. Credo che al primo “stronzo” che riceverò finirò in camera, steso sul letto a piangere.
Ricordo il mio esperimento da bambino quando decisi che ero pronto per dire una delle prime parolacce alle orecchie dei miei genitori. Avevo qualche anno in più di mia figlia oggi. Scelsi la mamma, mentre guidava ed io ero al suo fianco. Il concetto che volevo esprimere in maniera volgare e brutale era “che noia”, e cominciai un giro larghissimo iniziando a dire “che pala”, “che vanga” e chissà quali altri attrezzi prima di arrivare alla “sega” che era l'obiettivo finale. Ricordo il suo sguardo e la tensione dentro la macchina.
Non so come andrà con Anna ma tra poco probabilmente assocerà alcune parole sentite in casa o nei cartoni animati, tipo “stupido”, o altre come “cazzo”, “puttana” e via dicendo che si ascoltano nelle canzoni tormentoni per radio, come nei centri estivi, come nei negozi e via dicendo, a situazioni come quella di cui sopra e allora dimenticherà la sua pernacchia. Se dovrà offendere per un motivo che la farà arrabbiare tanto da sentirsi bruciare allora non avrà tempo di mettersi a sperimentare. Andrà diretta.
Credo che dovrò aspettare qualche anno prima di sentirmi insultare in maniera più ricercata, anche senza arrivare al “meschino attaccabrighe”, poiché tutto intorno a lei converge in altre basiche direzioni.
La differenza nell'uso e nella scelta delle parolacce, ma soprattutto delle semplici parole usate quotidianamente la fa lo stato emotivo in cui ci si trova. Sotto stress cambiamo noi e loro fanno altrettanto. Quando invece c'è tranquillità il gioco si fa divertente. Anzi, comincia. In questo caso è enorme la distanza tra le parole semplici e quelle più ricercate. Con le prime inviano comunicazioni di servizio, con le altre giocano. Soprattutto se in gruppo o per orecchie che non sono le solite.
Già a 4 anni sono capaci di collegare frasi sentite qua e là e preparare una strategia volta non ad offendere ma ad attrarre.
Una sera abbiamo cenato con amici che Anna non aveva mai visto prima. Gli sono stati subito simpatici. Lui di più. Molto di più, tanto che a un certo punto gli ha chiesto se avesse voluto sposarla. E poi ha chiuso con “mi concede questo ballo?”.
Mi concede questo ballo? ho pensato dopo essere rinvenuto. Mi concede questo ballo?, è roba che viene da qualche cartone animato. Non credo abbia mai sentito due esseri umani dirsi una frase come questa. Alle sagre, dalle mie parti, Mi concede questo ballo non lo dicono nemmeno per fare uno scherzo. Non guardiamo nemmeno gli sceneggiati in tv, quindi deve essere una cosa pescata in qualche cartone. Così cerimoniosa e ufficiale che la associa, mi viene da dire “di già”, e molto cinematograficamente, ad un momento speciale. Anche lo sguardo e il sorriso seguente avevano un linguaggio teatrale, per mandare un messaggio che doveva essere chiaro e che non poteva condividere con parole semplici.
Male, malissimo, ho pensato di nuovo, ma intanto è quello che ha filtrato dalle sue esperienze di bambina, cioè che per dire cose importanti servono parole che non usa quasi mai. È il contrario, ma è giusto che faccia i suoi esperimenti e arrivi alle sue conclusioni col tempo.
È un episodio che mi ha ricordato un pomeriggio di un paio d'anni fa in un parco giochi dove alcuni bambini si rincorrevano con dei rametti spezzati stretti in mano e che servivano da spade per i loro duelli. Anche quei bambini usavano parole che non erano le loro né delle loro famiglie, ma arrivavano dai Pirati dei Caraibi (o parenti stretti) ed era tutto un “marrano” e “fermati vile, ti faccio assaggiare la mia spada” e cose del genere.
Giocano con le parole, ed è un gran bel gioco. Andrebbero incoraggiati, non derisi (se va male) o ignorati (quando usano termini che ci spiazzano).
Siccome i giochi devono durare poco, quasi per definizione, ecco che una volta finito quello si torna nei ranghi. Anche se il compito degli adulti dovrebbe essere quello di aiutarli a sperimentare. I bambini si divertono con i suoni e poi con le parole e dovrebbero essere incoraggiati a farlo a lungo altrimenti da adulti saranno disabituati a tutto, impauriti anche al pronunciare un “ti amo” quando ne riconosceranno l'occasione, per sostituirlo con un pugno sudato chiuso in tasca o con un rimpianto. Oppure il contrario del “ti amo”, che è sempre meglio far presente a parole piuttosto che esternare con una testata in faccia quando ci si sente stretti in un angolo.